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Cronache

Papa Francesco taglia le spese delle diocesi e in Campania ne accorpa due nel Casertano

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Mano a mano, un tassello alla volta, papa Francesco continua a mettere in atto il suo programma di riduzione del numero delle diocesi italiane, che fin dall’inizio del suo pontificato aveva sollecitato alla Cei. E lo fa non abolendo le diocesi esistenti, ma unendone volta per volta due vicine “nella persona del vescovo”. L’ultimo caso, oggi, ha visto il Pontefice nominare vescovo della Diocesi di Alife-Caiazzo, in provincia di Caserta, monsignor Giacomo Cirulli, che e’ gia’ vescovo di Teano-Calvi, unendo cosi’ le due diocesi ‘in persona Episcopi’. Il procedere del Papa, in assenza di altre forme giuridicamente ratificate di riduzione delle 226 diocesi italiane (225 territoriali piu’ l’Ordinariato militare), e’ ormai sistematico. E non si tratta certo solo delle due piccole diocesi a cavallo delle province di Caserta e Benevento, di fatto unificate oggi nella persona del vescovo. I casi analoghi sono gia’ sei – quindi di 12 diocesi unificate due a due – in verita’ a partire da quelle di Cuneo e Fossano gia’ riunite ‘in persona Episcopi’ fin dal 1/o febbraio 1999, quindi da papa Wojtyla (ma solo il 12 febbraio 2019 le assemblee diocesane hanno date parere positivo alla fusione). Bergoglio, di suo, ha proceduto cosi’ con la diocesi di Tivoli e la sede suburbicaria di Palestrina (Roma), riunite dal 19 febbraio 2019 nella persona del vescovo di Tivoli mons. Mauro Parmeggiani, che era gia’ amministratore apostolico a Palestrina. Quindi con le diocesi sarde di Nuoro e di Lanusei, unificate dal 9 aprile 2020 nella persona del vescovo mons. Antonello Mura, che era gia’ vescovo della prima e amministratore apostolico della seconda. Poi ancora, dal 27 giugno 2020, nelle Marche, con l’arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche e la diocesi di Fabriano-Matelica, unificate nella persona dell’arcivescovo mons. Francesco Massara. Stessa sorte, in Emilia-Romagna, per l’arcidiocesi di Modena-Nonantola e la diocesi di Carpi, riunite dal 7 dicembre 2020 nella persona dell’arcivescovo Erio Castellucci. Infine oggi con le diocesi campane di Teano-Calvi e di Alife-Caiazzo. Altri casi di unione ‘di fatto’, se cosi’ si puo’ dire, non sancita anche giuridicamente, sono quelli della diocesi sarda di Ales-Terralba, il cui vescovo mons. Roberto Carboni e’ stato nominato il 4 maggio 2019 vescovo di Oristano, restando pero’ come amministratore apostolico anche di Ales. Similmente, il 12 ottobre 2019, l’arcivescovo di Torino mons. Cesare Nosiglia e’ stato nominato anche amministratore apostolico della diocesi di Susa. Cosi’ come, il 7 marzo 2020, il vescovo di Foligno mons. Gualtiero Sigismondi e’ stato nominato vescovo di Orvieto-Todi, restando anche amministratore apostolico a Foligno. Che le 226 diocesi italiane, molto spesso di piccole dimensioni, siano troppe e vadano accorpate e ridotte – l’ultimo riassetto, con il taglio di un centinaio di sedi, e’ del 1986 – e’ una questione che si trascina da almeno trent’anni, anche per la necessita’ di contenere strutture, spese e personale. Un dossier, pero’, che non trova particolare consenso tra i vescovi – anche al di la’ dei personalismi e dei particolarismi -, specie nelle zone d’Italia ritenute abbandonate “anche dallo Stato” e dove la Chiesa ritiene necessario mantenere il proprio presidio. Bergoglio ha posto la questione fin dal suo primo incontro con l’episcopato italiano, nell’assemblea del maggio 2013, poi sollecitando piu’ volte venisse definito un riordino. Ma, tra pareri delle Conferenze episcopali regionali e valutazione del progetto in sede di Congregazione per i Vescovi, le difficolta’ non sono certo mancate, tanto che non si e’ ancora arrivati a una soluzione definita e praticabile. Ma intanto il Papa va avanti di suo, accorpando le sedi e riducendo, se non il numero delle diocesi, almeno quello dei vescovi.

