La Brexit di Theresa May sprofonda nel caos, bocciata di nuovo dalla Camera dei Comuni britannica nonostante le intese dell’ultima ora con l’Ue sulle garanzie – “legalmente vincolanti” negli annunci, molto meno nei fatti – sullo spinoso nodo del confine irlandese. Il secondo voto di ratifica e’ andato giusto un po’ meno peggio rispetto alla sconfitta fragorosa di gennaio, ma la sostanza non cambia: senza voti (e oggi anche senza voce), la premier Tory incassa un’ulteriore umiliazione destinata ad allargare la voragine dell’incertezza sui tempi, i termini e forse lo stesso epilogo del divorzio di Londra da Bruxelles, oltre che a mettere in discussione la tenuta della sua poltrona e quella di una legislatura dinanzi alla quale non e’ escluso possa tornare a spalancarsi la porta di elezioni anticipate alla cieca. Il verdetto e’ arrivato al termine di 48 ore frenetiche, che hanno lasciato May evidentemente provata, con il tormento della raucedine a minarne le corde vocali nel momento cruciale dell’introduzione del dibattito decisivo. I voti a favore sono stati 242, quelli contrari 391, con un recupero parziale rispetto allo scarto senza precedenti (meno 230) di due mesi fa che peraltro non consola granche’. All’inquilina di Downing Street, non e’ bastato il balsamo dei tre documenti allegati agli accordi di novembre concessi in extremis negli ultimi colloqui di Strasburgo dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, a nome dei vertici Ue. Documenti “vincolanti”, nelle rassicurazioni delle parti, per allontanare i timori di molti – unionisti di Belfast in primis – su un futuro ingabbiamento britannico nel meccanismo del backstop (la clausola di garanzia del mantenimento post Brexit di una frontiera aperta fra Irlanda e Irlanda del Nord, nel rispetto dello storico trattato di pace del Venerdi’ Santo 1998). Ma il cui peso e’ stato in ultimo decisamente ridimensionato dal parere giuridico dello stesso attorney general del governo May, Geoffrey Cox: pronto a certificarne il valore solo in termini di “riduzione del rischio legale” di un backstop a tempo indeterminato, non d’azzeramento. Parole che hanno rappresentato una sorta di boomerang, subito accompagnate dal balzo indietro della sterlina. E che la stessa May non e’ riuscita a ribaltare con gli accorati appelli conclusivi. In aula la premier ha martellato come nulla fosse – fra un’interruzione dai banchi, un bicchier d’acqua e una caramella per la gola – sul suo accordo come “il miglior compromesso” disponibile.
La prima donna inglese. Theresa May ora è sfiduciata
Evocandone i “vantaggi”, ma soprattutto difendendolo come una polizza del rispetto della “volonta’ popolare” espressa sia “nel referendum” del 2016, sia nelle “elezioni” del 2017 e tornando a minacciare in caso di flop l’orizzonte di un tradimento “della democrazia” e di “una Brexit perduta”. Niente da fare. Molti dei dissidenti sono rimasti tali: fra i brexiteer Tory piu’ oltranzisti, capeggiati da un Boris Johnson sempre piu’ apertamente favorevole al no deal, nei ranghi dei 10 vitali quanto inaffidabili alleati della destra unionista nordirlandese del Dup, come in una parte dei moderati pro-Remain. Mentre i suoi moniti sulle incognite della risposta dei 27 di Bruxelles alla richiesta a questo punto inevitabile di un rinvio del divorzio rispetto alla data del 29 marzo (e sull’eventuale durata dello slittamento) non hanno scosso quasi nessuno fra le file delle opposizioni: a cominciare da Jeremy Corbyn, leader di un Labour non proprio compatto nel suo ‘no’ all’accordo May, ma comunque convinto – al di la’ della sfida alla premier su un possibile ricorso alle urne (“e’ tempo di convocare elezioni politiche” anticipate, ha tuonato) – di poter adesso ritrovare margini di manovra anche per il suo piano B in favore di un’uscita soft ai limiti della semi-Brexit. La maggioranza per respingere lo sbocco di un traumatico ‘no deal’ nella mozione preannunciata per domani appare in effetti scontata: la stessa May ha fatto sapere che lascera’ liberta’ di voto al gruppo