L’omicidio di Antonio Bellocco, tra i capi ultrà dell’Inter e legato alla ‘ndrangheta, ucciso a coltellate alle porte di Milano dal leader della curva nord Andrea Beretta – fermato per omicidio e detenzione illegale di arma da fuoco dopo l’interrogatorio reso al pm Paolo Storari – che è rimasto ferito a una gamba da un colpo di pistola, porta ancora una vola alla ribalta i legami tra criminalità organizzata, eversione o estremismo e tifoserie. Vicende sulle quali hanno acceso un faro la Dna e parecchie procure. ll leader della tifoseria neroazzurra è ricoverato al San Raffaele, dopo essere stato colpito dallo sparo di Bellocco. “Giravo con la pistola perché ho saputo che qualcuno mi vuole fare la pelle”, e quando Antonio Bellocco, “dopo avermi disarmato, ha cominciato a sparare, ho tirato fuori il coltello e l’ho colpito da 7 a 10 volte”, ha detto Beretta, difeso dall’avvocato Mirko Pelino, ai magistrati. Beretta, si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma ha reso dichiarazioni spontanee.
Ha raccontato che stamane, in macchina con Bellocco, sono volate parole pesanti con minacce di morte contro di lui e la sua famiglia e poi si è arrivati alle mani. A quel punto, lui che girava armato, ha mostrato la pistola per intimidire il suo amico. Durante la colluttazione è stato disarmato da Bellocco che, mentre Beretta nel frattempo si è ritrovato fuori dalla macchina, ha cominciato a sparare e Beretta allora ha tirato fuori il coltello e ha inferto parecchi fendenti. Il capo ultrà ha detto che dopo il primo colpo di pistola ha visto il caricatore cadere a terra. Tutto è iniziato di mattina, a Cernusco sul Naviglio, nel milanese. Dalla palestra “Testudo”, escono Beretta, 49 anni, e Bellocco. Salgono sulla Smart del secondo, figlio 36enne dello storico capobastone Umberto Bellocco e con una condanna definitiva per mafia. A bordo dell’auto secondo una prima ricostruzione, Bellocco avrebbe sparato ferendo, in modo non grave Beretta, il quale a sua volta con un coltello a serramanico lo ha colpito più volte alla gola e al petto, uccidendolo. Eppure, come testimonia una foto postata da Marco Ferdico, uno dei capi degli ultrà nerazzurri, solo la sera prima i due hanno giocato insieme a calcetto, in una sfida tra amici. Un “derby” tra tifosi di Inter – il club è estraneo a qualsiasi vicenda giudiziaria che coinvolge la curva – e Milan. “Non avevo alternativa, mi sono difeso”, ha detto Beretta prima di finire in sala operatoria.
Versione questa che, verosimilmente avrebbe fornito ai pm Paolo Storari e Sara Ombra, titolari delle indagini assieme al procuratore Marcello Viola. Prima di formalizzare il fermo, che dovrà essere vagliato dal gip, i pubblici ministeri sono andati al San Raffaele, dove Beretta è piantonato, per sentirlo. Poi vaglieranno le sue dichiarazioni, gli elementi raccolti dai Carabinieri durante i rilievi (è stata trovata anche la pistola) e gli esiti delle immagini di una telecamera. C’è da capire cosa ci sia dietro la vicenda, forse una questione di affari o uno sgarro. Beretta da ottobre è sottoposto a sorveglianza speciale per “episodi minatori e violenti” che avrebbe messo in atto “per molti anni”, con “segnalazioni e condanne” che “partono nel 2008 e si dispiegano fino al 2022 anche in pendenza dei Daspo”.
Inoltre era stato arrestato nel febbraio 2020 dalla Polizia per la violazione di un Daspo, dopo gli incidenti prima di un derby Inter-Milan. Era tornato ai domiciliari, sempre per la violazione di un Daspo, nel dicembre di due anni fa. Nei mesi scorsi per lui si era chiuso anche un processo con una condanna ad una multa per il violento pestaggio di un ambulante che stava vendendo foto di calciatori e altri gadget davanti allo stadio Meazza, prima: “i napoletani non li vogliamo”. A luglio, infine, era stato condannato a 6 mesi, pena sospesa, come l’ex calciatore Davide Bombardini, con un’accusa riqualificata dai giudici da tentata estorsione ad esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L’omicidio di oggi si colloca in un quadro più ampio che riguarda anche una serie di presunti business illeciti che vedono fianco a fianco il mondo delle curve e la criminalità organizzata.
Avrebbe occultato beni mobili e somme di denaro per oltre 450mila euro e trasferito la sua attività commerciale da Cava De’ Tirreni a Santa Teresa di Gallura per sottrarre i suoi averi al recupero forzoso: un affermato imprenditore campano di 60 anni, è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di bancarotta fraudolenta, frode fiscale e reati tributari. Firmato anche un decreto di sequestro preventivo dei beni finalizzato alla confisca. Le indagini che hanno portato all’applicazione della misura cautelare nei confronti dell’industriale, molto conosciuto nella provincia di Salerno, sono partite dalla Procura di Tempio Pausania e affidate alla tenenza della Guardia di Finanza di Palau e altri reparti. E’ stato così possibile ricostruire la vicenda fiscale dell’imprenditore attivo nel settore del commercio di abiti da cerimonia. A Santa Teresa di Gallura, attraverso il figlio, gestiva un bar ristorante, dichiarato poi fallito nel luglio del 2021.
Questa mattina i carabinieri sono intervenuti in via Domenico Cirillo 30, in seguito a una segnalazione ricevuta al numero di emergenza 112. L’intervento si è reso necessario dopo che ignoti, probabilmente agendo durante le ore notturne, hanno fatto irruzione nella sede del Partito Democratico della Quarta Municipalità Napoli San Lorenzo.
All’interno del locale, i malintenzionati hanno provocato disordine, mettendo a soqquadro gli spazi. Nonostante i danni causati, dalle prime verifiche effettuate non sembrerebbe che siano stati sottratti oggetti di valore o documenti importanti.
Sul posto sono intervenuti gli specialisti del nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli, che hanno effettuato i rilievi tecnici necessari per raccogliere elementi utili all’identificazione dei responsabili. Le indagini sono attualmente in corso per risalire agli autori dell’atto vandalico e chiarire le motivazioni dietro l’accaduto.
Questo episodio si aggiunge a una serie di atti vandalici e intimidatori registrati negli ultimi tempi in diverse città italiane, sollevando interrogativi sulla necessità di maggiori misure di tutela per le sedi di partiti e associazioni sul territorio.
La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Umbria del 1994 che prevedeva il requisito “di essere residente in uno dei Comuni della Regione Umbria” come necessario al fine dell’iscrizione nel ruolo dei conducenti per il servizio di taxi e per quello di noleggio di veicoli con conducente (Ncc).
Lo rende noto la Corte Costituzionale. La disposizione, antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, era stata censurata dal Tar Umbria in quanto ritenuta lesiva del principio di ragionevolezza nonché dell’assetto concorrenziale del mercato degli autoservizi pubblici non di linea, giacché d’ostacolo al libero ingresso di lavoratori o imprese nel “bacino lavorativo” regionale.