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Nuovi spiragli di tregua, ‘per Israele progressi’

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Si apre un nuovo spiraglio per un accordo sul cessate il fuoco e sugli ostaggi a Gaza. L’ufficio del premier Benyamin Netanyahu, per conto del Mossad, ha fatto sapere che i mediatori dell’intesa hanno trasmesso a Israele “il riferimento” di Hamas sulle linee generali dell’intesa. Un riferimento – hanno sottolineato i miliziani palestinesi – che contiene “nuove idee” per porre fine alla guerra che dura da quasi nove mesi. E stando a quanto scrive Axios, che cita due alti funzionari israeliani, lo Stato ebraico avrebbe colto importanti progressi nella nuova risposta di Hamas. Secondo le fonti, aprirebbe infatti la porta a negoziati più dettagliati che potrebbero sfociare in un accordo sul cessate il fuoco e il nodo degli ostaggi nella Striscia. Israele – ha sottolineato l’ufficio di Netanyahu – “sta esaminando il riferimento e darà la sua risposta ai mediatori”.

Con il bilancio delle vittime in aumento e le ostilità che non cessano, entrambe le parti sono sotto una crescente pressione internazionale per concordare un cessate il fuoco nella Striscia. E nel frattempo, la guerra non dichiarata tra Israele e Hezbollah scivola ogni giorno di più verso una escalation militare totale. Solo oggi dal Libano sono arrivati, in una unica tornata, oltre 100 razzi dopo l’uccisione da parte di Israele di un alto comandante dei miliziani sciiti, alleati dell’Iran, che hanno aperto le ostilità l’8 ottobre scorso a distanza di un giorno dall’attacco di Hamas. Il comandante ucciso, come ha confermato l’Idf, è Abu Ali (o Muhammad Nimah) Nasser, responsabile di uno dei tre settori del Libano sud. Comandava, secondo le stesse fonti, il gruppo Aziz, una delle 3 divisioni regionali di Hezbollah al confine con Israele. E’ stato colpito in un attacco con un drone ad al Hawsh, a est di Tiro, 90 chilometri a sud di Beirut. Ricopriva un incarico, ha spiegato l’esercito, pari a quello di Taleb Abdallah, altro comandante militare di Hezbollah ucciso l’11 giugno scorso.

“Nasser – ha detto il portavoce militare – era responsabile del lancio dei missili anti tank e dei razzi dal sud-ovest del Libano verso Israele”. A dare il quadro sempre più pericolante della situazione è stato lo stesso ministro della difesa israeliana Yoav Gallant. I tank in uscita dall’operazione di terra a Rafah “possono arrivare fino al fiume Litani”, ha detto, riferendosi al fiume in Libano a circa 16 chilometri a nord della frontiera con Israele. “Stiamo colpendo duramente Hezbollah e – ha aggiunto – siamo in grado di intraprendere qualsiasi azione necessaria in Libano o a raggiungere un accordo da una posizione di forza. Preferiamo un accordo, ma se la realtà ce lo impone, sapremo combattere”.

La linea del fiume Litani è quella oltre la quale Israele vuole ritornino gli Hezbollah. “Il Libano diventerà sicuramente un inferno senza ritorno per i sionisti, in caso portassero avanti qualunque aggressione contro il Paese”, ha minacciato invece il ministro degli esteri dell’Iran, Ali Bagheri, aggiungendo che “la resistenza libanese ha giocato un ruolo attivo sul piano operativo e diplomatico, con la conseguente formazione di una forza deterrente nel caso in cui scoppiasse una guerra”.

La situazione di conflitto a Gaza, dove l’Idf continua ad operare nel sud della Striscia, e la crescente tensione al nord, senza dimenticare l’attentato terroristico che a Karmiel è costato la vita ad un soldato, non ha impedito ad Israele, secondo l’ong Peace Now, di prendere due provvedimenti molto contestati. Il primo riguarda la designazione di “terra statale” di 2.965 acri nella Valle del Giordano, idonei dunque per lo sviluppo futuro: il maggiore intervento di questo tipo dalla firma degli Accordi di Oslo del 1993. Al tempo stesso, l’ong ha fatto sapere che a giorni il Consiglio di pianificazione discuterà piani per la costruzione di 6.016 unità abitative in dozzine di insediamenti ebraici in Cisgiordania.

