Le acque del mar Cinese meridionale e orientale tornano a bollire. Un fine settimana ad alta tensione ha riacceso le dispute territoriali tra Manila e Pechino e tra quest’ultima e Tokyo, con pericolose prove muscolari che hanno rivisto in campo l’uso per almeno otto volte dei cannoni ad acqua, una collisione tra navi e formali proteste diplomatiche.
Scenari che hanno spinto gli Usa, attraverso il Dipartimento di Stato, a intervenire e a chiedere alla Cina di fermare le azioni “pericolose e destabilizzanti” che “riflettono non solo un disprezzo sconsiderato per la sicurezza e i mezzi di sussistenza dei filippini, ma anche per il diritto internazionale”. La Cina ha respinto tuttavia ogni addebito sulla responsabilità degli scontri e ha assicurato che “continuerà ad adottare le misure necessarie per rispondere a qualsiasi provocazione” a tutela della sovranità rivendicata su circa il 90% del mar Cinese meridionale attraverso anche la costruzione di isole artificiali militarizzate: le mosse messe in atto dalla guardia costiera, ha rivendicato la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, sono state “professionali e misurate”, ricordando le “severe rimostranze presentate alle Filippine”.
I video diffusi dalla guardia costiera di Manila sugli scontri in mare, secondo un protocollo costante delle sue strategie, hanno mostrato le navi cinesi ricorrere a potenti idranti per bloccare la navigazione delle imbarcazioni filippine durante due distinte missioni di rifornimento, tra sabato e domenica, verso la barriera corallina contesa e le secche di Scarborough e di Second Thomas, rispettivamente, destinate a pescherecci e a marines di stanza sulla Sierra Madre, nave militare della Seconda guerra mondiale arenata nel 1999 per rivendicare i diritti sull’area. Il presidente Ferdinand Marcos Jr. ha promesso di difendere il territorio del suo Paese, inclusa la zona economica esclusiva.
“L’aggressione e le provocazioni perpetrate dalla guardia costiera cinese e dalla milizia marittima cinese (la flottiglia blu, ndr) contro le nostre navi e il nostro personale nel fine settimana non hanno fatto altro che rafforzare la nostra determinazione a difendere e a proteggere sovranità, diritti e giurisdizione della nostra nazione nel mar delle Filippine occidentale”, ha scritto domenica notte su X Marcos che, rafforzati nei mesi scorsi i legami sulla sicurezza con gli Usa, ha ribadito la volontà di non cedere alle pressioni della Repubblica popolare, a differenza della postura più accomodante del predecessore Rodrigo Duterte.
Così, in mattinata il ministero degli Esteri di Manila ha convocato l’ambasciatore cinese e ha presentato le ennesime proteste formali. Sull’altro fronte, nel mar Cinese orientale, Cina e Giappone si sono accusati a vicenda di incursioni marittime illegali dopo un braccio di ferro tenuto sabato tra le rispettive guardie costiere nelle acque attorno alle isole Senkaku, controllate da Tokyo ma rivendicate da Pechino con il nome di Diaoyu. La Cina ha riferito domenica di aver “allontanato” le unità nipponiche, replicando ad una nota della guardia costiera giapponese che sosteneva invece l’esatto contrario. In serata, intanto, il ministero della Difesa di Taipei ha riferito che un gruppo d’attacco navale cinese guidato dalla portaerei Shandong ha navigato attraverso lo stretto di Taiwan da nord a sud: l’isola è il primo obiettivo nelle mire di Pechino in vista delle delicate elezioni presidenziali e politiche del 13 gennaio, parte di assetti precari nell’Indo-Pacifico, potenzialmente esplosivi.