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Tragedia in Serbia: 11 vittime nel crollo di una tettoia alla stazione

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Un dramma ha colpito la città di Novi Sad, in Serbia, dove il crollo di una tettoia esterna della stazione ferroviaria ha causato 11 vittime. Le operazioni di soccorso, condotte da almeno 80 soccorritori con l’ausilio di mezzi pesanti, sono ancora in corso per cercare di mettere in sicurezza l’area e assistere eventuali persone coinvolte.

La situazione è apparsa subito critica, con due feriti gravi trasferiti d’urgenza in ospedale. Purtroppo, uno di loro non è riuscito a superare le gravi lesioni riportate, e la sua morte è stata confermata dai medici.

La stazione di Novi Sad aveva riaperto da pochi mesi, a seguito di tre anni di lavori di ristrutturazione, per accogliere i passeggeri della nuova linea ferroviaria ad alta velocità che collega la città a Belgrado, capitale del paese. Il crollo avvenuto ha scosso profondamente la popolazione e ha sollevato domande sulle condizioni della struttura.

Le autorità locali hanno promesso di avviare un’indagine per accertare le cause di questa tragedia e verificare se siano stati rispettati gli standard di sicurezza durante i lavori di ristrutturazione.

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Corpi estratti da auto e garage, è un’ecatombe a Valencia: 158 morti accertati

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Le pale e i secchi per spalare il fango, carrelli del supermercato colmi di bottiglie vuote e del poco rimasto nei negozi ancora aperti e non saccheggiati da disperati, bambini nelle carrozzine, anziani sulle sedie a rotelle, un esodo di migliaia di persone in fila fra le auto capovolte e gli alberi sradicati, in cerca di acqua potabile e cibo, lungo la ventina di km che uniscono i comuni a sud di Valencia di Paiporta, La Torre, Picana, Chive, Cheste, Torrente… Sono i comuni dell’area metropolitana a una ventina di km della capitale del Turia, ma sembra il Vietnam. In senso contrario arrivano a piedi brigate di giovani volontari con tutto quello che riescono a portare in spalla alle popolazioni colpite.

Quarantott’ore dopo le piogge torrenziali che si sono abbattute nel sudest della Spagna, l’ecatombe appare nella sua terribile dimensione: il rosario dei morti ha superato le 158 vittime e un numero ancora imprecisato di dispersi, quando cominciano ad arrivare le prime squadre della Protezione civile. “Stanno tirando fuori i cadaveri dalle auto, dai garage, dalle case. Proprio qui accanto, i corpi di quattro vicini, una coppia e due uomini, travolti nello scantinato di casa”, dice Cristina Lopez, 53 anni, che col marito Victor Monleon e il figlio Hugo sono scampati alla morte a Paiporta, epicentro della catastrofe.

“Alcune squadre di pompieri sono arrivate questa mattina, ma per 48 ore siamo stati soli, immersi in un mare di fango. Martedì sera è accaduto tutto in dieci minuti. Se avessero dato l’allarme prima non ci sarebbero stati tanti morti. La gente non ha avuto il tempo di mettersi in salvo dall’onda del fiume in piena che ha coperto tutto”, denuncia. Le proteste per i ritardi con cui le autorità hanno messo in allarme la popolazione e per la mancanza di approvvigionamento di acqua potabile e di corrente elettrica sono corali. “L’acqua del torrente è salita a tre metri in pochi minuti. Ho avuto solo il tempo di prendere le chiavi di casa nell’autofficina e scappare che già ero immerso fino al collo”, ricorda Gaetano Marletta, 52 anni, titolare della autofficina ‘Taller Marletta’, che come tutti gli altri negozi della cittadina, con le saracinesche divelte dallo tsunami di fango, è stata devastata dall’ondata di piena che dal bacino del Poyo ha travolto Chiva, Cheste, Torrente, Catarroja, Picana, fino a Paiporta, portandosi via tutto quello che ha trovato davanti. Maria Gracia Lourdes, la giovane mamma di 34 anni con il neonato di 3 mesi ritrovata morta nell’auto, che il marito aveva tentato di ancorare a un palo della segnaletica perché non fosse trascinata via dalla forza del torrente impazzito, era di qui, di Paiporta.

“Abbiamo sperato fino alla fine in un miracolo, ma non c’è stato. Siamo devastati”, dice Maribel Gomez, una vicina fra le lacrime. La sindaca Maria Isabel Albalat conferma che sono almeno 45 le vittime finora recuperare nel municipio. Mentre i residenti aspettano le pompe dei vigili del fuoco per aspirare la marea nera, senza sapere quando e se arriveranno. “Abbiamo bisogno di acqua, di cibo, di medicine, gli aiuti non arrivano”, denuncia Cristel, residente con la famiglia a Catarroja, trasformata in un mare di fango e dove è impossibile superare la barriera delle auto, delle pietre e dei detriti lasciata dall’onda nera. Nel garage di un edificio di due piani di La Torre hanno recuperato gli 8 residenti morti, travolti dalla piena del Poyo. Come quella del Magro, l’altro torrente trasformato dalle piogge torrenziali in una valanga di fango, ha raggiunto martedì sera la furia devastante di 2.200 metri cubi al secondo.

