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Politica

Mattarella: acqua e cibo essenziali per la pace tra popoli

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“La Repubblica sa che l’agricoltura è determinante per il futuro del Pianeta. La Repubblica sa che è a partire da elementi essenziali come l’acqua e il cibo che si costruisce la pace tra i popoli”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso pronunciato agli 80 anni di Coldiretti, al Teatro Eliseo di Roma. “L’invasione russa in Ucraina, la gravissima crisi medio-orientale, stanno mettendo a dura prova la possibilità di sopravvivere di intere popolazioni, con un uso spregiudicato della risorsa alimentare come arma”, ha detto Mattarella.

“L’indispensabile cooperazione internazionale, nella quale siete impegnati per la vostra parte, vi fa veicoli di pace. L’agricoltura è futuro per l’umanità”, ha aggiunto il Capo dello Stato rivolgendosi dal palco agli agricoltori di Coldiretti. “Fedele alle proprie radici, sono certo che troveremo su questa strada la Confederazione dei prossimi anni”, ha augurato Mattarella. Il presidente della Repubblica sottolineando che “lavoro, salute, previdenza, giusta mercede e poi ricerca, meccanizzazione, specializzazione delle colture, sono le tematiche che ci hanno accompagnato sino a oggi, con il forte impegno dell’organizzazione di cui celebriamo oggi l’ottantesimo compleanno e dei suoi uomini, molti dei quali vennero eletti in Parlamento, secondo una scelta di condivisione di valori che il fondatore della Coldiretti, Paolo Bonomi, volle con determinazione”.

Il Capo dello Stato ha poi ricordato la situazione alimentare nell’Italia nel dopoguerra. “Le guerre del fascismo avevano sconvolto la produzione agricola. Gli uomini chiamati alla guerra erano stati sottratti alla produzione. Le risorse alimentari erano più scarse dopo l’autarchia che aveva fatto seguito all’aggressione italiana all’Etiopia. Cinque anni di guerra avevano devastato oltre 700.000 ettari di seminativo, pari alla superficie delle Regioni Trentino, Friuli, Liguria, Umbria e Campania messe insieme e distrutto 85.000 ettari di pascoli, pari all’ampiezza delle Marche. Posta la produzione agricola italiana del 1938 pari a 100, quella del ’45 si ritrovava pari a 60. Si pensi che, ancora nel 1951, i cereali rappresentavano il 40% del deficit alimentare dell’Europa occidentale. La politica degli ammassi obbligatori, inaugurata dal fascismo, sarebbe venuta meno gradualmente all’inizio degli anni ’50”, ha evidenziato sottolineando che “riprendere i processi produttivi fu l’imperativo della ricostruzione e in essa svolse un ruolo centrale l’agricoltura che, dall’arretratezza, muoveva verso una nuova stagione di ricerca e di progresso”.

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Orban all’Eurocamera: non lascio l’Ue, voglio cambiarla

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Due ore per raccontare la sua versione prima del ring della Plenaria, per mostrare la faccia dialogante del sovranismo europeo e candidarsi a leader del popolo europeo contro “élite che difende lo status quo”. Viktor Orban ha scelto di anticipare di 24 ore l’intervento che, in occasione della presidenza di turno ungherese, è chiamato a svolgere all’Eurocamera. In una conferenza stampa fiume, segnata da una protesta solitaria subito sopita dagli agenti della scorta, Orban ha elencato le sue priorità dribblando abilmente gli attriti che, in quasi ogni settore della politica europea, ha creato finora Budapest. Il blitz di Orban appare essere parte di una vera e propria offensiva messa in campo dai Patrioti. Prima con il ricorso alla Corte di Giustizia Ue contro il cordone sanitario, poi con la foto di Pontida, infine con l’arrivo dell’ungherese a Strasburgo. Il Ppe, in vista di un dibattito che si preannuncia infuocato, ha già in mente una strategia: attaccare il premier ungherese perché la sua presidenza ha fallito e non focalizzarsi solo sul nodo dello Stato di diritto.

“Orban è una minaccia per l’Ue, ha reso l’Ungheria il Paese più corrotto d’Europa e lavora per gli interessi di russi e cinesi”, è stato l’attacco sferrato dai Socialisti. In Aula il rischio bagarre è dietro l’angolo. Orban stesso lo ha ammesso, motivando così l’incontro con i giornalisti europei. E rispondendo, punto per punto, a chi gli faceva notare le tante contraddizioni del suo rapporto con l’Ue. Competitività, hotspot per i migranti esterni all’Ue, una maggior protezione degli agricoltori e un allargamento effettivo ai Balcani Occidentali, con l’inclusione della Serbia: Orban ha elencato le priorità della presidenza ungherese strizzando l’occhio a Mario Draghi (“concordo al 100% con la sua diagnosi”) e assicurando che né lui né i Patrioti vogliono uscire dall’Unione. “Vogliamo cambiare l’Europa, non distruggerla”, ha sottolineato il capo del governo magiaro attaccando i partiti europeisti tradizionali.

