Si parla molto, moltissimo, della partecipazione del Presidente dell’Ucraina al Festival di Sanremo, dove sarà presente con un video di qualche minuto. Si parla di questo evento come un tema da bar, principalmente. E cioè se è opportuno, o no. Ecco fatto, gli italiani si dividono tra chi è a favore e chi è contro, Milan-Inter, Bartali e Coppi, comunisti e anticomunisti, terroni e polentoni. L’opposizione binaria, quella che ci dà l’illusione di partecipare a un dibattito pubblico, senza darci alcuna possibilità di esprimere “un punto di vista”, chiarendone le premesse. Insomma, sviluppando un ragionamento fondato sulla logica (principio di non-contraddizione, come voleva già Aristotele 2500 anni fa) e sulla documentazione (come voleva Erodoto più o meno dagli stessi tempi).
Vi sono anche quelli più riflessivi, si capisce, specie se considerano negativamente l’evento, sforzandosi di argomentare la loro posizione. Moni Ovadia, un attore che ammiro, insieme a molti altri intellettuali e artisti che stimo, dice “no alla spettacolarizzazione della guerra”. Non gettiamo la violenza armata e il suo dolore, nel grande intruglio della pubblicità dell’ultima macchina della Renault (bellissima), della nuova canzone di Giorgia (che adoro), della fulminante battuta di Fiorello (il miglior comico d’Italia dopo Totò, Alberto Sordi e Massimo Troisi).
Così dice Moni Ovadia. E’ un punto di vista che condivido, per il conflitto ucraino e in generale, ben consapevole tuttavia che questa figura della comunicazione di guerra -la costruzione di un’estetica della battaglia- è un ferro di lancia delle culture guerriere: mitologiche, sacrali o artistiche che siano.
E tuttavia, non vorrei sottovalutare un aspetto che nel mio libro su “Geopolitica, informazione comunicazione nella crisi russo-ucraina” considero assolutamente centrale nella condotta di questa guerra. E mi riferisco al tema della “televisione cerimoniale” sviluppato da D. Dayan e R. Katz, nella costruzione di quelli che essi chiamano “eventi mediali”. La televisione cerimoniale ha lo scopo primo ed ultimo di trasformare un evento qualunque (la finale del mondiale di calcio oppure il funerale della regina Elisabetta II) in una “cerimonia” appunto, ossia in un accadimento che si basa su certi principi (impliciti, ossia mai enunciati) e si svolge su certe regole (che si desumono da ciò che vediamo) e che appaiono dunque come “la norma” a cui ispirarsi per la fabbricazione della propria opinione (il calcio è il gioco più bello del mondo, Elisabetta II è stata un simbolo alto di un’istituzione che vale, oggi come ieri e come domani, quella monarchica). Si elabora il proprio convincimento e, di conseguenza, il proprio comportamento. E attenzione: si tratta di “normativizzazione”, non di normalizzazione. Per quanto sia in atto una certa tendenza verso quest’ultima, sotto forma di “stanchezza”, di “assuefazione” della pubblica opinione, è sulla “normativizzazione” che ora insistiamo, vale a dire su un processo di tipo autoritativo, dove atti e credenze della gente sono disciplinati in qualche modo dall’alto in base alla ritualizzazione mediale dell’evento.
I luoghi dove Zelensky è stato per pronunciare il proprio monocorde discorso -armi, armi, armi!- non si contano più ormai. E, in realtà, non ha importanza quali siano. Per la metamorfosi cerimoniale dell’evento che vogliamo ritualizzare, non ci sono luoghi adatti o meno adatti: Sanremo vale Davos, vale il Parlamento tedesco, vale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, vale il Festival di Cannes. Ciò che conta è che si tratti di istituzioni cerimoniali dell’Occidente, di cui l’Ucraina, la guerra ucraina, fanno parte. Una delle ragioni per cui il conflitto continua ad oltranza, va ricercata proprio in questa trasformazione dello scontro armato in un “evento mediale” di tipo cerimoniale.
Zelensky vince alla grande, fin dall’inizio, la tenzone mediatica perché, vestito con abiti militari che non ha fatto in tempo a togliersi, ci dice che il fragore che ascoltiamo è quello della n.o.s.t.r.a battaglia. E che le armi che chiede, sono per combattere, lui è il suo popolo, la battaglia della democrazia e della difesa del diritto internazionale, vale a dire, in buona sostanza, la battaglia dell’Occidente. E ciò, nonostante il sentimento affievolito dei popoli occidentali nei suoi confronti, e nonostante la riluttanza di Paesi come la Germania –e ormai anche degli USA, in parte almeno- a fornire i mezzi per proseguirla. Anzi, proprio per questo ormai Zelensky preme fino allo spasimo per avere armi più numerose e sempre più sofisticate, e per averle subito. Prima che lo stimolo dell’evento mediale e della televisione cerimoniale si indeboliscano al punto che non sarà più sentito, come è probabile succeda a Washington a partire dalla prossima estate, quando cominceranno le danze per l’elezione presidenziale dell’anno che viene.