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Cronache

Il culto di Medjugorje: tra devozione popolare e cautela del Vaticano

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Anni fa, mentre si trovava in Argentina, il cardinale Victor Manuel Fernandez propose di collocare alcune edicole votive dedicate alla Madonna lungo le strade della sua diocesi. La prima immagine suggerita dai fedeli fu quella della Madonna di Medjugorje. Nonostante una suora avesse sollevato dubbi sull’approvazione della Chiesa riguardo a tale devozione, il vescovo tagliò corto con una frase significativa: “Ma che male può fare?”. Oggi, da prefetto dell’ex Santo Uffizio, con l’avallo di papa Francesco, Fernandez ha autorizzato la devozione per la Madonna di Medjugorje.

Il culto della Madonna di Medjugorje ha avuto inizio nel 1981, quando sei bambini riferirono di aver visto la “Regina della Pace” apparire nella piccola cittadina della Bosnia Erzegovina, all’epoca parte della Jugoslavia. Da allora, Medjugorje è diventata una meta di pellegrinaggio globale, attirando oltre 50 milioni di fedeli. Tuttavia, Roma ha sempre mostrato cautela nei confronti di queste apparizioni. Nonostante l’autorizzazione recente, il Vaticano non riconosce ufficialmente il carattere soprannaturale delle visioni, ma approva la “esperienza spirituale” che esse generano. “Non accogliamo questi messaggi come rivelazioni private, perché non abbiamo la certezza che siano messaggi della Madonna”, ha dichiarato Fernandez, “ma come testi edificanti”.

Il cammino per arrivare a questa decisione è stato lungo e accidentato. Il primo vescovo locale negò la veridicità delle apparizioni, e le tensioni tra i francescani e la diocesi, inizialmente di natura immobiliare, furono esacerbate dal fenomeno delle apparizioni. Negli anni successivi, il Vaticano avanzò dubbi, parlando di possibili “eresie e scismi”. Nel 2010, papa Benedetto XVI incaricò una commissione guidata dal cardinale Camillo Ruini, che espresse ulteriori perplessità. Nel frattempo, intorno a Medjugorje si era sviluppato un florido business di pellegrinaggi, alberghi e gadget religiosi, mentre alcuni scandali personali e abusi sessuali complicavano ulteriormente il quadro.

Papa Francesco, pur esprimendo ironia sulla frequenza delle apparizioni, a volte paragonandola a una “Madonna postina”, ha riconosciuto i “frutti positivi” della devozione: conversioni, guarigioni, riavvicinamenti alla fede e la riscoperta della preghiera e della messa da parte di milioni di fedeli. Questo ha portato alla decisione di autorizzare il culto pubblico, già anticipata dall’approvazione ufficiale dei pellegrinaggi qualche anno fa. L’arcivescovo Aldo Cavalli, nominato visitatore apostolico, sta vigilando attentamente su eventuali abusi legati al business dei pellegrinaggi, mentre il dicastero per la Dottrina della fede ha messo ordine negli innumerevoli messaggi attribuiti alla Vergine, approvando solo quelli in linea con il magistero della Chiesa.

In definitiva, i “frutti positivi” del culto di Medjugorje sono stati riconosciuti e separati dalle figure dei veggenti, che ora non sono più considerati i mediatori centrali di questo fenomeno. Con queste precauzioni, come direbbe il cardinale Fernandez, “che male può fare?”

