Collegati con noi

In Evidenza

Weber frena su alleanze a destra ma non chiude a Meloni

Pubblicato

del

Nessuna alleanza con chi vuole la distruzione dell’Ue, chi vuole dialogare con i Popolari “deve dimostrare di essere al fianco di quest’Europa”. Alla vigilia di un autunno caldissimo sul fronte politico europeo Manfred Weber, è tornato a sottolineare quella che più volte ha definito come la ‘linea rossa’ per poter sedere in maggioranza con il Ppe. Il capogruppo e presidente dei Popolari, in un’intervista alla Zdf, ha ribadito con nettezza le sue condizioni. Parlando ad una Germania che assiste preoccupata all’ascesa di Afd ma anche a chi, nel suo partito, da tempo lo accusa di eccessiva accondiscendenza verso le destre. Ma Weber è tornato anche a sottolineare di non voler chiudere le porte a tutti. Non certo a Giorgia Meloni.

“Penso che faremmo un grosso errore se la mettessimo sullo stesso piano Afd”, ha puntualizzato. La sortita di Weber è giunta a poche ore dal congresso nazionale di Afd. E all’attacco frontale all’Ue da parte dell’estrema destra tedesca Weber ha risposto con durezza. “Vogliono distruggere tutto ciò che Cdu e Csu hanno costruito, li combatteremo”, ha sottolineato. In realtà, di fronte al Ppe si apre uno scenario molto più complesso, nel quale il centrodestra italiano sarà pienamente coinvolto. Entro l’inizio del 2024 i Popolari dovranno definire la strategia per le prossime Europee. Finora Weber ha tenuto il punto sull’apertura alle destre – ad esempio sui temi ambientali – ma nel solco di tre punti da rispettare: il sostegno all’Ue, il rispetto dello Stato di diritto, l’appoggio all’Ucraina. Un’eventuale maggioranza Ppe-destre, al momento, appare comunque impossibile. Da un punto di vista numerico servirebbe comunque l’appoggio dei liberali, che ad oggi hanno escluso. E, nella galassia delle destre, occorrerà vedere a quali formazioni Weber intenderà davvero a aprire.

A chiarire – o a complicare – ulteriormente il quadro ci penseranno due elezioni chiave per gli equilibri europei: quelle del 22 novembre in Olanda e quelle di fine anno in Polonia. Nel Paese dei tulipani le dimissioni di Mark Rutte hanno causato uno tsunami, con diversi big – incluso lo stesso Rutte e la leader del partito liberale D66, Sigrid Kaag – che hanno annunciato l’addio alla politica. In Olanda correrà invece Frans Timmermans, a capo di una coalizione che unisce Socialisti e Verdi. E, certamente, l’uomo del Green deal dovrà vedersela con il partito contadino (Bbb), trionfatore assoluto delle ultime elezioni locali. In Polonia il premier Mateusz Morawiecki. che con Fdi guida il gruppo Ecr a Strasburgo – ha già iniziato una campagna tambureggiante e durissima contro Donald Tusk, suo avversario e membro del Ppe. Al momento Morawiecki è dato in vantaggio dai sondaggi e, in caso di una sua conferma, Meloni sarà costretta a scegliere tra il suo alleato polacco e il dialogo con il Ppe.

Le parole di Weber placheranno forse anche il malumore interno in un gruppo nel quale l’ascesa dei partiti estremisti è vista con crescente allarme. La frenata di Vox in Spagna ha rinfrancato i fautori della permanenza dell’asse Ppe-S&d mentre in Italia, la sortita di Weber ha rassicurato innanzitutto Fi. “I nuovi equilibri nelle istituzioni Ue con forze convintamente europeiste rappresentano una prospettiva importante”, ha sottolineato il ministro degli Esteri e segretario azzurro Antonio Tajani. L’apertura o meno del Ppe alle destre è destinata ad avere conseguenze anche negli equilibri del centrodestra italiano.

Advertisement
Continua a leggere

Ambiente

Clima, per i danni 38mila miliardi di dollari all’anno

Pubblicato

del

Il riscaldamento globale (la foto imagoeconomica in evidenza) costerà 38.000 miliardi di dollari all’anno nei prossimi 25 anni, sotto forma di danni da siccità, incendi ed eventi meteo estremi. Ma le emissioni da combustibili fossili che provocano il riscaldamento non scendono, nonostante gli impegni solenni di politici e imprenditori. Nel 2023 sono salite dell’1,1% rispetto all’anno precedente. I conti sul cambiamento climatico li ha fatti l’Istituto tedesco per la ricerca sull’impatto climatico di Potsdam, in una ricerca pubblicata nei mesi scorsi sulla rivista Nature.

Lo studio valuta le perdite annue all’interno di una forchetta fra i 19.000 e i 59.000 miliardi di dollari, con un valore medio di 38.000 miliardi. Per arrivare a questi dati, i ricercatori tedeschi hanno analizzato come il cambiamento climatico abbia danneggiato l’economia in più di 1.600 regioni nei 40 anni passati. Poi hanno usato questi dati per costruire un modello che permetta di calcolare i danni futuri.

