“Ho sentito dire che verro’ trasferito nella colonia di massima sicurezza di Melekhovo, una cittadina della Russia centrale dove ai detenuti vengono strappate le unghie”: il tweet e’ del 4 maggio ma evidentemente Alexej Navalny aveva ricevuto l’informazione giusta. Oggi il capo del suo staff Leonid Volkov e la portavoce Kira Jarmysch hanno fatto sapere sui social che il principale oppositore di Vladimir Putin non e’ piu’ nel carcere di Pokrov, a cento chilometri da Mosca. Senza preavviso, ne’ informazioni a parenti e avvocati, il 46enne fondatore del partito Russia del Futuro e’ stato portato via. Per ora non si sa dove. E “il problema del suo trasferimento in un’altra prigione non e’ solo che la colonia di massima sicurezza e’ molto piu’ spaventosa”, ha dichiarato su Twitter la portavoce: “Finche’ non sapremo dove si trova, Alexei rimarra’ a tu per tu con il sistema che ha gia’ tentato di ucciderlo, quindi il nostro compito principale e’ quello di localizzarlo il prima possibile”. Dal canto suo Volkov ha raccontato come hanno scoperto del trasferimento: un avvocato e’ andato oggi a un incontro in carcere, trattenuto al posto di blocco fino alle 14, gli e’ stato detto infine che li’ “non c’era nessun detenuto con quel nome”. Navalny e’ in carcere da gennaio dell’anno scorso, per accuse ritenute dai suoi sostenitori “palesemente politiche”. Le manette sono scattate non appena ha rimesso piede in Russia dalla Germania, dove era stato curato per un avvelenamento causato da una micidiale neurotossina che aveva fatto temere per la sua vita. I fatti risalgono all’agosto del 2020, quando un aereo in volo dalla Siberia a Mosca fu costretto ad un atterraggio di emergenza a Omsk perche” un passeggero aveva avuto un malore. Quel passeggero era l’acerrimo nemico del Cremlino Navalny, un uomo che si temeva potesse venire assassinato per le sue denunce contro Putin. La moglie Julia e i membri del suo staff terrorizzati da cio’ che poteva succedere in un ospedale in Siberia, si precipitarono a Omsk per portarlo in Germania. Una volta trasferito li’, le autorita’ tedesche confermarono l’ipotesi dell’avvelenamento e la presenza di Novichok, agente nervino gia’ utilizzato per neutralizzare l’ex spia russa Sergej Skripal nel 2018. Successivamente Navalny, con l’aiuto dei suoi collaboratori, riusci’ ad orchestrare una telefonata ad uno degli agenti dei servizi si sicurezza russi (Fsb) in cui l’avvelenamento fu ammesso. La soddisfazione pero’ duro’ poco: Navalny venne arrestato il 17 gennaio del 2021 dopo la sua decisione di tornare in Russia, con l’accusa mai provata di appropriazione indebita. In carcere da quel giorno, fu condannato a scontare una pena di due anni e otto mesi. Dallo scorso 23 marzo diventata di nove anni. Dalla prigione e’ uscito solo in seguito a un prolungato sciopero della fame, per essere nuovamente incarcerato dopo le cure. Alexei Navalny nel corso degli anni ha svelato molte verita’ scomode sul governo russo e i potenti oligarchi che lo sostengono.
Quattro militari italiani impegnati nella missione di pace UNIFIL in Libano sono rimasti feriti a seguito di un attacco alla base situata nel sud del Paese. Fonti governative assicurano che i soldati, che si trovavano all’interno di uno dei bunker della base italiana a Shama, non sono in pericolo di vita. Le autorità italiane e internazionali hanno espresso forte indignazione per l’accaduto, mentre proseguono le indagini per ricostruire la dinamica dell’attacco.
UNIFIL UNITED NATIONS INTERIM FORCE IN LIBANO. SOLDATI DELLE NAZIONI UNITE (FOTO IMAGOECONOMICA)
La dinamica dell’attacco
Secondo le prime ricostruzioni, due razzi sarebbero stati lanciati dal gruppo Hezbollah durante un’escalation di tensioni con Israele. Al momento dell’attacco, la base italiana aveva attivato il livello di allerta 3, che impone ai militari l’utilizzo di elmetti e giubbotti antiproiettile. La decisione si era resa necessaria a causa della pericolosità crescente nell’area, teatro di scontri tra Israele e Hezbollah.
Un team di UNIFIL è stato inviato a Shama per verificare i dettagli dell’accaduto, mentre il governo italiano monitora attentamente la situazione.
UNIFIL UNITED NATIONS INTERIM FORCE IN LEBANON. FOTO IMAGOECONOMICA ANCHE IN EVIDENZA
Le dichiarazioni del ministro Crosetto
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha commentato con durezza l’attacco, definendolo “intollerabile”:
“Cercherò di parlare con il nuovo ministro della Difesa israeliano per chiedergli di evitare l’utilizzo delle basi UNIFIL come scudo. Ancor più intollerabile è la presenza di terroristi nel Sud del Libano che mettono a repentaglio la sicurezza dei caschi blu e della popolazione civile”.
Crosetto ha inoltre sottolineato la necessità di proteggere i militari italiani, impegnati in una missione delicata per garantire la stabilità nella regione.
La solidarietà del Presidente Meloni
Anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso solidarietà ai militari feriti e alle loro famiglie, dichiarando:
“Apprendo con profonda indignazione e preoccupazione la notizia dei nuovi attacchi subiti dal quartier generale italiano di UNIFIL. Desidero esprimere la solidarietà e la vicinanza mia e del Governo ai feriti, alle loro famiglie e sincera gratitudine per l’attività svolta quotidianamente da tutto il contingente italiano in Libano. Ribadisco che tali attacchi sono inaccettabili e rinnovo il mio appello affinché le parti sul terreno garantiscano, in ogni momento, la sicurezza dei soldati di UNIFIL”.
Unifil: una missione per la pace
La missione UNIFIL, operativa dal 1978, ha il compito di monitorare il cessate il fuoco tra Israele e il Libano, supportare le forze armate libanesi e garantire la sicurezza nella regione. L’attacco alla base italiana evidenzia la crescente instabilità nell’area e i rischi a cui sono esposti i caschi blu impegnati nella missione di pace.
La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.
Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.
E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.
La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.