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Khamenei dal bunker agli alleati, ‘uniti contro Israele’

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La Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha chiamato a raccolta “tutti i musulmani”, affermando che è un loro “dovere” schierarsi con Hezbollah contro Israele dopo l’uccisione del loro leader Hassan Nasrallah. Ma un intervento diretto di Teheran sembra tutt’altro che scontato.

I vertici iraniani stanno infatti valutando con cura le prossime mosse, desiderosi tra l’altro di non alienarsi con qualche passo azzardato le simpatie di un alleato come la Russia, che oggi ha condannato quello che ha definito “un altro assassinio politico commesso da Israele”. Secondo la testata israeliana Ynet, Khamenei è stato trasferito in un luogo di “alta sicurezza”, e da lì mantiene i contatti con Hezbollah e le altre milizie alleate nella regione per decidere come reagire al raid dello Stato ebraico nel sud di Beirut, nel quale è stato ucciso anche il generale iraniano Abbas Nilforooshan, comandante dei Pasdaran in Libano. Molto dipenderà dalle capacità di combattimento conservate da Hezbollah dopo i pesanti bombardamenti degli ultimi giorni che hanno preso di mira i suoi dirigenti, quadri e depositi di armi.

“I sionisti devono sapere che sono troppo piccoli per causare un danno significativo alla forte struttura di Hezbollah”, ha detto Khamenei, aggiungendo che “tutte le forze della resistenza nella regione”, quindi dalle potenti milizie sciite irachene agli Houthi yemeniti, rimangono “al suo fianco e lo sostengono”. Gli ultimi sviluppi in Libano sembrano intanto portare ancora più vicine le posizioni dell’Iran e della Russia. Israele avrà “la piena responsabilità dell’escalation” che l’attacco di ieri potrebbe scatenare, ha avvertito la diplomazia di Mosca. E i ministri degli Esteri iraniano e russo, Abbas Araghchi e Serghei Lavrov, hanno espresso valutazioni simili durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu della scorsa notte, puntando entrambi il dito contro gli Stati Uniti.

Lavrov ha affermato che il conflitto in Medio Oriente potrebbe essere “portato a termine velocemente” senza “il sostegno completo a Israele” fornito da Washington. “Non abbiamo dubbi che gli Stati Uniti siano complici” dello Stato ebraico, gli ha fatto eco Araghchi. “Guardate solo alla quantità di aiuti militari e finanziari che fluiscono dagli Usa a Israele”, ha aggiunto. Ieri, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, Lavrov e Araghchi avevano avuto un incontro durante il quale, ha sottolineato il ministero degli Esteri russo, è stata confermata la “linea verso la costruzione di relazioni di partenariato strategico tra Russia e Iran”. I Paesi occidentali accusano Teheran di sostenere lo sforzo bellico russo in Ucraina e di volere fornire alle truppe russe anche missili, oltre ai droni già ampiamente utilizzati.

Media occidentali hanno inoltre parlato di trattative in corso per la fornitura da parte della Russia di missili agli Houthi yemeniti alleati dell’Iran. E questo dopo che lo scorso giugno il presidente Vladimir Putin aveva parlato della possibilità di consegnare armamenti in regioni da dove potrebbero essere utilizzate per sferrare attacchi su “obiettivi sensibili di quei Paesi che forniscono armi all’Ucraina”. In particolare quelli Nato che dovessero consentire a Kiev di attaccare in profondità il territorio russo con missili da loro messi a disposizione. Per ora, comunque, l’uccisione di Nasrallah sembra vanificare le timide aperture fatte nei giorni scorsi dal presidente iraniano Massud Pezeskhian, che a New York aveva manifestato la disponibilità di Teheran a riprendere i negoziati con gli Usa e i Paesi europei. Non solo sul programma nucleare, ma anche sul conflitto in Ucraina, a proposito del quale aveva dichiarato a sorpresa che l’Iran si oppone “all’aggressione” russa.

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Vertici azzerati, incognita sul futuro di Hezbollah

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Orfano del suo storico leader Hasan Nasrallah, che a molti pareva quasi immortale, e con i vertici militari decapitati nell’arco di poche settimane, Hezbollah appare in ginocchio rispetto allo strapotere di Israele e senza esser stato, almeno finora, sostenuto a sufficienza dall’Iran e dai suoi stessi alleati. Ma Hezbollah non sarà cancellato dalla carta geografica del Medio Oriente, affermano diversi analisti, convinti che il partito riemergerà, nonostante il duro colpo, grazie a una nuova generazione di quadri politici e combattenti, forse addirittura più agguerriti di quelli decimati nelle ultime settimane da Israele.