Questi potranno provenire da siccità, eventi meteo estremi, incendi, che impattano sui raccolti agricoli, la produttività del lavoro e le infrastrutture. E che hanno costi altissimi. Soltanto nel 2023, secondo i conti del colosso assicurativo Swiss Re, 142 catastrofi naturali hanno provocato 76mila vittime, 108 miliardi di danni di perdite assicurate e 280 miliardi di danni totali. Altri 120 miliardi soltando nei primi 6 mesi di quest’anno. Fenomeni che dal 1994 ad oggi aumentano ad un ritmo compreso tra il 5% e il 7% ogni anno, con sempre più record negativi.

Ed infatti, tornando alla ricerca tedesca, l’economia mondiale è avviata a una riduzione di reddito del 19% nei prossimi 25 anni. Ma in mancanza di provvedimenti adeguati, la perdita potrebbe salire al 60% al 2100. Il problema è che il mondo non sta prendendo provvedimenti adeguati. Le emissioni globali di Co2, il principale gas serra, nel 2023 sono aumentate dell’1,1% rispetto rispetto al 2022. Usa ed Europa hanno tagliato le loro emissioni, rispettivamente del 7,4% e del 3%, ma Cina e India le hanno aumentate, dell’8,3% e del 4%.

Ed in alcuni casi hanno contribuito anche i paesi più ricchi che hanno spostato alcune produzioni inquinanti in quelli emergenti. “C’è la tendenza a sottovalutare i rischi economici e finanziari del cambiamento climatico – commenta Batrice Moro, analista del think tank italiano per il clima Ecco -. Sono rischi fisici, di danni da siccità ed eventi meteo, e rischi di transizione, ad esempio per investimenti nelle fonti fossili che rovinano l’immagine o vengono bloccati dalle autorità. Se non investiamo nella mitigazione, questi rischi aumentano. Ma questa consapevolezza non è ancora entrata nella visione a lungo termine dei mercati finanziari”.

Continua a leggere

Economia

Il 15% dei contribuenti paga il 63% delle imposte

Pubblicato

del

In Italia 17 milioni di contribuenti, oltre il 40% del totale, dichiarano di guadagnare meno di 15mila euro l’anno e pagano solo l’1,29% dell’Irpef complessiva. Coloro che invece dichiarano redditi dai 35mila euro sono 6,4 milioni, il 15, 27% del totale, e pagano il 63,4% dell’imposta sul reddito della persona fisica. Dal Report di Itinerari previdenziali, presentato alla Camera sulla base delle dichiarazioni dei redditi riferite al 2022, emerge un Paese spaccato a metà nel quale oltre il 93% dell’Irpef è pagato dal 46,81% dei contribuenti, quelli che dichiarano almeno 20mila euro di reddito. Mentre il 53,19% dichiara redditi inferiori a questa soglia e versa il 6,31% dell’intera Irpef. In Italia solo il 5,45% dei contribuenti dichiara di guadagnare oltre i 55mila euro e paga il 41,7% delle imposte complessive. Il rapporto sottolinea come la spesa assistenziale e sanitaria gravi quindi solo su una parte minoritaria della popolazione.

“Il 75,80% dei contribuenti – si legge – dichiara redditi da zero fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 24,43% di tutta l’Irpef, un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa sanitaria”. “Una grande parte di italiani – spiega il presidente di Itinerari previdenziali, Alberto Brambilla – paga così poche imposte (o non ne paga affatto) da risultare totalmente a carico della collettività. E’ il ritratto di un Paese – prosegue – con una forte redistribuzione principalmente a carico dei redditi sopra i 35mila euro lordi l’anno, che peraltro non beneficiano, se non marginalmente, di bonus, sgravi e agevolazioni, in assenza di controlli su una spesa assistenziale che cresce a tassi doppi rispetto a quella previdenziale”. Il report indica come nel 2022 l’Italia abbia complessivamente destinato alla spesa per protezione sociale – pensioni, sanità e assistenza – 559,513 miliardi di euro, vale a dire oltre la metà di quella pubblica totale (il 51,65%). Rispetto al 2012, “la spesa per il welfare, si legge nel rapporto, è aumentata di 127,5 miliardi strutturali (+29,4%): un aumento ascrivibile soprattutto al capitolo assistenza che sotto la spinta delle promesse di una politica in perenne campagna elettorale e gonfiata anche dall’inefficienza di una macchina organizzativa tuttora priva di un’anagrafe centrale delle prestazioni, è cresciuta del 126,3%, a fronte del solo 17% della spesa previdenziale”.