“L’elite fatta dal centrosinistra, dai liberali e dal centrodestra deve decidere se continuare a difendere lo status quo o accettare il cambiamento”, ha scandito. Sulla guerra in Ucraina al premier sono arrivate una salva di domande. Lui ha risposto per le rime, sottolineando che “gran parte del mondo vuole il cessate il fuoco”, difendendo le sue missioni a Kiev, Mosca e Pechino e spiegando che, né la Russia né l’Ucraina vogliono una tregua e, per questo, è necessario che un insieme di Stati li convincano. L’Europa – ha sottolineato Orban – deve far presto perché in caso di vittoria Donald Trump non attenderà il suo insediamento ufficiale – in gennaio – per muoversi sul fronte ucraino. Quel Trump al quale Orban non ha fatto mistero di guardare con crescente speranza: “Se vince, apriremo una serie di bottiglie di champagne…”.

A pochi minuti dall’inizio della conferenza stampa in sala ha fatto irruzione un giovane. Ha gettato delle cartacce contro Orban, chiamandolo “disgraziato” e accusandolo di aver venduto il Paese alla Cina e alla Russia. Gli agenti della scorta del premier lo hanno immobilizzato in pochi secondi. Il leader ungherese ha continuato come se nulla fosse accaduto. In Aula al Pe lo attende un clima ben diverso. Avrà di fronte a sé l’italiana Ilaria Salis, che ha parlato dell’Ungheria come uno “Stato etnico e totalitario”. Tra i banchi del Ppe ci sarà Peter Magyar, il leader dell’opposizione a Fidesz. E in Aula ci sarà soprattutto Ursula von der Leyen il grande avversario che, in due ore di conferenza stampa, Orban non ha neanche nominato.

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Nomina giudice della Corte costituzionale, Meloni ferma su Marini: i richiami vadano a sinistra

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La prossima volta che qualcuno riterrà di fare un richiamo al Parlamento affinché nomini il giudice della Corte costituzionale mancante, quel richiamo dovrà essere destinato alle opposizioni. Si fanno ragionamenti di questo tenore in ambienti di Palazzo Chigi, nelle ore successive all’ottava fumata nera del Parlamento in seduta comune, quella che nei piani di Giorgia Meloni poteva portare all’elezione del suo consigliere giuridico, Francesco Saverio Marini. Su quel nome la premier intende insistere. E l’esultanza delle opposizioni, che rivendicano un “successo” per il “blitz sventato”, dai meloniani è liquidata con la constatazione che il loro Aventino “blocca un adempimento dovuto per legge”, e nasconde solo “la paura che qualche loro parlamentare avrebbe potuto” votare il nome avanzato dal centrodestra, “perché di spessore e apprezzabile al di là di chi lo propone”.

Dopo l’accelerazione impressa dalla presidente del Consiglio giovedì scorso, con la fuga di notizie sulla precettazione dei parlamentari che ha generato la sua ira, alla vigilia del voto le trattative sono andate avanti fino a tarda sera. E poi anche in mattinata, fino a un paio d’ore dalla chiama. Nei giorni scorsi, secondo voci raccolte in maggioranza, alcuni esponenti di Italia viva si sarebbero detti disponibili a sostenere Marini. E ai piani alti del governo c’è stato un confronto anche con due parlamentari di Svp, Dieter Steger e Meinhard Durnwalder. Sul tavolo, un impegno dell’esecutivo alle modifiche richieste allo statuto della Provincia di Bolzano. Non è detto che quei voti sarebbero bastati alla fine per raggiungere quota 363, anche per le assenze (25 alla fine, alcuni hanno rotto le righe dopo l’indicazione di scheda bianca).

Ma avrebbero reso il quorum a portata di mano. Un piano comunque andato all’aria per l’Aventino delle opposizioni, che ha spinto il centrodestra alla scheda bianca. E da FdI hanno respinto ogni sospetto di conflitto di interesse su Marini, fra i ‘padri’ del premierato, citando il caso dell’ex consigliere di Mario Draghi, se non anche quello di Sergio Mattarella, eletto nel 2011 nella Consulta che pochi mesi dopo giudicò sulla legittimità del referendum per ripristinare la legge elettorale che portava il suo nome. “Le opposizioni, Schlein in testa, bloccano un adempimento richiesto da quasi dieci mesi, sollecitato da una richiesta formale del presidente della Repubblica”, ed è “imbarazzante e grave che lo rivendichino”, è la lettura che si fa in ambienti di Palazzo Chigi, al termine di quella che viene considerata “un’operazione trasparenza”: “Ora è chiaro a tutti” che lo stallo “è colpa loro”, e che “vogliono soluzioni solo con il manuale Cencelli”. I meloniani denunciano il sospetto che le opposizioni vogliano “trascinare la situazione fino a dicembre”, quando scadranno altri tre giudici della Corte Costituzionale, “in modo da potere spartire con il manuale Cencelli i quattro nomi. Strategia molto poco edificante per il Parlamento, della quale non vogliamo essere parte”.

