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Juventus e Napoli, è pari senza gol allo Stadium

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E’ finita con un pareggio senza reti l’attesa sfida della quinta giornata all’Allianz Stadium di Torino tra la Juventus di Thiago Motta e il Napoli dell’ex Antonio Conte. Terzo 0-0 di fila per i bianconeri che hanno il merito di aver mantenuto ancora una volta la porta inviolata. Quarto risultato utile di fila per gli azzurri che, grazie a una gara in cui sono stati a lunghi tratti asserragliati in difesa, invece sono rimasti una lunghezza davanti ai bianconeri. Prima del fischio d’inizio, la Juventus ha celebrato il suo ex portiere Szczesny con una targa e una maglia ricordo per le 252 presenze.

Settore ospiti con poche presenze, vista la decisione del Prefetto di Torino di impedire ai tifosi ospiti la trasferta a Torino per precedenti scontri tra i supporters campani e quelli del Cagliari. Nonostante la successiva sospensione decretata del Tar del Piemonte poiché gli scontri erano avvenute tra “tifoserie contendenti diverse”, all’Allianz Stadium si sono presentati in pochi esponendo uno striscione sul quale era scritta la parola “vergogna”. In campo, invece, primo tempo molto equilibrato e avaro di emozioni, partita chiusa a lunghi tratti e pochissime occasioni degne di nota.

Le più pericolose di marca partenopea, la prima al 29′ figlia di una conclusione rasoterra dalla distanza di McTominay respinta da Di Gregorio e la seconda in pieno recupero con il portiere juventino ancora attento a deviare in corner una punizione insidiosa dalla destra di Politano sulla quale Lukaku aveva coperto la visuale del numero 29 bianconero. Al 10′ della ripresa ancora Politano pericoloso con una conclusione col mancino finita di poco alta sopra la traversa. Per vedere la prima (e ultima) vera conclusione della Juventus sono invece passati 26 minuti dall’inizio del secondo tempo: da un’incursione per vie centrali di Cambiaso la palla è finita sui piedi di Koopmeiners la cui conclusione a giro con il destro è finita fuori misura.

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Esteri

La Francia ha un nuovo governo, Rn e gauche attaccano

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E’ la fine di una lunga attesa. E un (fragile) tentativo di rilancio per la Francia: a due settimane dalla nomina del neo-premier, Michel Barnier, Parigi ha un nuovo governo. Un esecutivo, quello annunciato questa sera, dal segretario generale dell’Eliseo, Alexis Kohler, composto da 39 ministri, tra cui 17 titolari ‘con portafoglio’. Di questi, 7 provengono dal campo macroniano, 3 dai Républicains, 2 indipendenti di destra, 2 centristi del MoDem, 1 indipendente di sinistra, 1 Horizons (il piccolo partito centrista dell’ex premier Edouard Philippe), e 1 del gruppo parlamentare Liot. ”Una squadra, adesso al lavoro”, ha scritto su X Michel Barnier, aggiungendo le bandiere della Francia e dell’Unione europea. Tra le nomine più rilevanti di questo nuovo governo maggiormente orientato a destra rispetto al precedente governo Attal, il ‘falco’ dei Républicains, paladino della lotta all’immigrazione, Bruno Retailleau, al ministero dell’Interno.

Mentre la gauche, tornata in piazza oggi per protestare contro un esecutivo ritenuto ”illegittimo” visti i risultati elettorali torna a minacciare una mozione di sfiducia e il Rassemblement National (Rn) di Marine Le Pen si schiera subito dalla parte dell’opposizione. ”Questo governo non ha futuro”, tuona su X il segretario lepenista, Jordan Bardella, mentre Le Pen parla di un esecutivo di “transizione”, “molto lontano dal desiderio di cambiamento” espresso dai francesi nelle elezioni politiche anticipate del 30 giugno e del 7 luglio. “Continueremo a prepararci per la grande alternanza che invochiamo per consentire alla Francia di rialzarsi”, assicura la leader della Fiamma Tricolore francese nel messaggio pubblicato su X dopo l’annuncio del governo Barnier. Emmanuel Macron riunirà il primo consiglio dei ministri lunedì alle ore 15 ma dinanzi all’ostilità delle opposizioni, dalla gauche fino al Rassemblement National di Marine Le Pen la strada per il nuovo governo è piena di incognite e tutta in salita. Proprio ome i sentieri di montagna tanto amati dal savoiardo ex caponegoziatore Ue per la Brexit, Michel Barnier.

L’arrivo a Place Beauvau di Retailleau, finora capogruppo dei senatori Les Républicains, ha suscitato irritazione anche tra gli stessi macroniani e tra gli alleati centristi del MoDem. Tanto più che si tratta dell’unico ‘peso massimo’ di un esecutivo composto da personalità spesso ignote al grande pubblico e che Barnier non è riuscito, come auspicato inizialmente, ad allargare a componenti della sinistra in rivolta. Altra personalità controversa per le sue posizioni contro le nozze gay, Laurence Garien, inizialmente indicata per il ministero della Famiglia, dinanzi all’alzata di scudi levatasi in questi ultimi giorni nello stesso campo presidenziale (e tra i centristi) dovrà accontentarsi del ruolo di segretario di Stato al Consumo.