Come abbiamo detto più volte, pensiamo che l’Ucraina, ben oltre le retoriche universalistiche, sia il suo popolo e il suo territorio. Un popolo che muore, che viene smembrato, e patisce dolori tremendi; e un territorio che viene distrutto, nei suoi elementi costitutivi, sia materiali che simbolici. E non saprei dire, francamente, quanto i suoi governanti, eletti per fare una cosa (la politica) siano legittimati a farne un’altra (la guerra), impostando le relazioni internazionali dell’Ucraina in una logica di conflitto non solo nel breve, ma nel lungo periodo. Di là da ogni successo televisivo-cerimoniale, di là da ogni normativizzazione più o meno riuscita, che celebra la cupa risolutiva imperiosità delle armi, la turpe razionalità della violenza organizzata, ed impedisce una restaurazione della politica. Ostacolando, si capisce, un serio avvio di negoziato, in questo conflitto che ha perso di vista la realtà e si svolge su un piano sempre più dominato dalle regole mediali e dagli effetti che esse producono.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Si infiammano i rapporti già tesi tra la Francia e l’Algeria per la sorte di Boualem Sansal, lo scrittore algerino che da qualche mese ha ottenuto anche la nazionalità francese. Da sabato scorso, quando è stato arrestato all’aeroporto di Algeri, non si sa più nulla di lui. Settantacinque anni, da 25 impegnato da scrittore contro il potere di Algeri e i cedimenti all’integralismo islamico, potrebbe – secondo fonti algerine – essere processato per “violazione dell’unità nazionale e dell’integrità nazionale del Paese”. Preoccupati i familiari, gli amici, i sostenitori, mobilitata la stampa e il mondo degli intellettuali francesi, silenzioso il governo di Parigi con l’eccezione di Emmanuel Macron, che ieri sera ha espresso pubblicamente la sua forte preoccupazione.
L’arresto di uno degli intellettuali più critici contro il potere di Algeri ha inasprito i già tesi rapporti tra Francia ed Algeria, che avevano fatto toccare proprio nelle scorse settimane nuovi picchi per la visita di Macorn in Marocco e i toni di grande vicinanza col regno di Mohammed VI. Oggi anche l’editore francese Gallimard, che pubblica le opere di Boualem Sansal fin dall’uscita del suo libro più famoso, ‘Le serment des barbares’ (Il giuramento dei barbari), si è detto “molto preoccupato” e ha chiesto la “liberazione” dello scrittore. “Sgomento” ha espresso per l’arresto di Sansal anche la sua casa editrice italiana, Neri Pozza.
Dopo l’intensificarsi della pressione mediatica sulla sorte dello scrittore, l’Algeria è uscita oggi duramente allo scoperto attraverso la sua agenzia di stampa, accusando Parigi di essere covo di una lobby “anti-algerina” e “filo-sionista”. L’agenzia Aps conferma, nella sua presa di posizione, l’arresto di Sansal e attacca senza mezzi termini Parigi, la “Francia Macronito-sionista che si adombra per l’arresto di Sansal all’aeroporto di Algeri”. “La comica agitazione di una parte della classe politica e intellettuale francese sul caso di Boualem Sansal – scrive l’agenzia di stato – è un’ulteriore prova dell’esistenza di una corrente d’odio contro l’Algeria. Una lobby che non perde occasione per rimettere in discussione la sovranità algerina”. Si cita poi un elenco di personalità “anti-algerine e, fra l’altro, filo-sioniste” che agirebbe a Parigi, e del quale farebbero parte “Éric Zemmour, Mohamed Sifaoui, Marine Le Pen, Xavier Driencourt, Valérie Pécresse, Jack Lang e Nicolas Dupont-Aignan”.