Si profilano nuove convocazioni periodiche del Parlamento in seduta comune anche se quasi sicuramente la nuova convocazione non avverrà la prossima settimana. Nel 2008 ne servirono 22 per sostituire Romano Vaccarella, dopo il passo indietro di Gaetano Pecorella, designato dall’allora premier Silvio Berlusconi. Questa volta l’orizzonte, nella convinzione diffusa, è dicembre o gennaio, quando appunto i giudici da sostituire diventeranno quattro e uno potrebbe essere indicato dalle opposizioni. “Spero che la maggioranza oggi ne tragga una seria riflessione che coinvolge il governo direttamente – ha detto il leader M5s Giuseppe Conte -. Loro devono assolutamente riflettere su questo metodo, che è un metodo inaccettabile, con un blitz”.

La segretaria del Pd Elly Schlein ha chiarito di aspettarsi “che accettino di dialogare perché fin qui, con la prima forza di opposizione, si sono rifiutati di farlo su una delle massime garanzie costituzionali”. Ma fra le opposizioni c’è anche chi si interroga sulla tenuta della strategia comune, in un fronte sempre attraversato da fibrillazioni. “Immagino che la prossima volta Schlein e gli ultrà del ‘no a tutti i costi’ continueranno a dire di no anche se presentassimo madre Teresa di Calcutta – ha notato il leader della Lega Matteo Salvini -. Conto che nell’opposizione ci sia qualcuno di più vicino all’esigenza del Paese di fare ciò che gli italiani si aspettano”.

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Precari e licenziamenti facili, verso l’ok della Camera

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Contratti di somministrazione e licenziamenti. Questi gli ambiti degli interventi principali inseriti nel ddl Lavoro, che si prepara a ricevere il primo via libera della Camera. Terminato l’esame degli odg in Aula, a Montecitorio manca il voto finale sul provvedimento approvato dal Consiglio dei ministri il Primo maggio del 2023. Che così potrà sbarcare al Senato per l’ok definitivo dopo un lungo iter. Mentre non si placano le voci critiche di opposizioni e sindacati, che scendono in piazza per opporsi a uno strumento che “aumenta la precarietà”.

Tra le misure più discusse, c’è quella sulle cosiddette ‘dimissioni in bianco’, che di fatto allarga le maglie delle disposizioni in tema di licenziamenti rispetto a quanto stabilito dal Jobs Act del governo Renzi. In particolare, l’articolo 19 del collegato al lavoro prevede la risoluzione del rapporto di lavoro imputabile alla volontà del lavoratore (dimissioni volontarie) nei casi in cui un’assenza ingiustificata si protragga oltre il termine previsto dal contratto collettivo o, in mancanza di previsioni contrattuali, per un periodo superiore a quindici giorni. Secondo la maggioranza, è una maniera per impedire che i lavoratori, sfruttando la leva delle assenze ingiustificate, inducano i datori al licenziamento per poi accedere opportunisticamente alla Naspi. In caso di dimissioni volontarie, infatti, non è possibile richiedere l’indennità.

Con un’altra misura cardine, si interviene, di fatto per estenderlo, sul tetto del 30% previsto per i lavoratori con contratto di somministrazione a tempo determinato sul totale del numero dei lavoratori con contratti stabili. La nuova norma esclude dal computo di questo limite i casi in cui la somministrazione riguardi lavoratori assunti a tempo indeterminato da parte di un’agenzia o lavoratori con determinate caratteristiche o assunti per determinate esigenze. Vincoli più leggeri anche per il ricorso al lavoro stagionale, che si allarga a fattispecie come l’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno oppure per esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati di destinazione.

Tra le altre misure, c’è anche quella che ridefinisce la durata del periodo di prova dei contratti a tempo determinato: tra i due e i quindici giorni per i contratti con durata non superiore a sei mesi, e da due ai trenta giorni per i contratti dai sei ai dodici mesi. Intanto, in piazza a Roma, i sindacati alzano la voce contro il provvedimento. Per la Uil il ddl “cancella diritti e tutele”, per la Cgil “è contro il lavoro, perché lo precarizza ancora di più”.

A Maurizio Landini, che non esclude uno sciopero generale contro la manovra, replica la ministra del Lavoro Marina Calderone. “Non credo si possa dire che il governo stia attuando una politica di precarizzazione del lavoro, i numeri non dicono questo”, taglia corto. Alla protesta delle due sigle sindacali, si affiancano i partiti di opposizione: Pd, M5s e Avs, che intanto in Aula provano a rilanciare ancora sul salario minimo con un odg bocciato dalla maggioranza. Per dem e rossoverdi, il ddl Lavoro allarga la precarietà. Per il M5s, “c’è un accanimento contro le lavoratrici”.

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