Per questo gli occhi sono ora tutti puntati sul futuro di Hezbollah e sul suo suo successore più papabile, Hashem Safieddin: se alcune fonti avevano riferito della sua morte assieme a Nasrallah, col passare delle ore si fa strada l’ipotesi che il cugino materno del defunto leader sia invece in un luogo sicuro in attesa di prendere formalmente le redini del partito. Il comando pro tempore sembra esser stato intanto assunto dal vice segretario generale di Hezbollah, lo shaykh Naima Qassem, una figura pubblica, da anni incaricata per rilasciare le interviste ai media ma senza il carisma né la popolarità di cui ha goduto per tre decenni Hasan Nasrallah. Hashem Safieddin, dal canto suo, è da più parti indicato come legato a doppio filo all’Iran. Tanto che i vertici della Repubblica islamica lo avevano designato successore di Nasrallah già nel lontano 2009. Safieddin, attuale presidente del consiglio esecutivo di Hezbollah, è originario del sud del Libano, ed è più giovane di Nasrallah di soli quattro anni.

I due hanno studiato assieme nelle scuole religiose e politiche in Iraq e in Iran. Come il defunto segretario generale, Safieddin è un sayyid, ovvero un discendente del profeta Maometto secondo la tradizione sciita. Questo lo rende il successore perfetto. A differenza di Nasrallah, che inizialmente aveva aderito al partito libanese Amal, Safieddin è descritto come un ‘prodotto politico iraniano’. Il possibile futuro leader di Hezbollah non è soltanto legato per via materna all’ex leader, ma ha legami organici e familiari con la Repubblica islamica: suo fratello Abdallah rappresenta il Partito di Dio a Teheran, mentre suo figlio Rida è sposato con Zeinab Soleimani, la figlia dell’ex capo della Brigata Qods dei Pasdaran iraniani, Qasem Soleimani, ucciso dagli Stati Uniti a Baghdad nel gennaio del 2000.

Tra le difficilissimi sfide che attendono il successore di Nasrallah ci sono quelle di epurare il partito da infiltrati e spie nemiche, di ricostruire una struttura di comunicazione interna non più penetrabile da Israele e, di formare quasi ex novo l’impalcatura militare del partito armato. Nell’arco di due mesi otto alti comandanti militari sono stati uccisi in attacchi israeliani: non solo i capi dei gruppi in prima linea nel sud ma anche i vertici anziani come Ali Karaki, Ibrahim Aqil, Fuad Shukr, tutti uccisi in bombardamenti aerei nella periferia sud di Beirut. Tutti uccisi durante riunioni “segrete” svoltesi allo scoperto dagli sguardi indiscreti nemici. Così come è stata la sorte in serata di Hassan Yassin, ucciso in raid di Israele che lo descrive come “capo di un’unità della divisione di intelligence” di Hezbollah.

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Operazione New Order, così i comandanti israeliani hanno ucciso il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah

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La sala piena ma composta, i volti severi e concentrati, gli scambi fitti tra i vertici militari: Israele sceglie pochi secondi di video per raccontare il momento della svolta, quello in cui va in scena l’operazione ‘New Order’ per eliminare il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Con immagini che riportano alla mente quella ‘Situation Room’ in cui l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama seguì con il suo team e i militari l’Operazione Neptune Spear, che portò all’uccisione del leader di al-Qaeda Osama bin Laden nel 2011.

Nel filmato – diffuso dall’Idf e censurato in alcune parti per non mostrare segreti militari – la tensione riempie la sala del Centro di comando dell’aeronautica israeliana, quando si avvicina il momento di attaccare. Alle redini l’operazione – che per gli analisti ha richiesto “incredibile preparazione” con il coinvolgimento dell’intelligence – c’è il capo di stato maggiore Herzi Halevi. Accanto a lui, il ministro della Difesa Yoav Gallant, nella sua consueta camicia nera, e il capo dell’Aeronautica Tomer Bar.

Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, è Benyamin Netanyahu a dare l’ok al raid su Beirut: l’immagine del premier israeliano seduto alla scrivania, al ‘telefono rosso’ da New York per dare luce verde al bombardamento è diventata subito simbolo del colpo micidiale sferrato contro il gruppo sciita libanese, il punto di massima tensione dopo giorni di escalation militare tra i due schieramenti. Non è chiaro quando sia stato dato l’ordine di attaccare: quello che è certo è che al momento del raid sulla capitale libanese, Netanyahu stava svolgendo un briefing con la stampa dopo il suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu. Informato dell’attacco in corso dal suo consigliere militare, il premier israeliano ha lasciato in fretta e furia la conferenza stampa, per poi annunciare il suo rientro anticipato in Israele.

