Il 2018 è stato l’anno dei record per la ristorazione italiana: consumi nei ristoranti ai massimi storici con 85 miliardi spesi, attività registrate nelle Camere di Commercio 392.134, di cui 337.172 attive, ma il saldo tra quelle avviate nel 2018 (13.629) e quelle cessate (26.073) è di -12.444, il più corposo di sempre. E’ stato anche l’anno che ha confermato la crescita dei ristoranti etnici e del food delivery. Sono alcuni dei fenomeni fotografati dal ‘Rapporto RistoratoreTop 2019’, presentato oggi a Rimini di fronte a 400 imprenditori del settore. Il rapporto, prodotto dal neonato Osservatorio Ristorazione, racconta – si legge in una nota – lo status socio-economico, le abitudini di consumo, gli impatti della tecnologia e le nuove tendenze nel mondo della ristorazione nel 2018, elaborando dati provenienti da diverse fonti, tra le quali Fipe, Movimprese, Infocamere, Istat, Censis e Coldiretti.
Dall’analisi dei numeri di Movimprese, l’indice della nati-mortalita’ delle imprese di Unioncamere, emerge anche su scala locale il trend negativo nel rapporto tra attivita’ avviate e cessate nel 2018: a Milano si registra un saldo di -477, il piu’ alto degli ultimi 10 anni; a Roma di -922, meglio del 2015 (-951) e del 2017 (-941) ma piu’ del doppio rispetto al 2009 (-435); a Napoli -392, il peggiore dal 2010 dopo un 2009 di saldo positivo. Complessivamente, dal 2009 al 2018 si registra un differenziale di -100.977. “In realta’, il numero di ristoranti risulta in crescita, arrivando nel 2018 ai massimi storici – spiega Lorenzo Ferrari, presidente dell’Osservatorio Ristorazione – cio’ dipende da un aspetto finora ignorato nelle analisi di settore: le variazioni di codice Ateco, come i bar che diventano tavole calde, le macellerie che aggiungono la cucina, i concept store che uniscono la somministrazione di cibi e bevande ad attivita’ commerciali completamente diverse. Insomma, tutti, oggi, vogliono fare da mangiare, complice anche la spinta mediatica che vede protagonisti i ristoranti stellati e i relativi chef. E’ interessante constatare come queste realta’, 367 in Italia, ovvero lo 0,1% del totale dei ristoranti, abbiano pero’ un impatto economico irrisorio. Abbiamo stimato un fatturato annuo degli stellati pari a 284.380.000 di euro, lo 0,33% degli 85 miliardi complessivi”. Tra le realta’ in forte espansione in Italia che stanno influendo sulle abitudini di consumo, compaiono anche le catene e i ristoranti etnici. Rispetto alle prime, il Rapporto stima che il numero di locali facenti parte di catene si attesti attorno alle 5.500 unita’, ovvero l’1,63% del totale dei locali, con un fatturato medio annuo per singolo ristorante di 730.000 euro e un ammontare complessivo di 4.015.000.000, il 4,72% del totale del settore. La ristorazione etnica ha visto crescere del 40% le attivita’ negli ultimi 5 anni e alla fine del 2017 i locali che servivano cibi esotici erano 22.608, il 6,78% del totale, con 667.735 impiegati.
“Con i nuovi reattori e le nuove tecnologie, rispetto alla scelta fatta con il referendum di 40 anni fa, noi, senza se e senza ma diciamo che l’Italia paga l’energia il 40% in più dei propri competitor, e questo è un elemento che incide negativamente sulla competitività. Il nucleare mi pare una scelta obbligata se vogliamo tornare competitivi nel medio lungo periodo”. Lo ha detto il presidente di Confindustria Emanuele Orsini, intervistato da Myrta Merlino nel corso dell’assemblea generale di Confindustria Veneto Est, a Padova. Secondo Orsini, per tornare a produrre energia dal nucelre in Italia “nella migliore delle ipotesi servirà un decennio. Occorre però cambiare la narrazione sul nucleare e guardare con favore alla Newco fatta da Ansaldo, Leonardo ed Enel: vuol dire che l’Italia c’è”.
“Le industrie italiane ed europee sono quelle che emettono meno a livello mondiale – ha detto Orsini – in rapporto al Pil che produciamo che è il 15% secondo i dati Onu contribuiamo alle emissioni per un valore che secondo le stime è molto più basso, tra il 3 e il 5% delle emissioni mondiali. Ed allora mi pare difficile sostenere che dobbiamo sacrificare un intero comparto, importantissimo per l’economia europea, com’è quello dell’automotive per ridurre di un ulteriore 0,5%”.
L’economia europea ha il fiato corto e a risentirne è l’euro che scivola ai minimi da due anni rispetto al dollaro di fronte alla doccia fredda degli indici Pmi, una misura del grado di fiducia dei responsabili agli acquisti delle imprese. Il biglietto verde, da parte sua, continua ad avanzare, e non solo rispetto alla moneta unica, sull’onda della vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali. E lo stesso fa il Bitcoin, che prosegue il rally e supera i 99.300 dollari, ormai diretto verso la soglia dei 100.000 grazie alla sostegno del nuovo presidente americano alle criptovalute e all’idea di un regolamentazione più benevola. Il pmi composito dell’eurozona, finito a novembre a 48,1 (contro le attese che lo davano a 50), complice il calo inaspettato nei servizi più ancora che nell’industria manifatturiera, ha frenato le Borse del Vecchio Continente nella prima parte della giornata.
