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Esteri

Nuova fumata nera, l’Ue divisa sul petrolio russo

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Ue ancora divisa sull’embargo al petrolio russo, con un l’ennesimo nulla di fatto alla riunione dei rappresentanti permanenti dei 27 (Coreper). I contatti bilaterali tra presidenza, Commissione e gli Stati Ue piu’ restii allo stop alle forniture di Mosca sembravano aver ricomposto diverse posizioni alla vigilia, ma non e’ bastato ancora per sbloccare l’atteso via libera al sesto pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia, malgrado il G7 abbia messo nero su bianco l’impegno a fermare l’import del greggio. Fonti europee riferiscono di divisioni che non sembrano insuperabili, di “progressi importanti” e del fatto che comunque c’e’ unita’ sulla necessita’ di adottare il sesto pacchetto, con l’ok che potrebbe arrivare “nei prossimi giorni”. “Resta ancora del lavoro da fare, sulla base del principio di solidarieta’ europea, per garantire la sicurezza degli approvvigionamenti per gli Stati membri con oggettive difficolta’ infrastrutturali”, spiegano. Sul tavolo ci sarebbero anche questioni tecniche legate tra l’altro “alla riconversione infrastrutturale”. Sta di fatto che ormai al quarto giro di tavolo tra gli ambasciatori, e dopo l’annuncio gia’ fatto da von der Leyen mercoledi’ scorso al Parlamento europeo a Strasburgo, c’e’ ancora fumata nera. Lo slittamento, comunque, consentira’ di formalizzare le nuove sanzioni dopo aver visto cosa abbia in serbo il presidente russo Vladimir Putin per domani, 9 maggio, data che in Russia celebra la fine della ‘Grande guerra patriottica’ e che per l’alto valore simbolico l’autocrate potrebbe voler usare per una svolta nella guerra in Ucraina. Le frizioni emerse nei giorni scorsi sull’embargo graduale al petrolio russo erano state soprattutto con i Paesi piu’ dipendenti e con impianti di raffinazione esclusivamente tarati per il petrolio russo. Cosi’ sembrava che rispetto allo stop a fine anno previsto per gli altri dell’Ue, ci sarebbe stata una deroga di due anni per Ungheria e Slovacchia e, nell’ultima versione, anche per la Repubblica Ceca. A complicare il quadro sabato anche la Bulgaria si e’ detta pronta ad usare il diritto di veto (tra i 27 serve l’unanimita’) se non avra’ un rinvio di due anni all’embargo. Gli altri punti del sesto pacchetto di sanzioni sembrano invece concordati: dalla disconnessione dal sistema internazionale dei pagamenti Swift di nuove banche, tra le quali Sberbank, ai nuovi nomi nella black list, come forse quello della compagna di Putin, Alina Kabaeva, e del patriarca ortodosso Kirill. Non e’ gia’ in agenda una nuova riunione dei rappresentanti permanenti dei 27, e sembra improbabile sia gia’ domani, forse martedi’.

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Sull’embargo delle armi a Israele l’Ue resta divisa

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L’Ucraina sarà stato anche il primo punto all’ordine del giorno del Consiglio Esteri del Lussemburgo ma è il Medio Oriente a tenere banco, tra divisioni e difficili compromessi per avvicinare le posizioni dei 27. L’Ue ha trovato finalmente le parole per condannare ad una sola voce gli attacchi d’Israele al contingente Unifil – “ci abbiamo messo troppo tempo per una cosa ovvia”, è il rammarico dell’alto rappresentante Josep Borrell – ma sul resto (quasi tutto) zoppica. Come ad esempio sulla questione di un possibile embargo alle forniture d’armi, ventilato da Emmanuel Macron e Pedro Sanchez. “Si potrebbero citare altri Stati membri che si trovano nella situazione opposta e chiedono una maggiore fornitura di armi a Israele”, nota Borrell. La verità è che si tratta di una “competenza nazionale” e per cambiare le cose ci vorrebbe una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (improbabile) oppure una decisione all’unanimità dei 27 (altrettanto impossibile, come spiegato dall’alto rappresentante).

