La consapevolezza è tutto. Non possiamo essere buoni Italiani se non sappiamo essere buoni Meridionali, e per esserlo dobbiamo avere la forza e la lucidità di ritornare indietro, capire cosa ci è veramente accaduto, cosa ci hanno fatto e soprattutto, cosa ci siamo lasciati fare.
Bisogna iniziare a ricordare con maggiore tempra come l’Unità nazionale, che da decenni i populisti del Nord contestano per ricavarsi comode poltrone in quella Roma che hanno sempre detto di odiare e rifiutare, agli abitanti del Sud fu semplicemente imposta a colpi di baionetta. Perché la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, soprattutto contadini, scarsi di danari e senza terra, ma mai poveri di valori, non vollero servire i nuovi padroni, e così pagarono il prezzo per tutti. Ancora più miseria, ancora più fame e quindi ancora più rancore verso quel potere centrale che ora veniva visto solo come un’imposizione da subire ingiustamente, e basta. Un secolo e mezzo fa fummo così repressi e addirittura deportati, mentre oggi siamo spesso derisi e condannati a degli stereotipi che continuano ad incatenarci ad un passato che non è stato ancora tutto raccontato. E ci manca la parte migliore, o peggiore a come si vuole vederla, ma sicuramente la più importante. Ci manca tutta la verità.
La vergona della legge Pica, che dalla neo capitale italiana di Torino volle porre sullo stesso piano ribelli e malfattori, al sol fine di reprimere ed insabbiare quello che fu un vero moto rivoluzionario, è la nostra storia, quella che per lunghi anni fu sottaciuta, sovrascritta, affogata nel sangue prima e occultata con l’inchiostro poi, quello servo delle nuove Istituzioni. Umiliazioni, torture e catene per i contadini ribelli o amici dei ribelli, per i loro familiari e per gente estranea a tutto, processati e condannati anche solo per un sospetto. Questa fu tra le peggiori responsabilità di uno Stato, che attraverso questo metodo barbaro e vigliacco, avrebbe consegnato alle associazioni camorristiche gente che voleva solo rivendicare diritti basilari, creando quella zona grigia che ancora oggi, in alcune parti della nostra componente sociale, rende quasi impossibile distinguere gli autentici buoni dai veri cattivi, il giusto dallo sbagliato.
Ma la storia vive di vita propria, e come la furia del vento del Matese che sferzò la faccia dei rivoltosi disperati, è sopravvissuta alle bugie ed ha continuato a raggiungere e ad ispirare gli spiriti più indomiti, come quello della scrittrice di fama internazionale Nadia Verdile (segni particolari: ottimista di natura ed intollerante verso stereotipi e pregiudizi) che con la sua narrazione risveglia l’anima di Michelina Di Cesare e ridona ancora dignità, negata dal voluto oblio, al nostro martoriato Popolo, sempre in lotta per non soccombere al padrone di turno.
Con la struggente storia di Michelina, la scrittrice Casertana, con solide e rivendicate radici Molisane, ci trasporta proprio in quel mondo stridente, dove paesaggi meravigliosi hanno fatto da sfondo a storie di miserie fossilizzate, senza ieri né domani, dove l’unico scopo esistenziale era assoggetto all’imposizione di generare lavoro e procreare altra forza lavoro, con il costante ricatto dalla fame, del freddo e non di meno del pregiudizio. In questa realtà nacque Michelina Di Cesare, venuta alla luce il 28 Ottobre 1841 a Caspoli, nell’Alto Casertano, ai piedi del vulcano spento di Roccamonfina, non distante dal Massiccio del Matese, in una stanza con un camino senza cappa, in una dimora fatiscente da dividere con sempre troppi familiari, e con pochi smagriti animali domestici che a stento avrebbero garantito la loro sopravvivenza.
Ma la passione per la vita, forse incastonata in un disegno superiore, a volte compie il suo miracolo e così Michelina si ritrovò quasi costretta ad evadere da un’esistenza già consacrata ad una schiavitù plebea, per ritrovarsi scaraventata in percorso di pura libertà e ribellione, quello che attraverso il brigantaggio aveva già attratto a sé tanti altri disperati, disertori, uomini audaci e morti di fame. Perché l’ebrezza dell’autodeterminazione, per chi non aveva altra scelta se non quella di stentare costantemente in una miserabile sottomissione, ben valeva anche il prezzo della morte.
Nata al secolo per essere serva, dopo essersi guadagnata sul campo il rispetto del branco, l’affiliazione alla banda di Ciccio Guerra le donò così non solo la dignità ed addirittura l’euforia dell’emancipazione, ma finanche un eterno amore in una fugace vita.
In questo forse illusorio moto di contestazione contro un’Autorità che non era autorevole, i Briganti divennero eroi per la loro gente, gli ultimi dell’entroterra solcato dall’Appennino Abruzzese, Campano e Molisano, ed incubo per chi voleva imporre qualcosa che invece poteva e doveva essere condiviso. Fedeli al Regno dei Borbone che però non li sorressero fino alla fine, i briganti innestarono un seme di disobbedienza che germogliò potente grazie al senso di distanza mai colmata con la forzata centralità torinese prima, fiorentina poi e romana infine.
Tratti potenti questi che ancora oggi ci portiamo dentro, ma se non ne comprenderemo l’essenza più pura, finiremo sempre per rimanerne travolti. Perché dobbiamo sapere fino in fondo chi siamo per capire quanta fortuna abbiamo a vivere nel nostro Sud, che abbiamo il dovere di rispettare e valorizzare, di preservare e rilanciare.
Leggere la storia di Michelina Di Cesare della Verdile di certo contribuirà a farci capire tutto questo, quali obblighi abbiamo verso la nostra Terra e verso noi stessi. Perché la consapevolezza è tutto e noi non possiamo più prescinderne.