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Salute

Prima morte da encefalopatia equina orientale nello Stato di NY

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Allerta a New York per l’ encefalite equina orientale: il primo decesso nello stato di NY dal 2015 di un paziente colpito dalla malattia e’ stato annunciato dallo stesso governatore Kathy Hochul in un comunicato. La persona, residente nella contea di Hulster lungo il fiume Hudson, era stata diagnosticata con la patologia trasmessa da zanzare infette, per cui non esistono trattamenti, il 20 settembre. Hochul ha definito il rischio di contrarre l’ encefalite equina orientale una ‘minaccia per la salute imminente’ ed ha annunciato una serie di misure per proteggere i cittadini dal contagio.

Tra questi una campagna di sensibilizzazione pubblica per i cittadini che vanno nei parchi e nelle zone verdi affinche’ usino spray repellenti, vestiti protettivi e cosi’ via. Alcune settimane fa vari paesi del Massachusetts avevano addirittura istituito il coprifuoco per tenere a casa gli abitanti nelle ore serali in cui le zanzare sono piu’ attive. Quello di New York sarebbe il secondo decesso negli Stati Uniti di quest’estate dovuto all’ encefalite equina orientale, il primo era stato un uomo del New Hampshire. Altri contagi sono avvenuti in Massachusetts, New Jersey, Rhode Island, Vermont e Wisconsin, secondo i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie. La malattia e’ rara ma grave: descritta per la prima volta nel 1830 nei cavalli, e’ diffusa da zanzare portatrici del virus che provoca una infiammazione del cervello. Nel 30% dei casi le vittime dell’ encefalite muoiono. Non ci sono dettaglia sull’ identità della persona deceduta nello stato di New York.

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Tumore polmone, in Campania la cura arriva a casa del paziente

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La Campania amplia l’offerta di servizi domiciliari, garantendo ai pazienti con tumore al polmone un’assistenza più completa e personalizzata. Il modello organizzativo della Regione consente ai pazienti oncologici di assumere la terapia direttamente a casa, semplificando così il percorso di cura. Si tratta di farmaci di fascia H non classificati per somministrazione ospedaliera che possono essere dispensati dalle farmacie territoriali della Asl di appartenenza e, quindi, consente anche ai pazienti con diagnosi di tumore al polmone non a piccole cellule (Nsclc) “oncogene addicted”, ovvero i pazienti con una forma di tumore legata a una specifica mutazione genetica (in Campaniacirca 1500 all’anno), di assumere i farmaci orali direttamente a casa propria. Tempi burocratici per la somministrazione domiciliare 120 giorni a fronte di una media nazionale che si attesta su un anno.

“La Rete oncologica della Campania è un esempio virtuoso di multidisciplinarietà e inclusività – dichiara Gennaro Sosto, direttore Asl di Salerno -. Sono stati infatti istituiti team oncologici multidisciplinari che si riuniscono per esaminare caso per caso e per definire in maniera congiunta la terapia più indicata. L’obiettivo è quello di rendere più semplice la vita dei pazienti e dei loro cari costretti già ad affrontare una malattia difficile che ha un alto tasso di mortalità”. Il tumore del polmone è considerato un ‘big killer’. Nel 2023, l’Italia ha registrato circa 44mila nuove diagnosi di tumore del polmone, di cui circa 4000 in Campania. “I trattamenti personalizzati possono determinare un aumento significativo della sopravvivenza e un miglioramento della qualità della vita”, spiega Alessandro Morabito(nella foto) direttore dell’Oncologia clinica toraco-polmonare del Pascale. Se ne parlerà oggi pomeriggio a Napoli in occasione della tavola rotonda “Il valore dell’innovazione nei percorsi di cura dei pazienti con Nsclc Oncogene Addicted”, incontro realizzato da Amgen Italia.

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Sanità: sempre più medici di famiglia con pazienti extra, 300 in più specie al Nord

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Sono sempre di più i medici di famiglia con un numero extra di pazienti, rispetto al massimo ‘storico’ di 1.500 assistiti. In caso di carenze e situazioni di necessità assistenziale, infatti, oggi è possibile una deroga fino a 1.800 assistiti. E negli ultimi mesi, soprattutto al Nord, questa soluzione è sempre più frequente per garantire le cure primarie. Lo spiega all’Adnkronos Salute Alessandro Dabbene, vicesegretario nazionale dalla Federazione nazionale dei medici di medicina generale (Fimmg). “La normativa – sottolinea – prevedeva da tempo che oltre il cosiddetto massimale, il ‘tetto’ di 1.500 pazienti per camice bianco, le Regioni potessero autorizzare un aumento per singoli casi. Ma finché non c’è stata la grossa carenza di medici a cui stiamo assistendo adesso, questo tipo di deroga non è quasi mai stata applicata”. Successivamente, invece, “con l’esplosione della carenza di medici, soprattutto al Nord, a questa norma, nel contratto del 2022, se ne è affiancata un’altra che offre alle Regioni la possibilità di ‘sforare’ il massimale non in maniera generica, ma con il limite che non può superare i 1.800. Questo perché si è voluta normare una situazione che sta diventando quasi strutturale. Si tratta, infatti, di un fenomeno ormai assolutamente diffuso e che durerà per diversi anni”, predice Dabbene.