Il raid aereo, condotto dai jet da combattimento israeliani, ha preso di mira il quartier generale centrale di Hezbollah: 80 le bombe sganciate, del peso di una tonnellata ciascuna, per raggiungere le profondità del bunker dove si trovavano Nasrallah e altri vertici del Partito di Dio. Riuniti – stando all’Idf – sottoterra per “coordinare attività terroristiche contro i cittadini dello Stato di Israele”. Lo Squadrone 69 dell’Iaf, conosciuto come ‘The hammers’, ha guidato l’attacco con i suoi aerei F-15i, considerati i principali bombardieri dell’esercito israeliano.

Nelle loro comunicazioni in volo, c’è tutta la soddisfazione per un’operazione che cambierà radicalmente la guerra: “Credo che abbiamo dato una dimostrazione di vittoria qui. Speriamo davvero di aver decapitato questa organizzazione terroristica, ben fatto, siamo molto orgogliosi”, dice nell’audio diffuso dall’Idf il comandante Tomer Bar rivolgendosi al capo dello squadrone dei jet. “Grazie mille comandante”, la risposta del pilota prima di ribadire quello che è ormai un mantra della dirigenza militare israeliana: “Raggiungeremo chiunque e ovunque. E faremo tutto il necessario per portare gli ostaggi a casa e riportare i residenti a nord”.

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Follie di Boris Johnson: pensò a invadere l’Olanda per prendersi 5 milioni di vaccini Covid

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Un blitz folle e dalle conseguenze imprevedibili: l’ex primo ministro britannico Boris Johnson ordinò ai capi militari di pianificare un raid in un’azienda farmaceutica a Leida, in Olanda, nel marzo 2021 per impadronirsi di 5 milioni di dosi di vaccino contro il COVID-19, di cui l’Unione Europea minacciava di bloccare l’esportazione verso il Regno Unito.

In un estratto delle sue memorie, pubblicato dal Daily Mail, Johnson ha spiegato di aver addirittura ricevuto conferma dal vice capo di stato maggiore della Difesa britannica dell’epoca, il tenente generale Doug Chalmers, sul fatto che un’operazione militare per attraversare la Manica con piccole imbarcazioni e navigare nei canali olandesi sarebbe stata fattibile.

Tuttavia, Chalmers lo aveva anche avvertito delle potenziali ripercussioni diplomatiche, sottolineando che la missione non sarebbe passata inosservata e che “se fossimo stati scoperti, avremmo dovuto spiegare perché stavamo effettivamente invadendo un alleato di lunga data della Nato”.

I militari giunti su gommoni “si sarebbero poi incontrati al bersaglio (la fabbrica); sarebbero entrati, avrebbero messo in sicurezza i beni da portar via, sarebbero ripartiti usando un autoarticolato e si sarebbero diretti verso i porti della Manica,” ha scritto Johnson, aggiungendo: “Ovviamente sapevo che (Chalmers) aveva ragione, e segretamente ero d’accordo con quello che tutti pensavano, ma non volevo dirlo ad alta voce: che l’intera idea era una follia.” I vaccini in questione erano stati sviluppati dall’Università di Oxford e AstraZeneca, con dosi prodotte sia nel Regno Unito che nei Paesi Bassi. Nel marzo 2021, i vaccini erano già ampiamente utilizzati nel Regno Unito, ma le dosi prodotte nello stabilimento olandese erano ancora in attesa dell’approvazione dell’Unione Europea.

L’Ue, che aveva un contratto con AstraZeneca per le forniture, cercava di trattenere i vaccini finiti per uso interno, una decisione che Johnson attribuisce alle pressioni esercitate sull’Unione dal presidente francese Emmanuel Macron. “Dopo due mesi di negoziati infruttuosi, ero giunto alla conclusione che l’Ue ci stesse trattando con malizia e disprezzo, poiché stavamo vaccinando la nostra popolazione molto più velocemente di loro”, ha dichiarato Johnson. Johnson, eletto Primo Ministro nel dicembre 2019 fu costretto a dimettersi nel 2022 a causa di una serie di scandali, tra cui la violazione delle restrizioni anti-COVID durante il lockdown.

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