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Cronache

Saverio Amato, il bagnino di Venezia punito per aver salvato una turista tedesca

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A Venezia, una turista tedesca di settant’anni ha rischiato la vita mentre faceva il bagno, colta da un malore improvviso. A salvarla è stato il bagnino Saverio Amato, che, dalla sua torretta di sorveglianza, si è tuffato immediatamente in acqua per soccorrerla e riportarla in salvo. Una scena che potrebbe sembrare ordinaria, se non fosse che l’eroico gesto di Amato è stato seguito da una sanzione di 1.032 euro, quasi tutto il suo stipendio mensile. La colpa? Non aver segnalato tempestivamente l’incidente alla Capitaneria di porto, nonostante avesse avvisato il 118.

Questa vicenda rappresenta perfettamente la figura dell’Eroe Multabile: una persona che compie un gesto esemplare, ma che, per una ragione burocratica, si ritrova punita invece che premiata. Tre estati fa, lo stesso Saverio Amato aveva salvato altri bagnanti e in quell’occasione ricevette una lettera d’encomio. Questa volta, però, ha ricevuto solo una multa. Ironico, se non fosse amaro.

L’episodio solleva una riflessione più ampia sulla nostra società, in cui il rispetto rigido delle norme burocratiche sembra prevalere su ogni altro principio, anche quando questo porta a punire chi si comporta con altruismo e senso del dovere. Come sosteneva Leo Longanesi, forse sulla bandiera italiana bisognerebbe aggiungere la frase «Tengo famiglia» e, oggi, anche «e penso ai fatti miei». Perché chiunque decida di fare di più, di prendersi una responsabilità che esula dai propri compiti strettamente regolamentati, rischia di trovarsi invischiato in lungaggini legali o, peggio, sanzionato.

Saverio Amato, con il suo gesto istintivo di salvare una vita, ha agito con coraggio e prontezza. Eppure, il suo intervento ha scatenato una reazione che lo ha trasformato da eroe a multato. Si spera che almeno la turista tedesca, riconoscente, decida di farsi carico della sanzione, ma la questione di fondo resta: in una società dove chi si assume una responsabilità viene punito, non c’è da sorprendersi se il lamento e lo scaricabarile rimangono le uniche azioni che non vengono mai sanzionate.

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Camorra: il pentimento shock di Luisa De Stefano, la boss del rione Pazzigno

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È un vero colpo di scena quello che emerge dalle aule di giustizia napoletane: Luisa De Stefano, leader indiscussa del gruppo camorristico delle “pazzignane”, ha deciso di collaborare con la giustizia dopo otto anni di detenzione. La notizia, riportata oggi dal Corriere del Mezzogiorno, getta nuova luce sulle dinamiche criminali di San Giovanni a Teduccio, rione di Napoli Est, dove il gotha della camorra era solito emettere le sue sentenze di morte.

Il nome di Luisa De Stefano è stato associato a crimini. Siamo in un quartiere dove sono stati commessi due omicidi di spicco  nel 2016: quello di Francesco Esposito, affiliato al gruppo Piezzo, e di Raffaele Cepparulo, scissionista del rione Sanità. Quest’ultimo agguato, avvenuto in un circolo ricreativo di via Cleopatra, costò la vita anche all’innocente Ciro Colonna, appena 19enne. De Stefano, durante una serie di udienze, ha ammesso le proprie responsabilità e ha iniziato a fornire dettagli preziosi sul ruolo del suo gruppo e dei clan rivali.

Secondo le prime dichiarazioni della neo pentita, le riunioni per decidere le sorti delle vittime avvenivano su una scala condominiale, fuori dall’abitazione di Ciro Rinaldi, storico capo dell’omonimo clan. Luisa De Stefano, tuttavia, poteva permettersi il lusso di dare del tu ai capi della malavita e di partecipare attivamente alle decisioni di vita e di morte.

Il suo pentimento, consumato in due udienze consecutive, potrebbe rappresentare un duro colpo per il cartello criminale di Napoli Est e segnare un’importante svolta nelle indagini della Direzione Distrettuale Antimafia.

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