Le regioni in cui accade di più “sono quelle del Nord Italia: Piemonte, Lombardia e Veneto che hanno anche dettagliato questo tipo di possibilità negli accordi regionali, e hanno approfondito il tema con una certa autonomia alle aziende. La deroga, però – spiega il sindacalista – seppure viene richiesta ai colleghi in caso di carenza, a nostro avviso deve prevedere un’organizzazione avanzata dello studio, con la presenza del personale. E per questo servono incentivi”. In ogni caso “non può trattarsi di una soluzione definitiva. E’ un ‘tampone’ anche se – è prevedibile – sarà di lunga durata. Solo adesso, infatti, la cosiddetta gobba previdenziale, cioè il picco di pensionamenti dei medici di famiglia, che abbiamo avuto negli ultimi 2 anni, inizia lentamente a scendere, ma tra le carenze che si sono accumulate e quelle che comunque si verificheranno ancora nei prossimi anni, avremo un fenomeno di carenza almeno fino al 2030, questo è sicuro”.

L’aumento del massimale, continua Dabbene, “sta diventando, dunque, quasi la norma nel Nord Italia. Va sottolineato, comunque, che l’adesione è discrezionale, nel senso che il medico può scegliere di non incrementare il numero di pazienti e di mantenere i suoi 1.500 assistiti o addirittura autoridurli per vari motivi”. Il sovraccarico di lavoro non è infatti da sottovalutare. “Si pensi che, visto l’invecchiamento della popolazione, con 1.800 pazienti si arrivano ad avere anche 60 persone in assistenza domiciliare programmata, a cui bisogna aggiungere le visite non strutturate. E anche l’attività di studio si moltiplica enormemente”. Quello dell’aumento del massimale, quindi, “è una possibilità che, ribadisco, è stata prevista nei contratti. I medici che rinunciano lo fanno perché, il più delle volte, non dispongono di un’organizzazione di supporto e faticano già ad assistere 1.500 persone. Per questo – conclude il vicesegretario Fimmg – stiamo cercando di fare accordi con le Regioni per incentivare i medici, con una serie di aiuti a livello di personale o economici. Con le ultime norme, inoltre, c’è la possibilità di avere l’aiuto dell’ex medico di guardia (attuale continuità assistenziale) che oggi, dopo i nuovi accordi, può con il ruolo unico fare attività di supporto oraria, anche durante la settimana, ai medici di famiglia”.

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Cronache

Condannato a risarcimento, ospedale romano paga solo la metà

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A dodici anni dalla morte della sorella per un caso di malasanità e una sentenza ormai definitiva che ha quantificato in un milione di euro il risarcimento, i familiari hanno ricevuto solo la metà della somma perché l’Istituto sanitario condannato a pagare ha congelato la restante cifra ritenendola “impignorabile”. La vicenda risale al 2012. Donatella Pellegrino, palermitana di 57 anni, viene operata all’istituto Regina Elena di Roma per un intervento al surrene. La notte dopo l’operazione la donna accusa forti dolori segnalati ai medici, ma solo la mattina successiva viene accertata un’emorragia alla milza: è necessario un secondo intervento d’urgenza ma da quel momento per la donna inizia un calvario tra terapia intensiva, dialisi e trasfusioni: muore circa cinque mesi dopo.

I fratelli della donna si sono rivolti al Tribunale di Roma che nel marzo 2015, con sentenza di primo grado, ha stabilito che l’istituto Regina Elena avrebbe dovuto risarcirli con un milione di euro. La struttura sanitaria ha fatto appello, la Corte ha confermato il verdetto di primo grado a maggio dell’anno scorso. “L’istituto Regina Elena non ha fatto ricorso in Cassazione, la sentenza è dunque definitiva – dice l’avvocato palermitano Marco Favarò, legale dei familiari della donna – eppure dopo che nel 2017 sono stati erogati i primi 500 mila euro, non è mai stata versata la seconda metà”.

Trascorsi invano i termini di legge, i familiari hanno avviato un’azione legale presso la sezione esecuzioni mobiliari del Tribunale di Roma chiedendo il pignoramento dei 500 mila euro, ma ancora la vicenda non si è conclusa. “Abbiano interpellato il gestore della tesoreria del Regina Elena, uno dei principali istituti di credito nazionali – aggiunge Favarò – che ci ha comunicato che la somma, pur presente in cassa, è stata ‘accantonata’ ma non sarebbe pignorabile in quanto una delibera interna della struttura sanitaria l’avrebbe destinata ad altre spese. La normativa vigente prevede che le somme a disposizione di enti pubblici, ed in particolare delle aziende ospedaliere, non possano essere pignorate se preventivamente destinate a mutui, stipendi o servizi indispensabili – prosegue il legale – Ma nella delibera in questione, che oltretutto è successiva alla nostra richiesta di pignoramento, l’istituto avrebbe destinato le somme a spese che a nostro parere non rientrano tra quelle che la legge indica come impignorabili: tra queste risultano ad esempio ‘godimento di beni e servizi’, ‘organi aziendali’ e ‘acquisto di beni non sanitari'”.

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