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In Iran un presidente riformista,’tendo la mano a tutti’

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“Tenderemo la mano dell’amicizia a tutti”. È all’insegna dell’apertura e della conciliazione la promessa di Masoud Pezeshkian, il politico riformista diventato il nuovo presidente dell’Iran dopo la netta vittoria, con quasi il 54% dei consensi, al ballottaggio con l’ultraconservatore Saeed Jalili. “Il cammino che ci attende è difficile e non può essere percorso senza la vostra fiducia, cooperazione ed empatia”, ha detto dopo il trionfo, segnando uno stacco netto con la chiusura e la rigidità che avevano contraddistinto la retorica di Ebrahim Raisi, il presidente ultraconservatore eletto nel 2021 e morto il 19 maggio in un incidente aereo.

La mano di Pezeshkian si presenta tesa verso tutte le diverse anime della società iraniana. Non solo i conservatori fedeli alla Guida Suprema Ali Khamenei o i riformisti, di cui fa parte, ma apparentemente anche verso la maggior parte della popolazione, che non ha votato in queste elezioni, dove ha partecipato solo il 49% degli aventi diritto e la campagna elettorale è stata segnata da moltissimi appelli per boicottare il voto da parte di prigionieri politici, dissidenti o famiglie di persone morte sotto il regime degli ayatollah. Pezeshkian, un cardiochirurgo di 69 anni che ha guidato il dicastero della Sanità durante l’amministrazione del riformista Mohammad Khatami dal 2001 al 2005, ha dato segnali in campagna elettorale su una possibile rimozione delle restrizioni a internet o sul fatto che non vede di buon occhio la repressione delle proteste, come successe nel 2022 con le manifestazioni dopo la morte di Mahsa Amini, la ventenne curda che ha perso la vita dopo essere stata messa in custodia dalla polizia morale perché non avrebbe portato correttamente il velo, obbligatorio in pubblico nella Repubblica islamica. L’apertura promessa da Pezeshkian sembra essere rivolta anche all’esterno del Paese, dopo che negli ultimi anni Raisi aveva rafforzato le relazioni con Paesi storicamente vicini all’Iran, come Russia e Cina, alzando invece un muro verso l’Occidente, con cui il nuovo presidente pare volere tenere un atteggiamento diverso, con l’obiettivo di rimuovere le sanzioni che affossano l’economia iraniana.

Durante la campagna elettorale, il politico riformista aveva affermato che non è possibile raggiungere una crescita economica per l’Iran senza “aprire i confini con altri governi”, mentre è stato sostenuto apertamente da Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri che contribuì alla firma dell’accordo sul nucleare del 2015, fallito però solo tre anni dopo. Gli analisti ritengono comunque che, per cambiare davvero qualcosa, Pezeshkian abbia davanti a sé un percorso difficile, come ammesso da lui stesso, soprattutto per la forte influenza sulle decisioni che vengono prese in Iran della Guida Suprema, a cui il nuovo presidente ha giurato fedeltà subito dopo la vittoria, affermando che “se non fosse stato per lui, non penso che il mio nome sarebbe uscito facilmente da queste urne”. Khamenei da parte sua ha espresso soddisfazione per l’aumento dell’affluenza rispetto al primo turno, che aveva segnato il record negativo dalla fondazione della Repubblica islamica con meno del 40%. “Questa grande e brillante mossa è indimenticabile, poiché ha sventato i complotti dei nemici, che miravano a iniettare delusione nel popolo iraniano”, ha detto la Guida suprema, sebbene abbia votato soltanto il 49% degli aventi diritto. Pezeshkian ha ricevuto subito le congratulazioni da parte della Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping e poi da parte dei Paesi dell’area del Golfo: Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