Tory, ma votera’ “personalmente” contro. Quella per la successiva opzione di un “breve rinvio” della Brexit molto probabile. Poi sara’ il momento della verita’ per il Parlamento in carica, chiamato o a subentrare al governo con una qualche maggioranza trasversale positiva su una soluzione purchessia (anche quella di un problematico referendum bis, come ha riconosciuto la premier in persona), o a farsi da parte a sua volta per lasciare spazio alle urne e all’ignoto. Prospettiva che non fa presagire nulla di buono al vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen: secondo cui la verita’, stasera, e’ che “una hard Brexit e’ di nuovo piu’ vicina”. E sara’ bene per tutti “allacciare le cinture”. “L’Ue ha fatto tutto il possibile. L’impasse puo’ essere risolta solo nel Regno Unito. I nostri preparativi per un ‘no deal’ ora sono piu’ importanti che mai”, ha commentato in serata anche il capo negoziatore Ue Michel Barnier.(
Quattro militari italiani impegnati nella missione di pace UNIFIL in Libano sono rimasti feriti a seguito di un attacco alla base situata nel sud del Paese. Fonti governative assicurano che i soldati, che si trovavano all’interno di uno dei bunker della base italiana a Shama, non sono in pericolo di vita. Le autorità italiane e internazionali hanno espresso forte indignazione per l’accaduto, mentre proseguono le indagini per ricostruire la dinamica dell’attacco.
UNIFIL UNITED NATIONS INTERIM FORCE IN LIBANO. SOLDATI DELLE NAZIONI UNITE (FOTO IMAGOECONOMICA)
La dinamica dell’attacco
Secondo le prime ricostruzioni, due razzi sarebbero stati lanciati dal gruppo Hezbollah durante un’escalation di tensioni con Israele. Al momento dell’attacco, la base italiana aveva attivato il livello di allerta 3, che impone ai militari l’utilizzo di elmetti e giubbotti antiproiettile. La decisione si era resa necessaria a causa della pericolosità crescente nell’area, teatro di scontri tra Israele e Hezbollah.
Un team di UNIFIL è stato inviato a Shama per verificare i dettagli dell’accaduto, mentre il governo italiano monitora attentamente la situazione.
UNIFIL UNITED NATIONS INTERIM FORCE IN LEBANON. FOTO IMAGOECONOMICA ANCHE IN EVIDENZA
Le dichiarazioni del ministro Crosetto
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha commentato con durezza l’attacco, definendolo “intollerabile”:
“Cercherò di parlare con il nuovo ministro della Difesa israeliano per chiedergli di evitare l’utilizzo delle basi UNIFIL come scudo. Ancor più intollerabile è la presenza di terroristi nel Sud del Libano che mettono a repentaglio la sicurezza dei caschi blu e della popolazione civile”.
Crosetto ha inoltre sottolineato la necessità di proteggere i militari italiani, impegnati in una missione delicata per garantire la stabilità nella regione.
La solidarietà del Presidente Meloni
Anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso solidarietà ai militari feriti e alle loro famiglie, dichiarando:
“Apprendo con profonda indignazione e preoccupazione la notizia dei nuovi attacchi subiti dal quartier generale italiano di UNIFIL. Desidero esprimere la solidarietà e la vicinanza mia e del Governo ai feriti, alle loro famiglie e sincera gratitudine per l’attività svolta quotidianamente da tutto il contingente italiano in Libano. Ribadisco che tali attacchi sono inaccettabili e rinnovo il mio appello affinché le parti sul terreno garantiscano, in ogni momento, la sicurezza dei soldati di UNIFIL”.
Unifil: una missione per la pace
La missione UNIFIL, operativa dal 1978, ha il compito di monitorare il cessate il fuoco tra Israele e il Libano, supportare le forze armate libanesi e garantire la sicurezza nella regione. L’attacco alla base italiana evidenzia la crescente instabilità nell’area e i rischi a cui sono esposti i caschi blu impegnati nella missione di pace.
La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.
Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.
E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.
La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.