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Report riparte e Ranucci promette “un nuovo caso Boccia con le alte sfere di Fdi”

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Una partenza esplosiva. La promette il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, dando alcune anticipazioni delle inchieste che andranno in onda domenica sera alla ripartenza del programma su Rai3 e che potrebbero avere conseguenze a livello politico. La prima è quella su un nuovo caso Boccia al ministero della Cultura, che non riguarda però la gestione dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano. “Non riguarda Boccia, ma come modalità di operazione è un caso simile – rivela Ranucci a Un Giorno da Pecora -. Potrebbe essere al maschile. Riguarda sempre il ministero della Cultura, ma Sangiuliano non c’entra”. Se nella vicenda che ha portato alle dimissioni dell’ex direttore del Tg2 sono stati solo scalfiti altri esponenti del partito della premier Giorgia Meloni, questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

“Ci sono documenti e chat – fa sapere il conduttore – che farebbero ipotizzare responsabilità legate ad alte cariche di Fratelli d’Italia”. Il giornalista non vuole dire di più per il momento, ma il pensiero va alla prima nomina decisa da Giuli tra qualche polemica: la rimozione del capo di gabinetto Francesco Gilioli e la sua sostituzione con Francesco Spano. Il ministro è stato anche convocato dalla procura di Roma che ha aperto un’indagine dopo la denuncia di Sangiuliano nei confronti di Maria Rosaria Boccia. La Repubblica ha riportato indiscrezioni secondo cui Gilioli potrebbe essere stato rimosso per aver passato alcuni documenti riservati proprio a Report. “A noi non risulta che ci abbia passato documenti – assicura Ranucci -. Però da giornalista io chiedo ai miei, nel rapporto di fiducia, chi è la fonte e se uno di loro ha come fonte il capo di gabinetto e non lo rivela questo non lo so. Giuli ha detto che ha delle prove, non se riguardano i rapporti con Report. Se ce l’ha, le mostrasse. A noi al momento non risulta”.

Così come al conduttore “non risulta” che lo stesso abbiano fatto Boccia e i suoi legali. Fatto sta che le rivelazioni potrebbero avere conseguenze anche per Giuli, tanto che il sito Dagospia ipotizza che si possa arrivare alle sue dimissioni. “Dimissioni? Non lo so”, si limita a dire il conduttore. Oggi i giornalisti erano pronti a chiederlo direttamente al ministro, che avrebbe dovuto partecipare alla presentazione di una mostra sul Vasari al ministero, ma Giuli non ha partecipato ufficialmente per altri impegni. In attesa di conoscere i dettagli di questa inchiesta, è in scaletta un altro caso che potrebbe far discutere.

“Una seconda Cutro, tenuta nascosta”, sintetizza Ranucci. Una nuova tragedia del mare avvenuta recentemente che avrebbe provocato circa 65 morti. “Qualcuno se ne è accorto e, per evitare l’effetto Cutro, li ha sparpagliati”, spiega il conduttore, annunciando che nella puntata si cercherà di individuare i responsabili. La trasmissione ha contattato all’estero un uomo che racconta di aver soccorso i migranti, descrivendo “una scena orribile”. Focus poi sulla vicenda giudiziaria che ha riguardato la Liguria, che andrà in onda proprio nel giorno delle elezioni regionali. “Tutti si riempiono la bocca col silenzio elettorale, ma questo non riguarda i giornalisti, riguarda i partiti. Ma io ho già la valigetta pronta per la commissione di Vigilanza Rai”, ironizza il conduttore.

Ranucci non nasconde, poi, l’irritazione per la collocazione della ripartenza del programma. “Quest’anno partiremo molto tardi con Report – afferma -. Qualcuno ha deciso in Rai di dare tutto lo spazio del lunedì a Giletti e Giletti ha fatto spostare Iacona che è venuto davanti a noi e ci hanno spostato come un pacco postale. Io comunque lo vedo come un atto di stima per Report: dove lo metto lo metto, fa bene”.