E sono almeno una cinquantina i cadaveri trasferiti alla morgue centralizzata in un parcheggio allestito con celle frigorifere al piano interrato del Palazzo di Giustizia di Valencia, dall’altro lato dell’antico corso del Turia. Lo conferma Manquique Castello, il responsabile di comunicazione della cittadella giudiziaria, spiegando che ai familiari non è stato dato accesso fino all’identificazione delle vittime, anche attraverso gli esami di Dna, e dopo le autopsie praticate da una squadra di medici forensi. E’ di fronte al Palau de la Musica e delle Arti, l’emblema della Valencia da bere, ora simbolo di morte. E dell’immane tragedia.

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L’Iran prepara la risposta a Israele, ordine di Khamenei

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L’Iran torna ad alzare i toni e promette una risposta “brutale” agli attacchi israeliani della scorsa settimana. L’ayatollah Ali Khamenei ha già dato ordine, lunedì scorso, al Consiglio per la sicurezza nazionale iraniano di prepararsi ad attaccare lo Stato ebraico, secondo quanto riporta il New York Times citando fonti iraniane. La Guida suprema avrebbe preso la decisione di non lasciare senza conseguenze lo smacco subito il 26 ottobre dopo aver esaminato un rapporto militare dettagliato sui danni causati dall’attacco israeliano alla produzione missilistica e alle infrastrutture energetiche del Paese: la portata dei raid è stata troppo grande per essere ignorata e non rispondere significherebbe ammettere la sconfitta. “Israele dovrà pentirsene”, ha detto Mohammad Mohammadi Golpayegani, capo dell’ufficio di Khamenei.

Secondo l’intelligence israeliana, citata da Axios, l’attacco di Teheran dovrebbe partire questa volta dal territorio iracheno con un gran numero di droni e missili balistici e – come già riferito da fonte iraniana alla Cnn – probabilmente prima delle elezioni americane del 5 novembre. Tuttavia, aggiunge un funzionario statunitense, gli Stati Uniti non sanno se la decisione sia stata effettivamente presa.

“Israele oggi ha più libertà d’azione che mai in Iran, e può raggiungere qualsiasi posto in Iran se necessario”, ha giurato dal canto suo il premier israeliano Benyamin Netanyahu, sottolineando che “l’obiettivo supremo è impedire all’Iran di ottenere un’arma nucleare”. Intanto sugli altri fronti aperti, cresce una flebile speranza di raggiungere una tregua in Libano, ma è Hamas a dare l’ennesima spallata alle prospettive di un cessate il fuoco a Gaza: “L’idea di una pausa temporanea solo per riprendere l’aggressione in seguito è qualcosa su cui abbiamo già espresso la nostra posizione. Hamas sostiene una fine permanente della guerra, non una temporanea”, ha detto all’Afp Taher al-Nunu, leader senior del movimento, bocciando il lavoro dei mediatori per una sospensione breve dei combattimenti ed evidenziando ancora una volta uno stallo nei negoziati che invece sembrano fare timidi passi avanti sul fronte nord, tema affrontato in un incontro tra inviati Usa e Netanyahu a Gerusalemme.

Un incontro definito “costruttivo” da un funzionario americano al Times of Israel, mentre il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha confermato che i negoziatori hanno fatto “buoni progressi” verso un’intesa con Hezbollah. Nell’incontro tra gli inviati di Washington Amos Hochstein e Brett McGurk, Netanyahu ha sottolineato in ogni caso che qualsiasi intesa dovrà garantire la sicurezza di Israele. “Il primo ministro ha precisato che la questione principale non sono le pratiche per questo o quell’accordo, ma la determinazione e la capacità di Israele di garantire l’applicazione dell’accordo e di prevenire qualsiasi minaccia alla sua sicurezza da parte del Libano”, ha dichiarato l’ufficio del premier dopo la riunione a Gerusalemme. Secondo i media israeliani che citano fonti governative, il piano dei mediatori statunitensi prevede il ritiro degli Hezbollah dal Libano meridionale a nord del fiume Litani, a oltre 30 km dal confine, e il ritiro dell’esercito israeliano dalla stessa regione, il cui controllo tornerebbe all’esercito libanese e alle forze di pace dell’Onu.

In questo quadro, lo Stato ebraico vuole garanzie di conservare la propria libertà d’azione in caso di minacce. Funzionari israeliani hanno infatti sottolineato che i soldati impegnati nell’offensiva di terra nel sud del Libano non si ritireranno fino a quando non sarà raggiunto un accordo che soddisfi i requisiti di sicurezza di Israele, consentendo il ritorno di circa 60.000 residenti del nord sfollato a causa dei continui attacchi di Hezbollah. Nell’ultima giornata, i razzi del movimento sciita hanno ucciso cinque persone – un contadino israeliano e quattro braccianti thailandesi – nelle campagne di Metula. In un altro attacco, due persone sono state uccise dalle schegge di un razzo cadute in un uliveto nei pressi di Kiryat Ata, fuori da Haifa. E’ il bilancio più sanguinoso per Israele dall’inizio dell’offensiva in Libano. Nel frattempo, i raid di Israele sono proseguiti provocando decine di morti nell’est e nel sud del Libano, dove una base delle truppe irlandesi dell’Unifil ha subito “danni minori” per la caduta di un razzo lanciato da Hezbollah senza provocare feriti. Attacchi israeliani hanno preso di mira anche la Siria, dove la ong Osservatorio nazionale per i diritti umani ha denunciato cinque civili uccisi nei bombardamenti sulla città e la campagna di Al-Qusayr, nel governatorato di Homs.

