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Il direttore del British Museum si dimette dopo i furti

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Getta la spugna il direttore del British Museum. Pressato da giorni dallo scandalo dei furti di gioielli e monili antichi, spariti dalle sue collezioni, Hartwig Fischer ha rassegnato le dimissioni, prontamente accettate dal consiglio di amministrazione della grande istituzione culturale britannica: “E’ evidente che il British Museum non ha reagito in modo soddisfacente come avrebbe dovuto agli avvertimenti arrivati nel 2021, e ora il problema è emerso appieno. La responsabilità di questo fallimento in definitiva ricade sul direttore”, ha scritto Fischer. Nell’accettare il passo indietro, l’ex cancelliere dello Scacchiere conservatore George Osborne, che presiede il British Museum, ha concesso al direttore l’onore delle armi, commentando che Fischer ha agito “con onore, facendo i conti con gli errori che erano stati compiuti” e che avevano condotto alla scomparsa di un numero mai precisato di oggetti preziosi in oro e pietre semipreziose, databili fra il XV secolo avanti Cristo, soprattutto gioielli romani e greci, al XIX secolo d.C.: oggetti che non erano esposti al pubblico ma facevano parte della vasta collezione dei depositi del museo, accessibile agli studiosi e accademici, e che probabilmente non verranno mai più recuperati.

Si teme infatti che i ladri abbiano smantellato gli artefatti per renderli irriconoscibili, vendendone parti o fondendo i metalli preziosi. Il loro valore complessivo è stato stimato in decine di milioni, forse fino a 80 milioni di sterline. I furti, che sarebbero iniziati nel 2019, aumentando nel periodo della pandemia da Covid, quando il museo restò chiuso per 163 giorni, secondo il Times, potrebbe addirittura essere iniziati silenziosamente una ventina d’anni fa. “Nessuno – ha scritto ancora Osborne nel messaggio di accettazione delle dimissioni – ha messo in dubbio l’integrità di Hartwig, la sua dedizione al lavoro e il suo amore per il museo”. Ma non lo hanno aiutato le recenti dichiarazioni, anzi la diatriba fra la direzione del museo e l’antiquario Ittai Gradel, l’uomo che nel febbraio del 2021 per primo si era accorto di quanto stava succedendo sottotraccia, avvertendo il British Museum dopo aver ritrovato parti di antichi gioielli romani messi in vendita su eBay a prezzi risibili rispetto al loro valore reale.

La rivelazione di Gradel diede l’avvio ad un’inchiesta interna del museo, ad una di Scotland Yard, e nei giorni è caduta la prima testa, con il licenziamento del curatore delle collezioni sulla Grecia antica, il 56enne Peter John Higgs, che si professa innocente. Il direttore Fischer ha difeso a spada tratta la prestigiosa istituzione imperiale britannica, rispondendo all’antiquario e mercante d’arte che “tutti gli oggetti erano stati individuati”, salvo poi affermare di avere “buone ragioni per ritenere” che Gradel abbia “nascosto informazioni” su altri oggetti delle collezioni del museo mancanti: affermazione respinta al mittente come una “menzogna bella e buona”. Gradel oggi ha detto alla Bbc che le dimissioni da parte del direttore Fischer sono state la decisione giusta, anche se “avrebbe dovuto farlo prima”, aggiungendo di “accettare le sue scuse”. La pressione sul direttore era aumentata quando la vicenda dei furti aveva rinfocolato il braccio di ferro fra Londra e Atene sulla restituzione dei marmi del Partenone, dando il pretesto all’Associazione degli archeologi greci di affermare che ora il British Museum non può più asserire di proteggerli.

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I milioni segreti che imbarazzano Carlo e William

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Due imperi immobiliari capaci di generare milioni ‘segreti’ per la monarchia britannica, in primo luogo per re Carlo III e l’erede al trono William, grazie alle proprietà più diverse sparse in tutto il Regno Unito. Così un’inchiesta giornalistica del Sunday Times e del programma Dispatches di Channel 4 ha svelato quanto era stato “gelosamente custodito” – come scrive il giornale – anche rispetto alle richieste di trasparenza arrivate dal Parlamento, e gettato ombre di imbarazzo sulla Royal Family per l’attività dei due fondi che fanno capo direttamente al sovrano e al primogenito: l’anno scorso hanno prodotto entrate per almeno 50 milioni di sterline (60 milioni di euro) tramite l’affitto a (caro) prezzo di mercato di proprietà dei loro possedimenti privati a istituzioni pubbliche vitali per i sudditi, specie i meno abbienti, incluse scuole e strutture del servizio sanitario nazionale (Nhs).

La lente dei giornalisti è finita su più di 5400 tra immobili e terreni del Ducato di Lancaster, gestito dal re attraverso i suoi rappresentanti, e del Ducato di Cornovaglia, tesoro di casa Windsor amministrato dall’erede: per questo l’inchiesta intitolata ‘Il Re, il Principe e i loro milioni segreti’ viene anche definita col termine “Duchy Files” (i file del ducato). Fra gli accordi riservati è emerso quello col trust del Guy’s and St Thomas’ Hospital di Londra, uno dei più importanti ospedali pubblici della capitale, che si è impegnato a versare nelle casse del Ducato di Lancaster più di 11 milioni di sterline per 15 anni di pigione riguardante locali adibiti ad autorimesse per ambulanze.