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Esteri

Hezbollah rivendica l’attacco alla casa di Netanyahu

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Un movimento senza più capi, e con le milizie decimate dalla potenza di fuoco dai raid israeliani, continua a ostentare forza e capacità di resistenza. Così Hezbollah ha rivendicato l’attacco con un drone di sabato scorso sulla residenza privata di Benyamin Netanyahu a Cesarea, che effettivamente ha raggiunto l’edificio provocando danni, come è emerso dalle immagini pubblicate dai media israeliani. Il premier israeliano non c’era, ma il Partito di Dio ha avvertito che ci saranno ancora “notti e giorni” per riprovarci. E lo ha fatto con un atto pubblico di sfida, durante una conferenza stampa, a cui l’Idf ha risposto con una serie di raid proprio nella roccaforte sciita nel sud di Beirut, che ha anche sfiorato un ospedale e ucciso 18 persone.

Sullo sfondo, la guerra (per il momento) a distanza tra lo Stato ebraico e l’Iran, che ha portato all’arresto di un nuovo gruppo di spie di Teheran, stavolta palestinesi, che operavano a Gerusalemme est. Soltanto oggi la censura militare israeliana ha autorizzato la pubblicazione della notizia del raid contro la casa di Netanyahu, ed i media hanno pubblicato una foto che mostra i danni: alberi spezzati e una vetrata in frantumi, che sarebbe quella della camera da letto. Hezbollah si è assunto la “piena ed esclusiva responsabilità per l’operazione che ha preso di mira il criminale di guerra Netanyahu”, ha dichiarato Mohammad Afif, responsabile delle relazioni con i media del movimento libanese. Un modo per non tirare dentro l’Iran, che in questo momento non vuole provocare ulteriormente Israele, e allo stesso tempo per sottolineare che le milizie sciite libanesi hanno ancora tante risorse per continuare la propria lotta nel sud del Libano.

La conferenza stampa, affollata di giornalisti, è stata però interrotta bruscamente perché i caccia israeliani hanno iniziato a bombardare il quartiere, Ghobeyri, secondo quanto hanno riferito i media libanesi. Il sud della capitale libanese, come il resto il Paese, da lunedì sera è stata bersagliata da un’intensa serie di attacchi, che secondo l’Idf hanno preso di mira le installazioni militari di Hezbollah. In uno di questi raid, tuttavia, i proiettili sono caduti fuori dall’ospedale universitario Rafik Hariri. Il bilancio è di almeno 18 morti, tra cui quattro bambini, e 60 feriti, secondo le autorità sanitarie locali. Dall’altra parte del confine le milizie sciite hanno rivendicato il lancio di razzi contro la Galilea, le alture del Golan e fino a Tel Aviv, contro una base del Mossad. Anche Haifa, la principale città nel nord di Israele, è stata presa nuovamente di mira: la versione di Hezbollah è quella di un attacco con droni contro una base militare. Negli ultimi giorni Unifil è stata risparmiata dal fuoco incrociato, ma dal Financial Times ora è emerso che in uno degli incidenti in cui l’Idf ha colpito i caschi blu “si sospetta che abbia utilizzato fosforo bianco, una sostanza chimica incendiaria, abbastanza vicino da ferire 15 peacekeeper”.

A rivelarlo un rapporto riservato “preparato da un Paese che fornisce truppe” alla missione Onu e che è stato visionato dal quotidiano britannico. Tra gli incidenti, si cita anche quello in cui due tank israeliani hanno sfondato il cancello di una base dell’Unifil. Della guerra in Libano hanno parlato Netanyahu ed il segretario di Stato americano Antony Blinken in un faccia a faccia a Gerusalemme, ma il colloquio si è concentrato soprattutto sulla minaccia iraniana. Il gabinetto di guerra non ha ancora dato il via libera all’annunciata rappresaglia contro Teheran per i razzi su Israele del primo ottobre, ma l’intelligence è stata impegnata per smantellare una rete di spie al soldo della Repubblica Islamica.

L’ultima operazione ha condotto all’arresto di sette residenti palestinesi di Gerusalemme est, accusati di aver pianificato l’omicidio di uno scienziato israeliano e un sindaco su ordine di Teheran. In precedenza erano finiti in manette sette israeliani, provenienti da Haifa, che avrebbero spiato basi militari e infrastrutture energetiche. Una guerra in cui anche il Mossad sta giocando benissimo le sue carte: il clamoroso blitz che a fine luglio portò all’uccisione del capo di Hamas Ismail Haniyeh nel cuore di Teheran fu possibile proprio grazie a una soffiata, probabilmente di un esponente del Pasdaran o della sicurezza interna del regime degli ayatollah.

