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Salute

Immunoterapia aumenta sopravvivenza in sempre più tumori

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L’immunoterapia migliora la sopravvivenza a lungo termine in un numero crescente di tumori, dal melanoma al cancro al seno difficile da trattare a quello alla vescica. Lo dimostrano gli studi presentati al congresso della Società europea di oncologia medica (Esmo). Un passo avanti importante della ricerca anche se, avvertono gli oncologi, resta ancora da approfondire il problema della resistenza che si verifica in alcuni pazienti. L’immunoterapia, che agisce consentendo al sistema immunitario dell’organismo di riconoscere e distruggere le cellule tumorali, migliora infatti la sopravvivenza globale a lungo termine nei pazienti con melanoma avanzato, secondo i risultati di ampi studi internazionali riportati all’Esmo. Ulteriori studi mostrano inoltre un miglioramento della sopravvivenza a lungo termine con l’immunoterapia somministrata prima e dopo l’intervento chirurgico in donne con carcinoma mammario in stadio iniziale e difficile da trattare (carcinoma mammario triplo negativo) e in pazienti con carcinoma della vescica muscolo-invasivo.

“Il messaggio principale di tutti questi studi è che l’immunoterapia continua a mantenere la sua promessa con la speranza di sopravvivenza a lungo termine per molti pazienti con diversi tipi di cancro. L’immunoterapia può funzionare per molto tempo”, afferma Alessandra Curioni-Fontecedro, professoressa di Oncologia all’Università di Friburgo. Guardando al futuro della ricerca con l’immunoterapia, Curioni-Fontecedro ha tuttavia sottolineato che “abbiamo ancora alcune domande importanti che non hanno risposta. Il primo è capire perché i tumori si ripresentano in alcuni pazienti nonostante la risposta iniziale all’immunoterapia. Ancora non capiamo come la resistenza all’immunoterapia possa verificarsi in alcuni pazienti. Dobbiamo capire cosa succede in questi pazienti, quali sono i meccanismi di resistenza e come possiamo superarli”. E’ quindi “importante – ha concluso – che i ricercatori e le aziende farmaceutiche lavorino insieme per affrontare efficacemente il problema della resistenza all’immunoterapia”.

In particolare, uno studio di fase 3 ha evidenziato che in pazienti con melanoma avanzato, dopo un follow-up di almeno 10 anni, la sopravvivenza globale mediana è stata di circa 6 anni con l’immunoterapia di combinazione con nivolumab più ipilimumab (studio CheckMate 067). L’immunoterapia, commenta Marco Donia, professore di Oncologia al Centro nazionale per la terapia immunitaria del cancro della Danimarca, “ha trasformato il melanoma avanzato da qualcosa che in precedenza era una malattia mortale con una sopravvivenza mediana inferiore a un anno a quello che vediamo oggi, con la metà dei pazienti che sopravvive per molti anni”. Donia sostiene inoltre il diritto di questi pazienti di ‘essere dimenticati’ come malati oncologici dopo cinque anni di assenza di cancro dalla fine del trattamento, “in modo che non subiscano discriminazioni ri spetto alla popolazione generale quando cercano credito finanziario”. Un miglioramento della sopravvivenza globale con l’immunoterapia è stato riportato anche nel carcinoma mammario triplo negativo in stadio iniziale.

I tumori al seno triplo negativi sono particolarmente difficili da trattare, ma i risultati hanno mostrato un miglioramento significativo della sopravvivenza globale con immunoterapia più chemioterapia prima dell’intervento chirurgico e immunoterapia continua dopo l’intervento: il tasso di sopravvivenza globale a cinque anni è stato dell’86,6% nei pazienti sottoposti a immunoterapia e dell’81,2% nel gruppo placebo. Un miglioramento simile della sopravvivenza globale con l’immunoterapia prima dell’intervento chirurgico è stato osservato in uno studio anche su pazienti con carcinoma della vescica muscolo-invasivo. I pazienti trattati con immunoterapia (durvalumab) hanno mostrato una sopravvivenza libera da eventi significativamente più lunga.

