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Politica

Risiko della Rai, dieci giorni per chiudere sulle nomine

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Dieci giorni per chiudere il braccio di ferro nel governo sulla Rai. Nella maggioranza si dà per scontato che l’intesa sarà ufficializzata dopo il vertice del 30 agosto fra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani, annunciato dalla premier dopo il “conviviale” incontro domenicale fra la presidente del Consiglio e il leader leghista in Puglia. Con ogni probabilità sarà confermata l’indicazione di Simona Agnes come presidente della tv pubblica (in quota Forza Italia) e Giampaolo Rossi (in quota FdI) come amministratore delegato.

Questo schema non prevedeva inizialmente la figura del direttore generale (non obbligatoria nella governance) ma ora, secondo fonti vicine al dossier, si profilerebbe un’apertura su questa poltrona, che è l’obiettivo principale della Lega. La situazione è fluida, non sono ancora chiare le deleghe che avrebbe questo manager, e in alternativa Salvini potrebbe incassare la possibilità di indicare alcuni capi area di primo livello. “Facci sapere cosa la Lega vuole veramente”, è in sintesi il messaggio recapitato dal fronte meloniano a Salvini, in vista del vertice che deve sminare uno dei dossier più delicati (in queste settimane non sono mancate scintille fra gli alleati) in vista della complicata marcia della manovra finanziaria. L’intesa è necessaria anche per consentire a Camera e Senato di procedere, alla ripresa dei lavori nella seconda settimana di settembre, con la votazione sui quattro consiglieri del Cda Rai di nomina parlamentare.

Dopo il rinnovo dei vertici, si procederà con i direttori di testata, e gli occhi sono puntati sul Tg1, anche se sembrano rientrate le criticità registrate nelle scorse settimane e la conferma di Gian Marco Chiocci ora non sarebbe in discussione. Con Meloni “lavoriamo bene insieme, i giornali lo sanno e si inventano polemiche e litigi che non ci sono, né sulla Rai né sul commissario europeo”, ha assicurato il leader leghista parlando dal suo ufficio al ministero in una diretta social durata tre quarti d’ora, in cui ha espresso un endorsement a Raffaele Fitto, il collega con cui in questi mesi non è sempre ha avuto rapporti semplici: “Ha tutti i numeri per essere un ottimo commissario europeo indicato da questo governo”. L’indicazione è attesa dallo stesso vertice del 30 agosto, anche perché a fine mese scade il termine entro cui Ursula von der Leyen ha chiesto ai governi di esprimere due nomi, un uomo e una donna.

Dopo la pausa di Ferragosto, la trattativa sull’asse Roma-Bruxelles sta riprendendo e si entra nella fase decisiva: Palazzo Chigi punta a una delega economica “pesante”, che includa anche il capitolo Coesione. Cruciale, spiegano fonti di governo, sarà capire se e quante vicepresidenze esecutive intende prevedere von der Leyen. Se nei prossimi giorni l’Italia otterrà garanzie dalla presidente della Commissione, il vertice di fine mese dovrebbe confermare l’indicazione di Fitto, eventualmente in una sorta di “ticket” con Elisabetta Belloni. La sherpa del G7 e G20, direttrice del Dis, sarebbe la soluzione in subordine, qualora all’Italia venisse proposta una poltrona come quella di commissario al Mediterraneo, con deleghe che toccano anche i temi delle migrazioni e delle partnership con i Paesi dell’Africa. Nelle prossime settimane saranno da tenere d’occhio anche le mosse di Roberto Vannacci, alla luce del fermento nel comitato ‘Il mondo al contrario’ che può diventare movimento politico. Salvini ha però raccontato di aver ricevuto rassicurazioni dallo stesso generale. “Non ha intenzione di fare alcun partito – ha spiegato il segretario della Lega -. Qualche giornale si inventa i partiti di Vannacci che non ci sono. Stamattina ho sentito via sms Vannacci, ci ridiamo su sopra queste ricostruzioni surreali che hanno la credibilità di Topolino. Vannacci sarà a Pontida al grande raduno domenica 6 ottobre. Ci sarà con la Lega, non con altri partiti, mettetevi il cuore in pace”.