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Esteri

Brics alla corte dello zar, Xi e Modi a Kazan da Putin

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Un abbraccio dal premier indiano Narendra Modi, un caloroso saluto del leader cinese Xi Jinping – che lo chiama “vecchio amico” – e il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa che descrive la Russia come “un alleato e un amico molto prezioso”. Vladimir Putin incassa, a favore di telecamere, i riconoscimenti dei leader del Brics, riuniti a Kazan. Ma la strada per trasformare il gruppo in un’organizzazione coesa in opposizione al G7 rimane irta di ostacoli. L’evento centrale della giornata, prima della cena che ha aperto ufficialmente i lavori in questa città russa multietnica sulle rive del Volga, è stato il colloquio tra Putin e Xi, il terzo in presenza nell’arco di un anno. Mosca intende rafforzare ulteriormente la cooperazione con la Cina “su tutte le piattaforme internazionali al fine di garantire la sicurezza globale e un ordine mondiale giusto”, ha detto il capo del Cremlino. Xi gli ha risposto mettendo l’accento sul ruolo che la “profonda amicizia” tra Cina e Russia potrà svolgere “apportando importanti contributi all’equità e alla giustizia internazionale”.

Ma i nove Paesi che fanno parte del Brics dopo l’allargamento dello scorso anno (Brasile, Cina, India, Russia, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Emirati arabi uniti e Iran) compongono un gruppo non propriamente omogeneo, con interessi a volte contrastanti. Ci sono le divisioni geopolitiche, come quelle tra Cina e India. New Delhi, tra l’altro fa parte del Quad, l’alleanza per la sicurezza dell’Indo-Pacifico, insieme con Stati Uniti, Giappone e Australia. Quanto all’integrazione economica, la maggior parte dei Paesi Brics, a partire dalla stessa Cina, mantengono importanti relazioni con l’Occidente e appare improbabile che siano pronti a metterli a repentaglio spingendo oltre un certo limite i legami con Mosca. Non è un mistero che molte banche cinesi nell’ultimo anno abbiano bloccato le transazioni con clienti russi nel timore di incorrere in sanzioni secondarie da parte di Washington. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha detto che durante il vertice si parlerà di “un progetto generale di sistema finanziario e di pagamenti”.

Ma appare prematuro parlare di un processo per l’abbandono del dollaro negli scambi tra i Paesi membri. Per Putin, tuttavia, il summit è una importante vetrina per mostrare che la Russia non è isolata a causa delle sanzioni occidentali, e lui non si è trasformato in un pariah sulla scena internazionale a causa del mandato di arresto della Corte penale internazionale. Oltre ai capi di Stato dei Paesi del Brics (tranne il brasiliano Lula che non è potuto arrivare a causa di una ferita riportata in un incidente domestico e sarà collegato in videoconferenza), parteciperanno al vertice diversi altri capi di Stato e di governo. Come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che Putin incontrerà domani a quattr’occhi.

Altro incontro bilaterale in programma nella giornata è quello con il presidente iraniano Massud Pezeshkian. Il Cremlino ha annunciato che nell’ultima giornata, giovedì, il capo del Cremlino avrà un colloquio con il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Il ministero degli Esteri ucraino ha protestato, affermando che la trasferta russa del capo delle Nazioni Unite è “una scelta sbagliata che non fa avanzare la causa della pace”. Facile prevedere che durante l’incontro si discuterà del conflitto ucraino. Così come ne ha parlato oggi Putin con Modi, che è tornato a proporsi come possibile mediatore dopo le missioni compiute l’estate scorsa a Mosca e a Kiev.

La Corea del Nord ha intanto commentato per la prima volta, liquidandole come “infondate”, le accuse di Seul e dell’Ucraina sull’invio di 12.000 soldati in appoggio alle truppe russe. Un rappresentante di Pyongyang all’Onu le ha bollate come voci “stereotipate e volte a diffamare l’immagine” della Corea del Nord. La settimana scorsa il Pentagono aveva detto di non essere in grado di confermare l’invio di truppe nordcoreane in Ucraina. Ma la Corea del Sud ha espresso il proposito di rispondere con “misure graduali”.