Al dicastero dell’Economia il giovane macroniano Antoine Armand prenderà il posto di Bruno Le Maire. Promosso al ministero dell’Europa e degli Esteri il centrista MoDem Jean-Noël Barrot, 33 anni. Una figura legata alla sinistra, invece, per la Giustizia, che sarà guidato da Didier Migaud, fino a ad oggi presidente dell’Alta autorità della vita Pubblica. Confermati Sebastien Lecornu alla Difesa e Rachida Dati alla Cultura. Ad occuparsi del Bilancio, in un contesto in cui la manovra finanziaria risulta essere la priorità numero uno del nuovo governo in un Paese segnato dalla deriva dei conti pubblici, l’ex deputato, Laurent Saint-Martin, che resterà in legame diretto con Barnier. Tra le altre new entry, la deputata Renaissance, all’Istruzione. Portavoce del governo un’altra macroniana, Maud Bregon mentre la centrista MoDeM, Geneviève Darrieussecq diventa ministra della Salute.

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Cronache

Gratteri: i magistrati oggi ai minimi storici di credibilità

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“Noi magistrati oggi siamo ai minimi storici di credibilità, perché abbiamo fatto degli errori”. Lo ha detto il procuratore del Tribunale di Napoli, Nicola Gratteri, intervenuto alla seconda edizione di Capri d’autore, la rassegna culturale curata da Valentina Fontana e Gianluigi Nuzzi, e organizzata da Vis factor. Secondo Gratteri si sarebbe dovuto far dimettere i componenti del Csm “perché sul caso Palamara bisognava lanciare il messaggio alla gente che si stava voltando pagina, che si faceva un taglio netto. Non è stato fatto, con il risultato che è passato il messaggio che si voleva tutelare una corporazione che non voleva lasciare la poltrona. E questo ci ha reso più deboli, anche perché le correnti all’interno della magistratura sono ancora tante”.

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Esteri

Maxi donazione di Musk a Trump per conquistare gli Usa

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Elon Musk è sempre più protagonista della campagna elettorale americana, ma questa volta non c’entrano i suoi post controversi. L’uomo più ricco del mondo, destinato anche a diventare il primo trilionario del pianeta, ha elargito ben 289.000 dollari a Donald Trump, la più alta donazione finora da parte del magnate tech che in passato ha sostenuto sia candidati repubblicani che democratici. Tecnicamente i fondi sono andati al National Republican Congressional Committee, il comitato dei repubblicani alla Camera, attraverso una raccolta organizzata dal deputato della California Ken Calvert.

Ma in cima alla lista delle generose donazioni del patron di Tesla c’è America Pac, il super comitato elettorale che ha un ruolo fondamentale nella corsa alla Casa Bianca e che può accettare importi illimitati da donatori individuali. E’ probabile che Musk gli abbia elargito più dello stesso Comitato nazionale dei repubblicani, ma la cifra esatta si saprà solo il 15 ottobre, quando il super Pac rivelerà le sue attività finanziarie trimestrali. Quanti soldi il quasi trilionario investirà in totale nelle elezioni rimane comunque una questione aperta. A luglio, il Wall Street Journal aveva rivelato che l’intenzione era 45 milioni di dollari al mese per aiutare Trump a conquistare la Casa Bianca, notizia poi smentita dallo stesso Musk.

Nonostante l’afflusso di denaro ad agosto, il Comitato nazionale ha raccolto solo 9,7 milioni contro i 22,2 milioni di dollari dei democratici. Tra fiumi di denaro e flussi di coscienza su X, un altro segnale che il coinvolgimento politico del proprietario del social media è decisamente aumentato nelle ultime settimane e potrebbe non finire a novembre è l’assunzione di Chris Young come consulente politico a fine agosto. Nome noto tra i repubblicani e veterano delle campagne elettorali, secondo gli esperti Young si è unito alla squadra di Musk, che comprenderebbe anche l’ex speaker della Camera Kevin McCarthy, per dare maggiore concretezza all’avventura politica del magnate, fino a oggi più che altro un divertissement.

Intanto, oltre all’indagine del Secret Service sull’ormai famigerato post sui mancati attentati contro Joe Biden e Kamala Harris, Musk rischia di ricevere una sanzione dalla Sec per non essersi presentato, ancora una volta, a testimoniare. Si tratta dell’indagine della Consob americana sull’operazione d’acquisto di Twitter per 44 miliardi di dollari e l’udienza era prevista a Los Angeles lo scorso 10 settembre. All’ultimo minuto, tuttavia, uno degli avvocati del patron di Tesla ha fatto sapere che non si sarebbe presentato per un viaggio “urgente” a Cape Canaveral, in Florida, in occasione del lancio di Polaris Dawn.

“La Corte deve chiarire che queste tattiche devono cessare”, hanno scritto gli avvocati del regolatore nella dichiarazione presentata in tribunale. L’incidente segna l’ennesimo scontro tra l’uomo più ricco del mondo e la Sec, che negli ultimi dieci anni hanno avuto un rapporto a dir poco conflittuale. Il caso più noto quello del tweet di Musk del 2018 sull’accordo per privatizzare Tesla a 420 dollari per azione che per la Consob americana era fuorviante. Il proprietario di X alla fine fu costretto a pagare una multa da 20 milioni di dollari.

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