Dunque si procede alla spicciolata. La posizione dell’Italia viene spiegata dal ministro Antonio Tajani, a Berlino per il vertice sui Balcani. “Dal 7 ottobre dell’anno scorso – ha detto – noi abbiamo bloccato tutti i contratti che riguardano la vendita di armi ad Israele, come previsto dalla legge; se poi usano armi vendute in passato non lo so”. Roma, anche in funzione di presidente del G7, è al lavoro per contenere la crisi. L’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al-Thani, sarà in visita di Stato in Italia il prossimo 21 ottobre. Ed è in questo quadro che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni starebbe valutando una missione in Medio Oriente nei prossimi giorni, con il Libano fra le possibili tappe. Per quanto riguarda l’Unifil, l’Ue ha definito “gravi violazioni del diritto internazionale” gli attacchi degli scorsi giorni e ha chiesto “spiegazioni immediate” a Tel Aviv.

I ministri degli Esteri di Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna oggi hanno ribadito la “preoccupazione profonda” in una nota congiunta e hanno chiesto che gli attacchi “cessino immediatamente”. Borrell, dal canto suo, ha esortato Israele a non minimizzare. Da un lato, infatti, ha definito gli episodi come “incidenti”, ma poi ha suggerito il ritiro come soluzione per evitarli. “L’Unifil non si ritira, sta dove deve stare, fino a che il Consiglio di sicurezza dell’Onu non prenderà una decisione in merito: gli attacchi vanno assolutamente evitati e non possono essere giustificati come ‘incidenti'”, ha aggiunto. Il Consiglio Esteri ha però varato delle misure pratiche contro l’Iran per il suo coinvolgimento nella guerra in Ucraina (nello specifico per aver fornito droni e missili balistici a Teheran).

Sette individui e sette entità sono stati sottoposti a misure restrittive e tra queste figurano tre compagnie aeree iraniane, inclusa l’Iran Air (le altre due sono Saha Airlines e Mahan Air). Inoltre, il Consiglio ha deciso di imporre misure restrittive nei confronti del vice ministro della Difesa iraniano, Seyed Hamzeh Ghalandari – oltre che ufficiali di spicco della Forza Qods del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (Irgc), del Quartier Generale Centrale dell’Irgc Khatam al-Anbiya e della Divisione Spaziale della Forza Aerospaziale dei Pasdaran, nonché gli amministratori delegati delle società Iran Aircraft Manufacturing Industries (Hesa) e Aerospace Industries Organization (Aio), quotate nell’Ue.

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La Cina accerchia Taiwan, tensione alle stelle

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Un numero record di incursioni di jet militari, elicotteri e droni in poco più di 12 ore, combinato allo schieramento delle forze missilistiche, navali e a quello inedito della guardia costiera, ha portato all’accerchiamento di Taiwan. La Cina ha mostrato i suoi muscoli alla provincia ribelle finita in stato di massima allerta per le manovre militari lampo ‘Joint Sword 2024/B’, le seconde della serie “punitiva” avviata a maggio come “severo avvertimento” alla leadership dell’isola di fronte “agli atti separatisti delle forze indipendentiste di Taiwan”.

Le operazioni sono state lanciate senza notifiche preventive, indicazioni di aree interessate dalle attività e durata, e con un perimetro d’azione entrato per la prima volta nelle 24 miglia nautiche della zona contingua. Insomma, passi ulteriori della ‘strategia dell’anaconda’ teorizzata dall’ammiraglio capo della flotta militare taiwanese, Tang Hua, in un’intervista all’Economist, basata sull’escalation mirata di attività militari con cui le forze armate cinesi soffocano l’isola nella loro morsa. “Abbiamo individuato 125 jet militari cinesi, elicotteri e incursioni di droni alle 16.30 locali, il record giornaliero più alto”, ha riferito il tenente generale taiwanese Hsieh Jih-sheng. La portaerei cinese Liaoning, schierata ad est, ha esercitato “pressione e abbiamo monitorato i decolli dei suoi jet da combattimento J-15”. Il presidente taiwanese William Lai ha riunito il Consiglio di sicurezza, con il ministro della Difesa Wellington Koo e altri funzionari. Mentre da Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha espresso “seria preoccupazione” per le mosse cinesi, “ingiustificate e a rischio di escalation”.