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Alzheimer: l’assistenza pesa su 3 milioni di familiari

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Circa 600mila persone in Italia ne soffrono, solo il 20% dei pazienti riceve una diagnosi precoce mentre sono circa 3 milioni i familiari che si occupano dell’assistenza dei loro cari. Sono i numeri dell’Alzheimer in Italia, di cui il 21 settembre si celebra la Giornata mondiale. E anche il Papa ha voluto ricordare durante l’udienza generale: “Preghiamo affinché la scienza medica possa offrire presto prospettive di cura per questa malattia e perché si attivino sempre più opportuni interventi a sostegno dei malati e delle loro famiglie”, ha detto Bergoglio.

La malattia può progredire lentamente nell’arco di 10-20 anni, passando dalla fase preclinica non sintomatica, alla demenza grave, con ricadute sempre maggiori sulla vita quotidiana della persone. E ad accorgersi per primi dei sintomi, spesso subdoli e sottovalutati, sono di frequente i parenti dei malati sui quali grava l’assistenza. “Inizia spesso con piccoli segni, di cui a volte non è facile accorgersi – spiega Alessandro Padovani, direttore della Clinica neurologica dell’Università di Brescia e presidente della Società italiana di neurologia – A volte, soprattutto nelle persone avanti negli anni, questi piccoli deficit non vengono riconosciuti: dimenticare dove si è posteggiata l’auto, attribuire dei nomi diversi alle persone che si conoscono, o anche solo cambiare abitudini.

È importante non derubricare, o ritenere che tutto questo sia normalmente legato all’invecchiamento”. A ritardare il primo accesso al percorso diagnostico contribuiscono l’impreparazione dei sistemi sanitari e lo stigma rispetto alla malattia. Una maggiore consapevolezza dei primi sintomi per rendere sempre più frequente una diagnosi precoce sono gli obiettivi della campagna ‘Pensaci, per non dimenticarlo”, lanciata da Lilly. Quasi la metà (il 49%) degli italiani è preoccupata che l’Alzheimer possa in futuro riguardarla personalmente o colpire uno dei propri cari, solo 1 italiano su 10 si dichiara “molto informato” su questa patologia, come emerge da una ricerca realizzata per conto di Airalzh onlus (Associazione italiana ricerca Alzheimer) che lancia anche una campagna di sensibilizzazione per invitare le persone ad essere più consapevoli dei benefici di un corretto stile di vita, e ad adottarli anche come prevenzione alle demenze. In generale il declino cognitivo e la demenza preoccupano 9 italiani su 10 e interessano 2 milioni di pazienti e 4 milioni di caregiver, secondo un’altra indagine dell’istituto ‘Emg Different’. Ciò che impensierisce di più è la relativa perdita di autonomia, l’isolamento e il carico emotivo ed economico sulla famiglia, anche a causa della carenza di servizi socio-assistenziali.

E “con l’aumento dell’aspettativa di vita, la demenza è destinata ad acquisire sempre più rilevanza: oggi ne soffre il 7% della popolazione over-60 e la percentuale sale al 30% negli over-85 – sottolinea afferma Camillo Marra, presidente Sindem, Associazione autonoma aderente alla Sin per le demenze. Tra le iniziative anche una mostra fotografica alla Galleria dei presidenti di Montecitorio con le immagini del quotidiano immortalate dalla figlia di una donna malata di Alzheimer, l’artista Serena Becagli. Tra gli scatti esposti una caffettiera traboccante di caffè macinato e posate messe ad asciugare nella carta igienica, forbici immerse nella zuccheriera. “Iniziative come queste – afferma la deputata Annarita Patriarca, co-presidente dell’intergruppo parlamentare per le neuroscienze e l’Alzheimer – intendono accendere una luce per non dimenticare. Abbiamo bisogno di conoscere e far conoscere che cosa è l’Alzheimer e il sacrificio dei caregiver, per fare in modo che, attraverso la sensibilizzazione, si dia una mano a chi ha bisogno e si orientino le scelte nella direzione di chi soffre e di chi dedica la sua vita ai pazienti”.