Mentre il Ducato di Cornovaglia, si è aggiudicato fra l’altro entrate per 37 milioni, spalmate su 25 anni, dal ministero della Giustizia per l’affitto di una sua singola struttura che ospita il carcere di Dartmoor, affollato penitenziario di categoria C nella contea inglese meridionale del Devon. Inoltre dai Duchy Files è emerso in tutta la sua vastità come il sovrano e l’erede al trono, sempre tramite i loro fondi, guadagnino entrate nei modi più disparati: dal pedaggio per ponti, ai traghetti, alle fognature, alle turbine eoliche, ai pub e alle distillerie fino alle miniere, ai parcheggi e ai cimiteri. Sul suo sito web, il Ducato di Lancaster afferma che “è completamente autofinanziato e non fa affidamento sul denaro dei contribuenti”.

E il Ducato di Cornovaglia sottolinea di “non essere un ente pubblico, né finanziato dai contribuenti”. Questo però contrasta coi risultati dell’inchiesta, in cui si ricorda anche come i guadagni siano di fatto esentasse. Perfino il ministero della Difesa ha sborsato al ducato del principe di Galles negli ultimi 20 anni almeno 900.000 sterline per il diritto di ormeggiare barche nelle acque circostanti il Britannia Royal Naval College di Dartmouth, dove in passato hanno frequentato il corso di cadetti della marina sia Carlo III che William. I contratti in questione rispettano “la legislazione e tutte le regole in vigore nel Regno Unito”, si è affrettata a precisare una portavoce del Ducato di Lancaster. “La nostra organizzazione è un’impresa immobiliare privata con priorità commerciali”, ha ricordato da parte sua una fonte del Ducato di Cornovaglia.

Ma queste dichiarazioni non fermano le polemiche attorno alle rivelazioni riprese dai media del Regno. Nei giorni scorsi, fra l’altro, in un articolo sul magazine Prospect firmato dal suo direttore Alan Rusbridger, in passato alla guida del Guardian, era stato criticato con forza il mistero dietro i tanti proventi ricevuti dalla famiglia reale. Se i due ducati sono entità private, i reali percepiscono ogni anno dal Tesoro (e quindi dai contribuenti) una percentuale dei proventi generati dalla Crown Estate, il patrimonio della Corona, come appannaggio di Stato (sovereign grant) garantito per il finanziamento delle attività ufficiali e per la gestione delle residenze: nel 2025 la sovvenzione sarà di 132 milioni di sterline. Se la monarchia resta molto popolare tra i britannici allo stesso tempo si sente crescere una richiesta di maggiore trasparenza in ambito economico, ancor di più dopo che il governo laburista ha presentato una manovra finanziaria con 40 miliardi di sterline in aumenti fiscali per sostenere gli investimenti pubblici.

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La guida alla notte elettorale Usa ora per ora

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La maratona elettorale dell’Election Day del 5 novembre negli Stati Uniti inizia domattina quando in Italia sarà già mezzogiorno con l’apertura dei primi seggi sulla East Coast (ma in alcune municipalità del Maine le urne aprono alle 11 italiane) e attraversa sei fusi orari, dall’Atlantico al Pacifico, con la reale possibilità che siano necessari giorni – forse più dei quattro del 2020 – per decretare il prossimo presidente americano. A meno ovviamente che non si verifichi una (inaspettata) onda rossa o blu che consegni un vincitore chiaro sin da subito: in questo caso il risultato potrebbe arrivare già tra le 2 e le 3 del mattino di mercoledì 6 novembre in Italia. Ecco gli orari italiani della chiusura dei seggi nei vari Stati, dalla East Coast alle Hawaii.

* 1.00 DI MERCOLEDÌ 6 NOVEMBRE – Chiudono i seggi in sei Stati, incluso quello chiave della Georgia (che assegna 16 grandi elettori), oltre a Indiana, Kentucky, South Carolina, Vermont e Virginia. * 1.30 – Chiudono i seggi in North Carolina (uno degli Stati in bilico con 16 grandi elettori), ma anche in West Virginia e in Ohio. * 2.00 – Sono complessivamente 17 gli Stati Usa in cui chiudono i seggi, inclusa la cruciale Pennsylvania, che mette in palio 19 grandi elettori, il premio più ambito tra gli ‘swing states’. Tra gli altri ci sono Oklahoma, Missouri, Tennessee, Mississippi, Alabama, Florida, Maine, New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New Jersey, Delaware, Maryland e la capitale Washington. Se Trump si aggiudicasse anche la Pennsylvania dopo Georgia e N. Carolina con ogni probabilità avrebbe vinto, altrimenti si dovrà aspettare ancora un’ora. * 3.00 – E’ la possibile ora della verità. Chiudono i seggi in 15 Stati, dal Texas, roccaforte repubblicana, a tre Stati chiave: Arizona, Wisconsin e Michigan. E ancora Wyoming, North Dakota, South Dakota, Nebraska, Iowa, Kansas, Louisiana, New Mexico, Colorado, Minnesota e New York. * 4.00-5.00 – Alle 4 ora italiana urne chiuse in altri tre Stati, tra cui Utah, Montana e soprattutto l’ultimo in bilico, il Nevada. Alle 5 invece chiudono California, Oregon, Washington e Idaho. * 6.00-7.00 – Alle 6 del mattino chiudono le Hawaii, alle 7 l’Alaska, l’ultimo Stato americano.

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Fuga di notizie, arrestato portavoce ufficio di Netanyahu

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Eliezer Feldstein, portavoce dell’ufficio di Benyamin Netanyahu, è stato arrestato e interrogato diversi giorni fa dallo Shin Bet per le fughe di notizie riservate provenienti dall’ufficio del premier israeliano. Lo riporta Ynet. Il nome del sospettato è stato annunciato dopo che un ordine restrittivo sulle informazioni è stato revocato dal tribunale di Rishon LeZion. “Ci potrebbe essere stato un danno alla capacità delle agenzie di sicurezza di raggiungere l’obiettivo di liberare gli ostaggi”, secondo il giudice. Feldstein avrebbe dato a media internazionali informazioni riservate per favorire la propaganda israeliana.

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