Secondo il settimanale americano Newsweek, il governo e le forze armate della Corea del Sud stanno esaminando un piano per inviare proprie forze a sostegno di Kiev, in particolare “ufficiali di intelligence ed esperti di tattiche nemiche”. Intanto da Kiev è arrivata la notizia di altre dimissioni eccellenti: questa volta a lasciare il suo incarico è stato il Procuratore generale ucraino, Andrei Kostin. La decisione, ha spiegato l’interessato, è conseguenza di uno scandalo relativo a falsi attestati di invalidità concessi a funzionari governativi per evitare la chiamata alle armi. Fatti sui quali è in corso un’inchiesta che ha toccato anche l’ufficio dello stesso Procuratore.

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Cronache

Gabbie e barriere, l’Esercito schierato in guerra contro la peste suina

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Arriva l’esercito a supporto delle strategia di contenimento ed eradicazione della peste suina africana. “Dal primo novembre avremo il supporto dei militari ai quali – ha annunciato il commissario straordinario alla peste suina africana (Psa), Giovanni Filippini – daremo puntuali indicazioni sui territori dove abbiamo bisogno della sorveglianza e dove abbiamo bisogno di mettere le gabbie per la cattura dei cinghiali. Andranno avanti in maniera coordinata e gestita a livello centrale. E questo si farà – ha precisato in audizione alla Camera – con l’esercito, con le polizie provinciali, con la protezione civile e con le ditte specializzate. Le forze armate potranno svolgere la loro azione nella zona di controllo di espansione virale”.

“Abbiamo atteso prima di impiegare l’esercito, affinché fossero nitide le modalità e le finalità di utilizzo delle nostre forze armate”, ha precisato il sottosegretario all’Agricoltura Patrizio La Pietra, secondo il quale “la chiarezza e la determinazione, essenziali per contrastare efficacemente la Psa, sono evidenziate anche dalla decisione, spiegata dal commissario, di avvalersi di strategie coordinate con il supporto di polizia provinciale, cacciatori e agricoltori nell’attività di sorveglianza”. Per scongiurare che l’emergenza possa radicalizzarsi, con tutte le conseguenze per la zootecnia che ne deriverebbero, la cabina di regia sembra dunque un punto fermo nella strategia di contenimento della peste suina africana.

“Abbiamo concentrato molto il coordinamento a livello centrale, avendo capito – ha sottolineato Filippini – che la Psa deve assolutamente essere gestita da una cabina di regia. A breve verrà nominato anche un nuovo subcommissario che avrà la delega di gestire il depopolamento dei cinghiali, a partire dai parchi. Soprattutto nella zona di espansione virale dove andremo a concentrare tutte le forze necessarie”. Con l’obiettivo proclamato da Filippini di riportare “la specie in equilibrio coi territori” e soprattutto, a tutela degli automobilisti e dei trasporti, sono inoltre in allestimento delle barriere lungo importanti assi viari della Penisola. “Sto per firmare due convenzioni, la prima con le concessionarie di autostrade e l’altra con il concessionario della Cisa. Queste barriere fortunatamente verranno messe nei terreni di competenza dell’autostrada e quindi loro ci garantiscono anche la manutenzione”, ha annunciato Filippini. Sulle barriere, ha assicurato, “stiamo correndo. In due mesi abbiamo già chiuso Milano, parliamo quindi di centinaia di chilometri. Daremo poi priorità alla Cisa, anche se è veramente molto complicata come territorio. Il ministero della Salute sta acquistando le gabbie per la cattura degli animali che daremo in gestione solo all’interno delle zone di controllo di espansione virale all’esercito e alla polizia provinciale”.

La lotta alla peste suina parte tuttavia con un organico dei veterinari di sanità pubblica sottodimensionato rispetto alle esigenze dettate dall’emergenza e sul territorio italiano mancano anche mattatoi specializzati per un macello delle carni selvatiche separato ed esclusivo. “Dovremmo rapidamente recuperare nuovi veterinari. Siamo in difficoltà, – ha ammesso Filippini – anche perché abbiamo una categoria di professionisti che sta andando in pensione. Inoltre i veterinari che seguono i focolai non possono rientrare in altri allevamenti prima di una settimana e quindi occorre una rotazione dell’organico”. Nel frattempo indennizzi per gli allevamenti colpiti vengono chiesti dal presidente di Coldiretti Ettore Prandini: “oltre ai danni diretti, legati alla perdita dei capi – ha detto – occorre includere anche quelli indiretti, con gli allevamenti costretti ad interrompere completamente tutte le attività, comprese quelle di ripopolamento”.

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