Nel complesso, se per Inps e Inail si può parlare di equilibrio, vale a dire di un sistema pensionistico e assicurativo in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per assistenza (circa 157 miliardi di euro), sanità (intorno ai 131 miliardi l’importo della spesa) e welfare degli enti locali (circa 13 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono appunto essere sostenuti attingendo alla fiscalità generale. Un totale – si spiega – di oltre 300 miliardi di euro per il quale sono occorse pressoché tutte le imposte dirette Irpef, addizionali, Ires, Irap e anche 23,77 miliardi di imposte indirette, in primis l’Iva.

“Non è corretto – sottolinea il presidente di Itinerari previdenziali, Alberto Brambilla, descrivere l’Italia come un Paese oppresso dalle tasse, poiché i contribuenti su cui grava il carico fiscale e, di riflesso, anche il finanziamento del nostro sistema di protezione sociale non è che uno sparuto 24,20% di contribuenti con redditi dai 29mila euro in su, i quali da soli corrispondono il 75,57% di tutta l’Irpef”. Per quanto riguarda la distribuzione geografica dei versamenti Irpef, l’analisi dei redditi evidenzia che il Nord contribuisce per il 57,2% del totale, il Centro con il 21,8% del totale, mentre il Sud con il 20,97% del gettito complessivo. “Una situazione di disequilibrio, si legge, rimasta oltretutto stabile nel tempo che trova conferma anche analizzando le singole Regioni: con poco meno di 10 milioni di abitanti, la Lombardia versa 43,4 miliardi di Irpef, vale a dire un importo maggiore dell’intero Mezzogiorno, che ne conta almeno il doppio”.

Continua a leggere

Esteri

Naim Qassem eletto nuovo leader di Hezbollah

Pubblicato

del

Naim Qassem era finito nel mirino di Israele già prima di essere annunciato come nuovo leader di Hezbollah, succeduto al defunto Hassan Nasrallah, ucciso dallo Stato ebraico un mese fa. Qassem, la cui elezione sarebbe avvenuta due giorni fa, è da più parti descritto come un segretario generale a termine: o perché sarà raggiunto presto da un missile israeliano (come ha già minacciato il ministro della Difesa Yoav Gallant definendo la sua nomina “temporanea”); o perché sarà sostituito da una personalità di maggior peso politico, su scala locale e regionale. Il 71enne Qassem non è infatti considerato un esponente di spicco della struttura di Hezbollah. Il fatto che da anni ricoprisse la carica di vice segretario generale, all’ombra di Nasrallah, non corrispondeva alla statura modesta della sua figura. E questo a partire dal rango secondario di shaykh, personalità religiosa a cui si deve rispetto ma non certo paragonabile a un sayyid, un discendente del profeta Maometto, come era Nasrallah, secondo la tradizione dello sciismo.

Eppure da quattro settimane Qassem, barba bianca e tunica nera, ci ha messo letteralmente la faccia. Mentre non erano ancora confermate le sempre più insistenti voci dell’uccisione, sempre da parte di Israele, di Hashem Safieddine, cugino materno di Nasrallah, anch’egli un sayyid e da 15 anni indicato come il successore del defunto leader, Qassem è apparso tre volte sugli schermi televisivi per parlare alla gente di Hezbollah e per lanciare moniti ai nemici esterni e ai rivali libanesi. Anche perché il vuoto di potere ai vertici del partito non poteva durare oltre. Soprattutto per non lasciare sguarnita la posizione, riservata a Hezbollah, all’interno della cupola istituzionale e clientelare libanese che domina il Libano. Due dei membri più illustri di questa cupola, come il presidente del parlamento Nabih Berri e il premier uscente Najib Miqati, stanno da settimane tentando di capire quanto sia indebolito Hezbollah per estendere le rispettive influenze: lasciandosi tentare, sopra o sotto il tavolo, dalle tentazioni occidentali e dei Paesi arabi del Golfo di abbandonare Hezbollah al suo destino per disegnare un Libano assai più vicino agli Stati Uniti e a Israele.

Proprio a Berri si era rivolto con decisione Naim Qassem in uno dei suoi discorsi televisivi di metà ottobre: senza di noi non ci sarà nessun accordo politico dopo il cessate il fuoco, aveva detto tirando fuori dalla sua consueta flemma un insolito piglio determinato. Autore nel 2006 di un saggio su Hezbollah (‘La storia dall’interno’) e figlio di una famiglia di Kafr Kila, in quel profondo sud del Libano nuovamente trasformato in una landa desolata dall’esercito israeliano, il nuovo leader di Hezbollah è considerato assai meno legato a doppio filo all’Iran rispetto a Nasrallah e, soprattutto, a Safieddine. Certamente, affermano gli osservatori libanesi, dalla sua leadership non bisognerà attendersi nessun cambiamento significativo delle scelte politiche del partito. “Sempre che riesca a sopravvivere ai prossimi raid israeliani”, scrivono alcuni commentatori a Beirut. In un comunicato diffuso assieme all’annuncio della sua elezione, da parte del consiglio consultivo di Hezbollah, il movimento armato ha ribadito in serata che il nuovo segretario generale terrà accesa “la fiamma della resistenza” armata contro Israele.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto