Una vasta campagna di spionaggio informatico portata da un gruppo “sponsorizzato dallo Stato” cinese, che avrebbe colpito milioni di persone tra legislatori, accademici, giornalisti, e aziende tra cui anche appaltatori della difesa. E’ questa l’accusa mossa dai governi di Stati Uniti, Regno Unito e Nuova Zelanda che hanno mosso accuse, imposto sanzioni e puntato il dito contro Pechino e la sua guerra cyber contro i tre Paesi. A scoperchiare il vaso di Pandora è stata per prima Londra, accusando apertamente il Dragone di essere dietro il prolungato cyberattacco contro gli archivi della Commissione elettorale britannica – condotto a partire dall’agosto 2021 secondo quanto denunciato la scorsa estate e attribuito inizialmente a non meglio precisati “attori ostili” – bollandone la portata alla stregua di una “sfida epocale” alla sicurezza nazionale e di una “minaccia alla democrazia” d’oltre Manica.
ùSolo poche ore dopo, Gli Stati Uniti hanno accusato sette persone di nazionalità cinese di aver portato avanti cyberattacchi che hanno avuto nel mirino membri del Congresso, funzionari della Casa Bianca, candidati e società americane. Il Dipartimento di Giustizia e l’Fbi hanno parlato di attacchi vasti e spalmati su 15 anni, nei quali sono rimasti intrappolati milioni di account online di americani mentre il piano cinese prendeva di mira funzionari americani. E insieme a loro, anche la Nuova Zelanda ha riferito di aver collegato un gruppo cinese “sostenuto dallo Stato” a un attacco informatico ai servizi parlamentari avvenuto tre anni fa. Secondo le autorità statunitensi, alcune attività di hackeraggio condotte dai sette cinesi hanno avuto successo e hanno compromesso reti e account email.
Fra le accuse più allarmanti avanzate dagli Stati Uniti, c’è quella relativa al fatto che gli hacker hanno preso di mira gli account email di diversi funzionari di una campagna elettorale di cui non è stato fatto il nome dal maggio 2020. “Fino a quando la Cina continuerà a puntare gli Stati Uniti e i nostri alleati, l’Fbi continuerà a inviare il suo un messaggio chiaro, ovvero che il cyber spionaggio non sarà tollerato e perseguiremo senza sosta coloro che minacciano la nostra sicurezza e prosperità”, ha assicurato il direttore dell’Fbi Christopher Wary. Nel Regno Unito, la requisitoria è stata affidata al vicepremier Oliver Dowden, incaricato di coordinare in questi mesi il dossier, che di fronte alla Camera dei Comuni – e con l’appoggio di maggioranza e opposizioni – ha annunciato sanzioni contro due individui e un’entità cinese (APT31, gruppo hacker “affiliato allo Stato” nella Repubblica Popolare); nonché la convocazione dell’ambasciatore di Pechino al Foreign Office per una sorta di reprimenda formale.
Ma a suonare la carica – in attesa della controreazione altrettanto dura della Cina – è stato l’intero vertice del governo Tory: con la raffica di dichiarazioni di fuoco diffuse in contemporanea del ministro degli Esteri, David Cameron, che ha parlato di azioni “inaccettabili” evocando una conversazione a muso duro con l’omologo cinese Wang Yi; del titolare dell’Interno, James Cleverly, che ha puntato l’indice contro “il riprovevole tentativo di prendere di mira le istituzioni democratiche” rinfacciato al Dragone; e soprattutto del premier Rishi Sunak in persona, il quale non ha esitato a delineare addirittura una cesura “epocale” nei rapporti col gigante asiatico, additato come pericolo numero uno “a livello di Stati” e una “minaccia alla nostra sicurezza”, economica e politica, rispetto a cui “abbiamo il diritto di proteggerci”.
Anche con misure “rapide e vigorose”, gli ha poi fatto eco Dowden. Parole pesanti come non mai, dopo i contrasti del recente passato su temi quali la stretta nell’ex colonia di Hong Kong, la repressione degli Uiguri nello Xinjiang o la rottura della partnership strategica suggellata a suo tempo con la cinese Huawei nelle tlc per lo sviluppo delle reti 5G sull’isola, in aggiunta a precedenti sospetti d’intrusione informatica condivisi con la Russia. E il cui tono conferma il tramonto, forse definitivo, dei ponti d’oro alla cooperazione miliardaria con Pechino costruiti in decenni non lontani sotto il governo laburista di Tony Blair come sotto quello conservatore guidato proprio da Cameron.
Nel suo intervento al Parlamento di Westminster, il vicepremier Dowden ha del resto parlato di “minacce reali” e di un “attacco maligno”, per quanto “senza successo”: la cui origine l’esecutivo britannico afferma d’aver individuato oltre ogni ragionevole dubbio sulla base della cooperazione d’intelligence con “gli alleati di gruppo dei Five Eyes” (sancta sanctorum delle relazioni politiche e di spionaggio in seno all’anglosfera che comprende Usa, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda). Sebbene non sia emerso alcun impatto concreto sullo svolgimento o l’esito di qualsiasi elezione nel Paese, la vicenda viene descritta come un grave vulnus diplomatico.
Specie se si considera che le incursioni hacker risultano essersi allargate a specifici parlamentari britannici notoriamente sgraditi alla Cina quali l’ex leader conservatore Iain Duncan Smith o l’ex ministro Tim Loughton, due falchi di politica estera; ma anche esponenti d’opposizione come Stewart McDonald del partito indipendentista scozzese (Snp), paladino progressista dei diritti umani.