Spiragli di intesa tra Hamas e Israele, anche se il percorso dell’accordo non è ancora del tutto in discesa. Il nodo principale – per entrambe le parti – resta quello della tregua permanente, evocata nella roadmap rilanciata dal presidente Usa Joe Biden venerdì scorso. Uno scoglio che alla fine potrebbe far deragliare tutto, com’è già successo in passato.
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu, parlando alla Knesset, ha detto che “la guerra verrà fermata allo scopo di restituire i sequestrati, poi discuteremo” del resto. L’accordo proposto, ha confermato, include “un cessate il fuoco temporaneo” di 6 settimane (42 giorni) a favore del rilascio degli ostaggi. Tenendo poi a precisare che lo schema presentato da Biden “è parziale perché ci sono altri dettagli che non sono stati resi pubblici”.
“Stiamo lavorando in molti modi per riavere i nostri rapiti ma abbiamo mantenuto gli obiettivi della guerra, primo fra tutti l’eliminazione di Hamas. Insistiamo per completare sia questo sia quell’obiettivo”, ha continuato Netanyahu, derubricando come “falso” il fatto che nella proposta ci sia “un cessate il fuoco senza che le nostre condizioni siano soddisfatte”. Fonti di Hamas, riferite da Haaretz, hanno confermato di considerare “positivamente” la proposta, come annunciato in mattinata anche dal ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry.
Al tempo stesso, hanno fatto sapere di aver informato i mediatori di Qatar e Egitto di ritenere necessaria una garanzia ufficiale da parte americana sul fatto che Israele rispetterà tutte le condizioni dell’intesa, a cominciare dalla richiesta di un cessate il fuoco duraturo. Una preoccupazione rafforzata, secondo le fonti palestinesi, dai “disaccordi” che si registrano in Israele sul cessate il fuoco completo. Va tenuto conto inoltre che Hamas ha più volte precisato che la decisione finale spetta ai leader a Gaza, Yahya Sinwar e Mohammed Deif, che devono applicare sul campo i dettagli dell’intesa. Nel quadro delle difficoltà delle parti, per quanto riguarda Netanyahu va segnalato che il premier è pressato dall’ala radicale del suo esecutivo.
I ministri Itamar Ben Gvir (Potere ebraico) e Bezalel Smotrich (Sionismo religioso) sono pronti ad uscire dalla coalizione di maggioranza mettendo in crisi il governo. Entrambi accusano il premier – se accettasse l’accordo – di svendere lo scopo della guerra. Al tempo stesso Netanyahu è sempre più incalzato dalle famiglie dei circa 120 ostaggi a concludere senza indugi l’intesa nella quale vedono l’ultima possibilità, dopo 8 mesi di guerra, di riportare a casa i loro familiari. Proprio oggi l’esercito ha annunciato di ritenere morti altri quattro di loro. Per quanto riguarda invece Hamas, la fazione islamica deve fare i conti sia con gli Usa che con il mondo arabo.
Il portavoce del Consiglio americano per la sicurezza nazionale John Kirby ha insistito sul fatto che Hamas “deve accettare l’accordo proposto da Israele: è buono per la popolazione a Gaza, è buono per gli israeliani. E’ un accordo molto serio, il migliore per mettere fine a questo conflitto”. E anche i ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Giordania, Qatar e Egitto hanno sottolineato che si tratta “di un’intesa importate da affrontare seriamente e positivamente”. Sullo sfondo – ed è un altro tema di possibile inciampo – c’è il dopo Hamas a Gaza.
In una conversazione con il segretario di Stato Usa Antony Blinken, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha sottolineato la necessità “di identificare e consentire l’emergere di un’alternativa di governo locale” nella Striscia. Che vuole dire la fine del regime islamista a Gaza. Al 241esimo giorno di guerra intanto, Israele non molla la presa su Rafah, nel sud, dove l’Idf sta continuando ad operare, Corridoio Filadelfia compreso. Né si ferma lo scontro con gli Hezbollah in Libano: oggi sul Golan sono arrivate 30 razzi a cui sono seguiti i raid dell’Idf.