Quanto ai fini della postura di Pechino, Su Tzu-yun, direttore strategia e risorse di difesa del National Defense and Security Research di Taiwan, ha osservato che “il fulcro delle manovre è stato un blocco della parte meridionale e settentrionale di Taiwan, mirando ai porti di Taipei, di Keelung e di Kaohsiung, nonché a quello di Hualien sulla costa orientale”. In altri termini, le sei zone di interdizione tracciate dalla Cina hanno avuto il fine di “inibire” porti e basi militari per impedire l’uso da parte di Taipei delle sue forze armate. Su ha interpretato poi la collaborazione tra la Marina e la guardia costiera cinesi come lo sforzo per fare di Taiwan e delle sue acque circostanti il “mare interno” della Cina, stroncando ogni supporto esterno. La guardia costiera, a tal proposito, ha pubblicato una mappa con i suoi pattugliatori intorno a Taiwan a formare un cuore perché “l’accerchiamento è un atto d’amore”. La Liaoning, in questo scenario, potrebbe aver avuto il ruolo di simulare una portaerei Usa, ha notato Ying yu-lin della Tamkang University in un post su X, per studiare le soluzioni per neutralizzarla.

La prova di forza è stata legata da Pechino al discorso “indipendentista” del presidente William Lai per la Festa nazionale del 10 ottobre, secondo cui la Repubblica popolare non ha il diritto di rappresentare Taiwan e “la Repubblica di Cina (il nome ufficiale di Taiwan, ndr) e la Repubblica popolare non sono subordinate l’una all’altra”. La Cina considera l’isola parte del suo territorio “sacro” e “inalienabile”, come ha ribadito il recente il presidente Xi Jinping. Tuttavia, Michael Cole, analista sulla sicurezza basato a Taipei, s’è detto sicuro che Pechino volesse le manovre. A dispetto del monito alla moderazione del segretario di Stato americano Antony Blinken e con l’attenzione dell’Occidente su Medio Oriente, Ucraina e presidenziali Usa, “le operazioni come queste sono ben pianificate”, ha osservato. Aggiungendo che sono state lanciate in un momento in cui la Corea del Nord sembra mobilitarsi “per qualche tipo di azione militare o dimostrazione rivolta alla Corea del Sud”. Una sorta di coordinamento tra Pechino e Pyongyang? Non da escludere, secondo Cole, per testare come Usa e alleati regionali avrebbero risposto a contingenze simultanee. “C’è un elemento di guerra cognitiva in tutto questo”, un aspetto affatto secondario.

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Wsj: droni misteriosi sorvolano base Usa, Pentagono perplesso

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Droni misteriosi hanno sorvolato, lo scorso dicembre per 17 giorni, la base militare di Langley, in Virginia, violando lo spazio aereo su un’area che ha la maggiore concentrazione di strutture di sicurezza nazionale negli Stati Uniti e innervosendo il Pentagono. Lo riporta il Wall Street Journal citando alcune fonti, secondo le quali non è chiaro chi controllasse i droni o tantomeno a chi appartenessero.

La legge federale vieta che siano abbattuti vicino alle basi militari se non rappresentano un problema di sicurezza. Gli avvistamenti, tutti i giorni alla stessa ora, sono stati notificati anche al presidente Joe Biden. E mettono in evidenza – osserva il Wall Street Journal – il dilemma degli Stati Uniti fra il difendersi in casa dai droni e usarli invece facilmente all’estero. Per far fronte all’emergenza, a Langley sono state cancellate le esercitazioni notturne per diverso tempo. Ancora oggi a mesi di distanza non è chiaro chi ci sia stato dietro i droni, avvistati negli ultimi mesi anche nei pressi della base militare di Edwards, vicino Los Angeles.  8

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