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M5s, interrogazione a Giuli, ‘chiarezza sul caso Maccanico’

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“È fondamentale fare luce su quanto ruota attorno al caso di Nicola Maccanico, il manager che dopo le sue le dimissioni dalla carica di amministratore delegato e direttore generale di Cinecittà S.p.A. è stato nominato – a distanza di poche settimane – Ceo del colosso privato della produzione tv Fremantle Italia, che in questi anni è stato uno dei principali clienti di Cinecittà S.p.A. e l’unico con il quale la società abbia sottoscritto un accordo per l’utilizzo ‘continuativo’ degli studios romani”. Così gli esponenti M5S in commissione cultura alla Camera Antonio Caso, Anna Laura Orrico e Gaetano Amato.

“Il mese scorso – affermano in una nota – il quotidiano Domani ha scoperto una nota di credito di tre milioni di euro proprio per Fremantle, la quale non era stata resa nota da Maccanico, in quanto non risultano comunicazioni al consiglio di amministrazione.

Oggi Il Fatto Quotidiano rivela che l’intero rapporto finanziario con il colosso britannico sia attualmente sotto la lente d’ingrandimento del nuovo cda, poiché, da un lato, Fremantle assicura che in questi due anni e mezzo ‘la società ha versato nelle casse di Cinecittà 50 milioni di euro, assicurando un fatturato costante’, mentre a Cinecittà sospettano che l’accordo, siglato nel 2022, non sia stato del tutto redditizio. Abbiamo presentato una interrogazione ad Alessandro Giuli su tutto questo, anche perché ci chiediamo se un simile salto sia compatibile con quanto disposto dalla legge. Il neoministro ha il dovere di intervenire su situazioni opache come queste: cosa farà affinché vengano evitate situazioni di conflitti di interesse e per preservare i principi di imparzialità e trasparenza? Se davvero vuole prendere le distanze dal suo disastroso predecessore, dovrà occuparsi con urgenza di questo caso”, concludono. 782c549d8f04ff01b46d94bf0f10d57473e

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Palazzo Reale verso il G7, torna arazzo dei Gobelins ‘Il Fuoco’

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Preparativi in corso per il G7 della Cultura a Palazzo Reale che coincidono con un periodo di lavori e restauri del sito: è stato riposizionato il secondo dei due arazzi della prestigiosa manifattura francese dei Gobelins, raffigurante ‘Il Fuoco’, a completamento degli interventi nella Prima Anticamera, una delle sale in cui si attendeva di essere ricevuti dal re. Dei due arazzi è stato restaurato ad aprile quello esposto sulla parete sud, che rappresenta L’Aria. Sono in tutto quattro gli arazzi che compongono la serie degli Elementi acquistata nel 1814 dal re di Napoli Gioacchino Murat per arredare le sale di Palazzo Reale: gli altri due sono La Terra e L’Acqua, esposti nella Galleria. Gli arazzi francesi, tessuti nel 1703, costituiscono la settima edizione della serie tessuta a partire dai cartoni che Charles Le Brun, pittore di corte di Luigi XIV, aveva dipinto nel 1664 e sono caratterizzati da un esuberante gusto barocco nelle parti figurate e dalla grande qualità delle nature morte ornamentali che, lungo il bordo, richiamano il tema iconografico.

Per il restauro di entrambi si è proceduto all’eliminazione dello strato di sporco particellare in superficie, sono state risarcite le scuciture ed è stato applicato un supporto in tela di lino nella parte posteriore, così da sostenere l’arazzo durante la sospensione a parete. Per il secondo arazzo, che rappresenta Il Fuoco, è stato possibile, dopo alcuni saggi, sottoporlo addirittura a un lavaggio, a completamento del lavoro realizzato dalla ditta Conservazione e restauro opere tessili di Graziella Palei. Intanto è partito alla volta del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale il trono che grazie al progetto “Restituzioni” di Intesa Sanpaolo sarà restaurato per ritornare al suo posto nel febbraio 2026. È stato sostituito da una seduta borbonica settecentesca. Le fasi del restauro saranno illustrate da video e clip disponibili anche sui social. Proseguono poi i lavori di pulitura e restauro dello Scalone d’Onore, iniziati nel mese di luglio, che si concluderanno a ottobre e saranno temporaneamente sospesi in occasione del G7 della Cultura.

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Ursula prova a mediare su Fitto, il Ppe fa quadrato

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Come spesso accade, ai giorni del grande scontro è subentrata l’ora della trattativa silenziosa, discreta. E forse decisiva. Ursula von der Leyen si prepara ad affrontare l’ultima curva che dovrebbe portarla, martedì prossimo a Strasburgo, a presentare la sua nuova squadra di commissari.