Non ha aiutato la revisione al ribasso del Pil della Germania, cresciuto nel terzo trimestre solo dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti. A far scattare le vendite sull’azionario hanno contribuito le scommesse del mercato su un taglio deciso dei tassi, di 50 punti base, alla prossima riunione Bce per dare ossigeno alle economie della zona euro in una scenario ormai di stagnazione: bassa crescita e inflazione non ancora sotto controllo. La prospettiva di tassi di interesse più bassi ha avuto l’effetto di far calare i rendimenti dei titoli di Stato a partire dal Bund tedesco, sceso al 2,23%. Quello dell’Oat francese è diminuito al 3% e del Btp italiano al 3,5%. Lo spread si è allargato intanto sopra i 126 punti base.
Le Borse europee hanno invece rialzato la testa nell’ultima parte della seduta sulla scia di Wall Street, spinto dal Pmi composito negli Stati Uniti, arrivato a 55,3 meglio delle stime a conferma di un’economia in crescita. A fine giornata il maggior rialzo lo ha messo a segno Londra (+1,38%) indifferente agli indici Pmi del Regno Unito, anch’essi in flessione. Ha fatto tutto sommato bene anche la Borsa di Francoforte (+0,92%) malgrado i brutti dati Pmi e il Pil deludente. Parigi ha registrato un guadagno finale dello 0,52% malgrado anche nella seconda maggiore economia dell’eurozona gli indici Pmi siano stati sotto le attese. Meglio intonata Piazza Affari (+0,6%) malgrado abbiamo perso terreno le banche, in sintonia con i big del credito spagnoli Santander e Bbva penalizzati dalla decisione del governo di Madrid di aumentare la tassa sugli extraprofitti. Con l’effetto di far segnare alla Borsa del Paese solo un timido +0,39%.
L’euro in serata si è confermato debole col cambio sul dollaro a 1,042, ai minimi da novembre 2022. Che la Bce si prepari a nuovi tagli dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, di fronte a un target d’inflazione al 2% che dovrebbe essere raggiunto a metà 2025, lo ha detto anche il presidente della Bundesbank Joachim Nagel, spiegando che i dati Pmi di oggi confermano lo scenario di stagnazione dell’economia tedesca. Nel complesso, visti i Pmi, difficilmente la situazione avrebbe potuto rivelarsi peggiore, è l’opinione condivisa dagli analisti secondo cui il settore manifatturiero dell’eurozona sta affondando sempre più nella recessione. Dopo due mesi in lieve crescita anche il settore dei servizi inizia poi a essere in difficoltà. E non c’è troppo da stupirsi considerato la confusione politica delle maggiori economie dell’area: il governo francese si muove su un terreno instabile e la Germania è alle prese con le elezioni anticipate. A tutto questo si aggiunge Donald Trump e la minaccia concreta di nuovi dazi sulle importazioni. Alle aziende europee non resta che navigare a vista.
La crescita dell’Italia si mantiene moderata e quest’anno sarà sotto l’1%, con un deficit in calo al 4,6% e un debito che invece sale. L’analisi di Moody’s (nella foto Imagoeconomica in evidenza) mostra come i fondi del Pnrr continuano a sostenere le prospettive dell’Italia. Ma per il Belpaese sarà “impegnativo” spendere tutte le risorse disponibili dal programma entro il 2026 anche perché la spesa è stata finora inferiore al previsto. “Tassi di interessi elevati e un potenziale di crescita di circa lo 0,8% richiederanno un ampio aggiustamento fiscale per raggiungere e mantenere avanzi primari in grado di stabilizzare il debito”, afferma Moody’s annunciando il completamente della revisione del rating dell’Italia che, precisa, “non è un’azione sul rating e non è un’indicazione” sulle future decisioni sul rating. L’Italia ha al momento un rating Baa3 con outlook stabile.
“In un contesto di tassi di interesse più elevati, l’aumento del potenziale di crescita e gli avanzi primari saranno fondamentali per evitare un significativo aumento del debito”, aggiunge Moody’s spiegando come la riduzione del deficit – al 3,5% nel 2025 e al 3% nel 2026 – “non sarà sufficiente” per un calo del rapporto debito-pil in seguito agli effetti del Superbonus. L’agenzia prevede che il debito italiano salirà al 139,7% del pil nel 2024 dal 134,8% del 2023 e continuerà a salire fino al 2027 a oltre il 143%. I risultati ottenuti dall’Italia nell’attuazione del Pnrr sono “contrastanti”: l’Italia è stato il primo paese dell’Ue a chiedere le ultime tranche di finaziamento e “prevediamo che la settima tranche sarà richiesta entro la fine del 2024. Tuttavia la spesa di queste risorse è stata inferiore al previsto e la spesa totale dei fondi disponibili entro la fine del 2026 sarà impegnativa”, mette in evidenza ancora Moody’s. L’agenzia potrebbe alzare il rating nel caso di fossero prove di una crescita sostanzialmente più forte: “un miglioramento del potenziale di crescita contribuirebbe a mettere il debito su una chiara traiettoria discendente”. Il rating invece potrebbe essere rivisto al ribasso se “anticipassimo un significativo indebolimento della forza economica e di bilancio dell’Italia”.