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Il j’accuse di Harry contro i tabloid, ‘folli e vili’

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harry e meghan

Un j’accuse in piena regola, contro le intrusioni “vili” imputate ai tabloid e contro la reputazione “ai minimi termini” dei media britannici in generale e persino del governo di Sua Maestà; ma non senza momenti d’imbarazzo di fronte ai contrattacchi della difesa nei quali l’accusatore ha rischiato di diventare l’accusato. Si è consumata così la prima giornata di testimonianza-fiume del principe ribelle Harry, secondogenito di re Carlo III, protrattasi oggi per ore sotto i riflettori della pubblica opinione in un’aula dell’Alta Corte di Londra, nel quadro di una delle numerose crociate legali avviate dal duca di Sussex, assieme ad altri vip, contro violazioni della privacy vecchie e nuove rinfacciate alla stampa scandalistica del Regno: in questo caso al Mirror Group Newspapers (Mgn), holding editoriale proprietaria dei filo-laburisti Daily Mirror e del Sunday Mirror, chiamati in causa analogamente a quanto fatto in separata sede nei confronti di concorrenti destrorsi del firmamento delle pubblicazioni popolar-populiste quali il Sun di Rupert Murdoch o il Mail.

Si è trattato della prima deposizione sotto giuramento in tribunale da parte di un membro della dinastia da oltre un secolo, ossia da quando a farlo era stato il futuro Edoardo VII, figlio della regina Vittoria, in un processo per diffamazione. Un passo intrapreso contro tutti i consigli alla prudenza, come a voler raccogliere la battagliera eredità materna della sfortunata principessa Diana, in aperta sfida al dettato di casa Windsor del ‘never complain, never explain’. E destinato inevitabilmente a inquietare il resto della Royal Family. I toni del 38enne principe cadetto, e il duro scenario da botta e risposta del controesame, non hanno d’altronde contribuito a smussare in alcun modo le preoccupazioni della vigilia. “La mia speranza è porre fine alla follia della stampa”, è partito lancia in resta Harry nella sua introduzione. Per poi evocare “le dita sporche di sangue” di un certo giornalismo, l’ostilità che gli sarebbe stata riservata fin dalla nascita, gli attentati alla privacy perpetrati con ogni mezzo.

Un’ossessione, ha ammesso, ma un’ossessione rivelatasi “fondata”. Le vicende oggetto di questa specifica causa risalgono al passato, a un periodo compreso fra 1996 e 2010, ossia a ben prima che Meghan Markle apparisse all’orizzonte. E riguardano il sospetto d’intercettazioni illegali e di altre forme d’infiltrazioni dietro la pubblicazione di storie relative agli anni della sua giovinezza (dai festini con droga con i compagni di liceo di Eton alla relazione con la prima fidanzata Chelsy Davy). L’attacco è stato condotto a viso aperto. Con l’accusa alla stampa del Regno di aver cercato di approfittare dei suoi traumi (legati anche e soprattutto alla morte di lady D) per indurlo a commettere azioni “stupide” da sbattere in prima pagina; e di averlo trattato in modo “assolutamente vile”. Nonché di avere contribuito in anni più recenti ad allargare il fossato col fratello-erede al trono William e a spingerlo all’autoesilio del 2020 con la consorte Meghan negli Usa, suggellato dallo strappo dal casato. Non solo. Harry ha fatto pure nomi e cognomi di giornalisti e direttori: puntando il dito ad esempio su figure come Piers Morgan, a lungo editor del Mirror in passato e oggi anchorman tv, tanto sulfureo quanto popolare, noto per le continue polemiche furibonde contro i Sussex. Personaggio a cui il figlio minore del re ha addossato – a costo di scatenare nuovi conflitti e querele – la responsabilità diretta di “attacchi personali orribili e spregevoli”. Se non bastasse, sono quindi arrivate le parole sui rapporti incestuosi di complicità esistenti a suo dire fra i media dell’isola e il governo: istituzioni entrambe sprofondate “al punto più basso” nella reputazione globale, ha sentenziato Harry, oltrepassando la linea rossa della neutralità politica osservata tradizionalmente dai reali d’Oltremanica.

Assistito da David Sherborne, legale di chiara fama, il duca ha tenuto botta per ore, pur alternando fasi più convincenti a esitazioni e pause di stanchezza. A incalzarlo senza tregua in un controesame sfiancante è stato del resto – di fronte al giudice Fancourt – un principe del foro come Andrew Green, avvocato del Mirror in fama di squalo per l’aggressività dei suoi interrogatori ai testimoni: il quale lo ha contestato a muso duro sui dettagli di varie ricostruzioni, accusandolo di non rispondere a tono, liquidandone la narrativa come frutto di “congetture”, sollevando il dubbio che le rivelazioni ricondotte a intercettazioni dei giornalisti (pratica diffusa e ammessa in passato per altre faccende) potessero essere state in effetti raccolte nei casi da lui denunciati grazie a “fonti aperte”, a fantomatici “amici”, o magari ad anonime gole profonde annidate nei palazzi reali. E domani si continua con il secondo round.

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La trumpiana Greene lavorerà con Musk e Ramaswamy a taglio costi

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La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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