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Scoperto un nuovo gruppo sanguigno dopo 50 anni di mistero, è il gruppo Mal

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Identificato un nuovo gruppo sanguigno, il rarissimo Mal: i ricercatori erano sulle sue tracce da oltre mezzo secolo, da quando nel 1972 fu trovata una donna misteriosamente priva di una molecola, l’antigene AnWj, che è presente sulla superficie dei globuli rossi nel 99,9% delle persone.

La scoperta dell’origine genetica di questa condizione, pubblicata sulla rivista Blood dai ricercatori del National Health Service Blood and Transplant nel Regno Unito, porta a 47 il numero dei sistemi di gruppi sanguigni noti finora (tra cui i celebri sistemi ABO e Rh) e apre la strada a trasfusioni di sangue più sicure. I risultati di questa ricerca permetteranno infatti di sviluppare nuovi test genetici per rilevare quei rari pazienti che sono AnWj-negativi, riducendo così il rischio di complicazioni associate alla trasfusione.

La maggior parte delle persone AnWj-negative deve la loro condizione a malattie ematologiche o a particolari tipi di tumore che sopprimono l’espressione dell’antigene normalmente presente sulla proteina Mal. Solo un numero molto esiguo di persone è AnWj-negativo per una causa genetica. I ricercatori l’hanno scoperta esaminando non solo il sangue della paziente identificata nel 1972, ma anche quello dei membri di una famiglia arabo-israeliana con cinque individui AnWj-negativi. Per ciascuna persona è stato sequenziato l’intero esoma, ovvero il Dna che codifica proteine.

Dai risultati è emerso che i rari casi genetici di negatività all’antigene AnWj sono dovuti a delezioni di sequenze di Dna in entrambe le copie del gene Mal. Lo studio “rappresenta un enorme risultato e il culmine di un lungo lavoro di squadra, per stabilire finalmente questo nuovo sistema di gruppi sanguigni ed essere in grado di offrire la migliore assistenza a pazienti rari ma importanti”, commenta la prima autrice dello studio, Louise Tilley del Nhs Blood and Transplant di Bristol. “Il lavoro è stato difficile perché i casi genetici sono molto rari. Non avremmo raggiunto questo obiettivo senza il sequenziamento dell’esoma, perché il gene che abbiamo identificato non era un candidato ovvio e si sa poco della proteina Mal nei globuli rossi”.

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Aifa, una nuova piattaforma ottimizza fondi farmacovigilanza

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Un nuovo sistema informatico ha l’obiettivo di rendere più efficiente la gestione dei Fondi di Farmacovigilanza, essenziali per il funzionamento dei Centri Regionali e per la realizzazione di progetti di farmacovigilanza attiva, favorendo così la conoscenza del profilo beneficio-rischio dei medicinali dopo la loro commercializzazione, nelle reali condizioni di uso. Il nuovo sistema messo a punto dall’Agenzia Italiana del Farmaco sarà accessibile alle Regioni a partire dal 1° ottobre, dopo l’evento di presentazione e formazione svoltosi oggi presso la stessa Agenzia.

“Da un sistema nel quale tutto è ancora inserito manualmente, con l’inevitabile rallentamento della gestione dei dati e dell’attività di monitoraggio, si passa a una innovativa piattaforma digitale che consentirà di migliorare l’efficienza dell’uso delle risorse finanziarie, permettendo una gestione più semplice e tracciabile”, spiega Anna Rosa Marra, responsabile dell’Area Vigilanza Post-Marketing dell’Aifa. Più nel dettaglio il sistema permette di: – inserire i dati tecnici ed economici in modo standardizzato, rendendo più facile la condivisione e l’analisi delle informazioni; – tracciare ogni attività e la relativa comunicazione, così da avere il costante controllo di ciascuna fase del processo; – monitorare le attività finanziate, con notifiche automatiche che ricordano le scadenze.

“L’implementazione del Sistema informatico per la gestione dei fondi di farmacovigilanza rappresenta una svolta importante nella gestione delle risorse pubbliche destinate alla sorveglianza post-marketing dei medicinali”, afferma Anna Rosa Marra. “Sono certa – conclude – che questa piattaforma consentirà alle Regioni e all’Aifa di lavorare in modo più coordinato, migliorando l’efficacia dell’attività di farmacovigilanza, fondamentale in termini di sicurezza e di utilizzo ottimale dei medicinali”.

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