I complimenti sono arrivati anche dal leader siriano Bashar Al Assad e poi da India, Pakistan, Serbia, Armenia e Giappone. Si è congratulato con Pezeshkian anche Ilham Aliyev, il presidente dell’Azerbaigian, e Recep Tayyip Erdogan, il capo di Stato turco che ha definito l’Iran una “nazione amica e fraterna”. Non arrivano molte congratulazioni invece dal mondo occidentale, dopo che negli ultimi anni le relazioni con Teheran sono precipitate, anche nel contesto del coinvolgimento iraniano nella guerra a Gaza e della repressione delle proteste. In Italia a congratularsi “con il popolo e il governo iraniano” è stato il vice ministro degli Esteri Edmondo Cirielli, “nella speranza che si possa lavorare per il perseguimento della pace e stabilità soprattutto nel Golfo di Aden ed in generale in Medio Oriente”.

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L’ora della verità in Francia, Le Pen si smarca su Kiev

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Vigilia con il fiato sospeso per la Francia, con gli echi degli ultimi scontri divampati prima del silenzio elettorale. Marine Le Pen, che per gli ultimi sondaggi resterà lontana dall’agognata maggioranza assoluta, sarà comunque la prima forza del Paese, seguita dagli altri due blocchi, la gauche e i macroniani. Dal suo campo arrivano gli ultimi echi dalla campagna elettorale conclusa ieri, prima del tradizionale silenzio alla vigilia del voto. E’ tornata all’attacco sull’Ucraina, ricordando che con Jordan Bardella i rapporti con Kiev muteranno e in particolare sarà impedito a Kiev di usare le armi fornite dalla Francia per attaccare il territorio russo.

Duro scambio anche tra l’estrema destra e la maggioranza uscente, che ha accusato uno dei giornali editi da Vincent Bolloré di aver diffuso una fake news immediatamente prima del silenzio nel tentativo di evitare smentite. Per uscire dall’impasse che deriverà dai risultati delle urne e dai tre blocchi contrapposti, si pensa già a una larga coalizione, magari guidata da una personalità al di sopra della mischia ed estesa dai Républicains ai comunisti. E di un “controblocco” con le estreme di Le Pen e di Jean-Luc Mélenchon a rappresentare le opposizioni. Emmanuel Macron, all’origine di questa inedita situazione in Francia con la sua decisione di sciogliere il Parlamento dopo la sconfitta alle europee, è già al lavoro.

Il suo piano, la cui riuscita è tutta da dimostrare, è trasformarsi da capo della maggioranza in ago della bilancia di una grande coalizione di moderati di tutte le tendenze che terrebbe in piedi un “governo di unione nazionale”. Dopo qualche giorno di sfumature più o meno evidenti, la posizione di Bardella è tornata quella del rifiuto di ricoprire il ruolo di premier se non avrà la maggioranza assoluta. Quando i sondaggi erano più benevoli, il candidato primo ministro del Rn aveva azzardato – con l’appoggio di Le Pen – di potersi accontentare di 20-30 deputati in meno.

Avrebbe pescato i voti fra esponenti “compatibili” dei Républicains, dei centristi. Con l’approfondirsi del fossato fra i seggi assegnati dai sondaggi al Rn (175-205 seggi sui 289 necessari per la maggioranza assoluta), Le Pen e Bardella sono tornati sul “no” al ruolo di premier che diventerebbe “un assistente del presidente”. La ricerca di una soluzione all’impasse sembra quindi dover essere da lunedì l’occupazione principale di tutti i partiti francesi, ad eccezione del Rn e de La France Insoumise. Anche perché le altre due eventualità – un nuovo scioglimento e le dimissioni di Macron – sono escluse: la prima dall’articolo 12 della Costituzione, secondo il quale non si può procedere a un nuovo scioglimento dell’Assemblée Nationale prima di un anno; la seconda dal presidente in carica, che ha promesso ai francesi che resterà al suo posto all’Eliseo fino alla fine del mandato, nel maggio 2027. Gli ultimi fuochi come si diceva sono stati accesi da Le Pen, che ha rievocato la polemica sul titolo di ‘capo delle forze armate’ del presidente della Repubblica, un titolo che – secondo quanto da lei stessa affermato il 26 giugno scorso alla vigilia del primo turno – diventerebbe “onorifico” nel caso di coabitazione.