La strada resta strettissima, i malumori nella maggioranza da striscianti si sono fatti assordanti, l’ipotesi di Raffaele Fitto come vicepresidente esecutivo, se non adeguatamente controbilanciata, rischia di far deflagrare il sostegno di socialisti, liberali e verdi. Con un rischio, quello di un ennesimo rinvio e del conseguente indebolimento della stessa von der Leyen. Finora l’ex ministra tedesca non ha sbagliato un colpo, uscendo dal catino dell’Eurocamera di Strasburgo a luglio con una maggioranza più ampia di quella del 2019, ma con il voto contrario di Giorgia Meloni al Consiglio europeo e poi di Fdi in Parlamento. Una mossa che ha complicato la strategia del Ppe di avvicinare i conservatori alla maggioranza. D’altra parte – e questa è la convinzione dei vertici popolari, Ursula inclusa – non dare all’Italia il giusto peso significherebbe relegarla in posizione di semi-isolamento, che danneggerebbe la stessa macchina dell’esecutivo Ue.

Da qui la scelta di concedere a Fitto il ruolo di vicepresidente esecutivo. Al pari del liberale Thierry Breton, del popolare Valdis Dombrovskis e della socialista Teresa Ribera. Von der Leyen, nei suoi incontri, ha sempre affermato di voler seguire il criterio dell’equilibrio: geografico, di genere e di affiliazione politica. E’ il primo, nel caso di Fitto, ad aver dettato la scelta della presidente laddove S&D, Renew e Greens puntano sul terzo proprio per bocciare un esponente di un partito che, da quelle parti, è considerato di estrema destra anti-Ue. Per tenere il punto von der Leyen ha due strade: limitare le deleghe che fanno capo direttamente al ministro italiano, assegnando altrove quella agli Affari economici; o venire incontro alle richieste socialiste convincendo i lussemburghesi a cambiare il proprio candidato – il popolare Christophe Hansen con Nicolas Schmit, commissario uscente e Spiztenkandidat del Pse alle Europee.

“Stiamo negoziando, vedremo. Abbiamo delle richieste che vogliamo siano ascoltate. E’ una questione generale non un problema di singoli temi”, ha spiegato la presidente del gruppo S&D Iratxe Gracia Perez. Da qui ai prossimi giorni la presidente della Commissione tornerà a vedere i gruppi della maggioranza. Martedì sera, assieme ai commissari popolari, ha fatto invece il punto con il Ppe. Nel gruppo di Manfred Weber la difesa di Fitto è ferrea sebbene, viene riferito da fonti parlamentari, cominci a serpeggiare il timore di fare eccessive concessioni ai socialisti. “Per il Ppe l’Italia deve essere ben rappresentata nella prossima Commissione. L’Europa deve rispettare i risultati ottenuti dal governo italiano su molte questioni europee”, ha tuttavia ammonito Weber. Tra gli eurodeputati italiani, finora, ad aver annunciato il proprio no a Fitto sono invece i Verdi – per bocca del portavoce nazionale Angelo Bonelli – e il M5s.

“Nel 2019 Fdi non ha votato Paolo Gentiloni perché non ci fu votazione facendo prevalere l’interesse nazionale”, ha attaccato Gaetano Pedullà ricordando che Meloni “definì un inciucio” la nomina dell’ex premier. Fonti di Ecr, tuttavia, hanno respinto l’accusa: “Nella riunione dei coordinatori della commissione Econ del Pe il voto ci fu, e il rappresentante dei conservatori, Van Overtveldt, si espresse a favore dopo aver sentito il parere proprio di Fitto”, viene spiegato. La lista dei commissari è un cantiere semi aperto. Le vice presidenze esecutive dovrebbero essere sei. I greci (che hanno un peso nel Ppe) e i cechi (per la riconosciuta stima a Bruxelles del loro candidato, Jozef Sikela) puntano a deleghe forti, così come polacchi, olandesi e austriaci. Per tutti ci sarà la prova delle commissioni parlamentari. Non è detto che all’audizione segua una votazione. Ma per respingerne la richiesta, al Ppe, potrebbe servire lo scomodo aiuto di gruppi come quello dei Patrioti.

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