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Sfida dell’Ungheria all’UE: rapporti con Russia e Georgia e polemiche sul conflitto in Ucraina

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Continua la linea di sfida dell’Ungheria nei confronti della politica estera dell’Unione Europea, con il governo di Viktor Orban che cerca di mantenere rapporti indipendenti con Russia e Georgia, suscitando reazioni da Bruxelles. Durante una recente visita in Georgia, Orban ha espresso il proprio appoggio alla “vittoria schiacciante” del partito filorusso Sogno Georgiano, nonostante le contestazioni da parte delle opposizioni filo-occidentali locali. Nello stesso contesto, il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha incontrato a Minsk il ministro russo Serghei Lavrov, ribadendo la contrarietà di Budapest alla politica di sanzioni europee contro la Russia.

Szijjarto: “Costruire ponti, non tagliarli”

A Minsk, Szijjarto ha dichiarato: “All’Ungheria non piace la politica delle sanzioni”, sottolineando che “l’idea di tagliare i ponti deve essere sostituita dall’idea di costruire ponti”. Durante l’incontro con Lavrov, i due ministri hanno discusso di “cooperazione bilaterale” e delle “questioni internazionali di attualità”, riferisce il ministero degli Esteri russo, con probabile riferimento alla guerra in Ucraina. A differenza della maggior parte dei paesi europei, il governo di Budapest continua a sostenere un dialogo con il Cremlino e mantiene una posizione critica verso le strategie occidentali sul conflitto.

Zelensky e le crescenti tensioni con l’Occidente

Sul fronte ucraino, la preoccupazione del presidente Volodymyr Zelensky si concentra non solo sulla guerra, ma anche sui rapporti con i propri alleati, in particolare gli Stati Uniti. La possibile rielezione di Donald Trump alla presidenza statunitense potrebbe ridurre il sostegno americano a Kiev, aumentando le tensioni nell’alleanza occidentale. A complicare ulteriormente la situazione, si è aggiunta la questione dei soldati nordcoreani inviati in Russia: secondo il segretario di Stato americano Antony Blinken, circa 8.000 militari di Pyongyang sarebbero già nella regione di Kursk, al confine con l’Ucraina. “Se queste truppe dovessero impegnarsi in operazioni di combattimento o di supporto al combattimento contro l’Ucraina, diventerebbero legittimi obiettivi militari”, ha dichiarato Blinken. Zelensky ha però criticato la reazione, definendo “nulla, è stata zero” la risposta occidentale.

Il Cremlino e la difesa dei rapporti con la Corea del Nord

A difesa dei crescenti legami tra Mosca e Pyongyang è intervenuto Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, sottolineando che sia la Russia sia la Corea del Nord hanno il diritto sovrano di sviluppare relazioni “in tutti i settori”, aggiungendo che ciò “non dovrebbe spaventare o preoccupare nessuno”. Queste dichiarazioni aumentano le preoccupazioni di Kiev, che teme una posizione di minor sostegno da parte dei propri alleati in Occidente.

Il piano ucraino per la vittoria e i dubbi degli alleati

Recentemente, Zelensky ha presentato un piano per la vittoria accolto con scetticismo dagli Stati Uniti e da altri partner occidentali. Secondo il New York Times, una delle richieste avanzate nel piano include la fornitura di missili Tomahawk, con una gittata di 2.500 chilometri, sette volte superiore rispetto agli Atacms. Questa proposta, secondo quanto riferito dal ministro Lavrov, “ha provocato costernazione a Washington” e sembra destinata a non ricevere risposta positiva dagli Stati Uniti.

Scontri in Donbass e bombardamenti su Kharkiv

Nel frattempo, i combattimenti sul campo si intensificano. Il ministero della Difesa russo ha annunciato la presa del villaggio di Yasnaya Polyana nella regione di Donetsk, mentre le forze di Mosca si avvicinano a Pokrovsk, un centro strategico ucraino di circa 60.000 abitanti. A Kharkiv, intanto, un bombardamento russo ha causato la morte di tre civili e il ferimento di altre 35 persone. Tra le vittime ci sono anche due adolescenti di 12 e 15 anni.

Dall’altra parte, il governatore della regione di Zaporizhzhia, filo-russo, ha dichiarato che un attacco ucraino con dieci droni kamikaze ha colpito la città di Berdyansk, sotto controllo russo, sul Mar d’Azov, provocando tre feriti e danni significativi.

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