Con “l’ultima parola” che spetterebbe al primo ministro. Quindi, aveva detto allora, “se Macron volesse inviare truppe in Ucraina non potrebbe farlo se Bardella fosse premier”. In un’intervista alla Cnn di cui venerdì erano stati diffusi soltanto stralci, ha aggiunto che il Rn al potere “vieterà a Kiev di usare armi a lungo raggio fornite dalla Francia per colpire la Russia”. I veleni invece riguardano il fatto che Le Journal du Dimanche ha diffuso la notizia secondo cui il governo “starebbe pensando” ad un ritiro della legge sull’immigrazione. Informazione rilanciata subito da Bardella, in quello che il premier Attal ha definito “un bel coordinamento” e che è stata subito seccamente smentita. Non soltanto da Attal, ma dal ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, e dal ministro degli Esteri, Stéphane Séjourné.

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Biden liquida i timori, ‘sono il più qualificato’

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“Nessuno è più qualificato di me per la presidenza e per vincere la corsa” alla Casa Bianca: “sono il più qualificato”. Incurante dei timori del partito e degli elettori, Joe Biden ribadisce che non intende lasciare e si dice sicuro di poter vincere le elezioni e restare in carica altri quattro anni. Nei 22 minuti di intervista a Abc, il presidente Usa appare più sicuro e incisivo rispetto alla disastrosa performance al dibattito contro Donald Trump, ma le sue parole non sembrano in grado di rassicurare e spazzare via i dubbi. Incalzato da George Stephanopoulos sui timori relativi alla sua età e al suo stato di salute, Biden cerca di smarcarsi alle domande. “Sono in buona forma.

Non correrei se non credessi di poterlo fare”, ha detto spiegando di sottoporsi a controlli medici di routine. “Non esiterebbero a dirmi che c’è qualcosa che non va”, ha quindi aggiunto. Il presidente però non si è impegnato a sottoporsi a una valutazione medica indipendente. “Con la presidenza faccio un test neurologico completo ogni giorno”, si è limitato a dire ribadendo che il dibattito tv è stato un “brutto episodio” e “non un segnale di un problema più serio”. Biden ammette di essere arrivato al confronto esausto e di non essere riuscito a recuperare a causa di un brutto raffreddore.

“La responsabilità di come è andato il dibattitto è solo mia”, ha aggiunto puntando comunque il dito contro il “bugiardo patologico” di Trump che ha mentito ripetutamente. Biden non solo si è mostrato sprezzante sui dubbi sulla sua salute, ma ha messo in dubbio anche i sondaggi che lo danno in svantaggio rispetto a Trump. A Stephanopoulos che gli indica di non aver mai visto vincere un presidente con il 36% dei gradimenti, Biden ha risposto secco: “Non credo a questo numero. Le nostre rilevazioni indicano altro. Ricordo che nel 2020 dicevano che non potevo vincere”. E quando il giornalista lo incalza facendogli notare che nel 2024 è molto più difficile, il presidente risponde: “Non quando si corre contro un bugiardo patologico.

Tutte le rilevazioni indicano che è un testa a testa. Non penso che ci sia nessuno più qualificato di me per essere presidente e vincere la corsa. Sono il più qualificato”. La performance del presidente comunque non convince. Molti democratici – riportano i media americani – non la ritengono rassicurante. “Non ritengo che spazzerà via le preoccupazioni”, ha osservato David Axelrod, l’ex consigliere di Barack Obama. A colpire è stata la decisione con cui Biden ha escluso del tutto una sua uscita dalla corsa: lo farei – ha detto – solo su intervento divino, “se me lo dicesse Lord Almighty”.

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