Ad offendersi, secondo l’Aps, è uno stato che “non ha ancora dichiarato al mondo se ha la necessaria sovranità per poter arrestare Benyamin Netanyahu, qualora si trovasse all’aeroporto Charles de Gaulle!”. L’agenzia passa poi all’attacco diretto di Macron e di Sansal stesso: il presidente che “torna abbronzato da un viaggio in Brasile” scrive Aps, parla di “crimini contro l’umanità” in Algeria ricordando la colonizzazione francese “ma prende le difese di un negazionista, che rimette in discussione l’esistenza, l’indipendenza, la storia, la sovranità e le frontiere dell’Algeria!”, riferendosi a Sansal. Nel suo primo e più celebre libro, Sansal racconta la salita al potere degli integralisti che contribuì a far precipitare l’Algeria in una guerra civile negli anni Novanta. I libri di Sansal, editi in Francia, sono venduti liberamente in Algeria, ma l’autore è molto controverso nel suo Paese, in particolare dopo una sua visita in Israele nel 2014.
E’ un appello accorato quello che arriva dall’Egitto dalla madre di Elanain Sharif, quarantaquattrenne nato in quel Paese ma cittadino italiano, fermato al suo arrivo in aeroporto al Cairo. “Sono molto preoccupata perché mio figlio sta male. Aiutatemi, lui ha bisogno di me e io di lui. Non so cosa fare” ha detto la donna con un audio diffuso tramite il legale che l’assiste, l’avvocato Alessandro Russo. E proprio per accertate le condizioni in cui è detenuto, le autorità italiane hanno già chiesto a quelle egiziane di poter effettuare una visita in carcere, alla quale dovrebbe partecipare anche la donna, e sono in attesa di una risposta. Sharif è accusato di produzione e diffusione di materiale pornografico.
Si tratta di reato, secondo la normativa egiziana, punibile con una pena da 6 mesi a tre anni. Il capo di imputazione è stato comunicato dal Procuratore egiziano al legale del 44enne e in base al codice penale egiziano, un qualunque cittadino di quel paese che commette un reato, anche fuori dall’Egitto, può essere perseguito. Un principio giuridico analogo a quello previsto dal nostro ordinamento. L’ex attore porno è stato già ascoltato dal procuratore che ha convalidato il fermo per 14 giorni, disponendo che il caso sia nuovamente riesaminato il 26 novembre. Le Autorità egiziane stanno infatti attendendo il risultato della perizia tecnica sul materiale presente online. Dopo il fermo all’aeroporto, il 9 novembre, l’uomo si trova ora nel carcere di Giza. “E’ stato messo in carcere appena siamo arrivati in aeroporto” ha detto ancora la madre di Sharif dall’Egitto.
“Non posso sapere come sta – ha aggiunto – perché non riesco a parlarci e sono molto preoccupata”. Sono in particolare le sue condizioni di salute a preoccuparla perché, ha spiegato, “mio figlio ha subito tre interventi alla schiena, l’ultimo 30 giorni fa a Londra”. Dal giorno in cui è stato bloccato la madre ha incontrato un paio di volte il figlio. “La prima – ha detto il legale – il giorno dopo a quello in cui era stato preso in consegna dalle autorità, in carcere al Cairo e poi dopo cinque o sei giorni trasferito dove è ora e l’ha visto sempre per un paio di minuti”. Sharif e la madre erano atterrati al Cairo provenienti dall’Umbria. Vive, infatti, da alcuni anni a Terni mentre la madre è residente a Foligno ed è sposata con un italiano.
“In aeroporto è stato tenuto a lungo negli uffici della polizia e poi la madre lo ha visto uscire con le manette ai polsi – aveva ricordato ieri il legale – Le procedure di arresto sono state fatte utilizzando solo il passaporto egiziano, quello dell’Italia gli è stato restituito alcuni giorni dopo”. L’avvocato Russo ha poi spiegato che la madre si trova ancora in Egitto “assieme al fratello, che lavora nella polizia egiziana, e spera di avere notizie di un suo rilascio”. Con la donna, e con gli avvocati italiano ed egiziano e le autorità del Cairo, sono in contatto fin dall’inizio della vicenda sia l’ambasciata italiana sia la Farnesina.
La Corte suprema ha raggiunto la maggioranza dei giudici per rigettare gli appelli e mantenere in carcere l’ex calciatore Robinho. L’atleta è detenuto in Brasile dal 22 marzo e sta scontando una condanna a nove anni per uno stupro di gruppo commesso in Italia nel 2013. Finora sei giudici hanno votato per respingere la richiesta di scarcerazione di Robinho. Si tratta del relatore del caso Luiz Fux, oltre ai giudici Edson Fachin, Luís Roberto Barroso, Cristiano Zanin, Cármen Lúcia e Alexandre de Moraes. Solo Gilmar Mendes ha votato a favore. Il processo si conclude il 26 novembre.