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Economia

Il capitalismo accumulativo e la vitalità delle imprese

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Un Rapporto di Allianz Global Investor ci diceva a fine dello scorso gennaio che nel 2022 le imprese avevano distribuito dividendi per 382 miliardi di € in Europa. Un nuovo Rapporto, del gestore Janus Henderson stavolta, pubblicato oggi, dice che alla scala mondiale sono stati distribuiti dividendi per 1.500 miliardi di €. D.i.v.i.d.e.n.d.i. Vi lascio immaginare quali siano i profitti. Una crescita dell’8,4 nel mondo rispetto al 2021. La metà di questa crescita è dovuta alle aziende petro-gazifere e a quelle finanziarie. Le prime, hanno aumentato di 2/3 le loro distribuzioni sotto forma di dividendi ordinari e straordinari. Le banche, dal loro canto, hanno contribuito per 1/4 alla crescita globale.
L’azienda più generosa è stata, a quanto pare, un’impresa mineraria anglo-australiana, la BHP. Seguono, sul podio, la brasiliana Petrobras e la statunitense Microsoft. Sette imprese nella top ten sono americane.

In Europa, la Francia è stato il primo Paese distributore di dividendi, con 60 miliardi di €: spiccano tra le imprese TotalEnergies e LVMH (lusso).
Non trovo ci sia alcunché da scandalizzarsi. Le imprese fanno il loro mestiere -accumulare profitti- e lo fanno bene. Il capitalismo si conferma come la macchina insostituibile per produrre ricchezza. La politica deve lavorare su quella macchina, credo. Aumentandone le potenzialtà re-distributive, come pure le “corporate social responsibilies” senza intaccarne la performatività. Nessun tentativo di imbrigliare le imprese in logiche che non sono le sue, niente “lacci e lacciuoli”.

E dunque, appare necessaria e urgente una disciplina statale della tassazione dei sovraprofitti, che almeno in parte devono servire a finanziare opere di utilità pubblica, priorità sociali in sofferenza. Come pure necessarie e urgenti sono misure di politica industriale che prevedano uno storno dei dividendi dagli investitori ai dipendenti: dai manager (che di solito sanno provvedere a se stessi in caso di buoni risultati aziendali) in giù, fino all’ultimo salariato.
Senza dubbio alcuno, sull’altro versante, appare necessaria ed urgente un’assunzione di responsabilità delle aziende nei confronti del mondo -e delle società umane- in cui vivono, operano, e crescono. Due esempi molto semplici e chiari di quel che intendo:
i. ambiente: la tutela ecologica per le popolazioni insediate, per il benessere del nostro Pianeta e per le generazioni future.
ii. lavoro: la tutela del “lavoro” nel senso più alto, nobile e comprensivo del termine, a cominciare dal contrasto al lavoro minorile, sottopagato e, in certe realtà, persino schiavo, fino alla salvaguardia del lavoratore sul posto di lavoro, per quel che riguarda sia la salute che le condizioni di sicurezza.

Chiudo osservando che “il mondo” non è stato mai ricco come oggi. E mai come oggi c’è stata al mondo così tanta gente che ha fame. I dividendi aziendali, in più, sono dati in crescita per il 2023. Il capitale continua a tradurre in “accumulazione” le condizioni e i mezzi di produzione di fronte a cui viene a trovarsi: persino la pandemia, nel 2021 (COVID, ricordate?); persino la guerra. Il conflitto russo-ucraino, quale che sia l’opinione che ciascuno si è fatta della sua genesi, del suo svolgimento, della sua conclusione, è stato il motore primo dell’accumulazione capitalistica mondiale nel 2022.
No, non mi scandalizzo. Però ci penso.

 

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Economia

Orsini: nucleare scelta obbligata se Italia vuol competere

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“Con i nuovi reattori e le nuove tecnologie, rispetto alla scelta fatta con il referendum di 40 anni fa, noi, senza se e senza ma diciamo che l’Italia paga l’energia il 40% in più dei propri competitor, e questo è un elemento che incide negativamente sulla competitività. Il nucleare mi pare una scelta obbligata se vogliamo tornare competitivi nel medio lungo periodo”. Lo ha detto il presidente di Confindustria Emanuele Orsini, intervistato da Myrta Merlino nel corso dell’assemblea generale di Confindustria Veneto Est, a Padova. Secondo Orsini, per tornare a produrre energia dal nucelre in Italia “nella migliore delle ipotesi servirà un decennio. Occorre però cambiare la narrazione sul nucleare e guardare con favore alla Newco fatta da Ansaldo, Leonardo ed Enel: vuol dire che l’Italia c’è”.

“Le industrie italiane ed europee sono quelle che emettono meno a livello mondiale – ha detto Orsini – in rapporto al Pil che produciamo che è il 15% secondo i dati Onu contribuiamo alle emissioni per un valore che secondo le stime è molto più basso, tra il 3 e il 5% delle emissioni mondiali. Ed allora mi pare difficile sostenere che dobbiamo sacrificare un intero comparto, importantissimo per l’economia europea, com’è quello dell’automotive per ridurre di un ulteriore 0,5%”.

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Economia

Economia della Ue con il fiato corto, euro ai minimi

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L’economia europea ha il fiato corto e a risentirne è l’euro che scivola ai minimi da due anni rispetto al dollaro di fronte alla doccia fredda degli indici Pmi, una misura del grado di fiducia dei responsabili agli acquisti delle imprese. Il biglietto verde, da parte sua, continua ad avanzare, e non solo rispetto alla moneta unica, sull’onda della vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali. E lo stesso fa il Bitcoin, che prosegue il rally e supera i 99.300 dollari, ormai diretto verso la soglia dei 100.000 grazie alla sostegno del nuovo presidente americano alle criptovalute e all’idea di un regolamentazione più benevola. Il pmi composito dell’eurozona, finito a novembre a 48,1 (contro le attese che lo davano a 50), complice il calo inaspettato nei servizi più ancora che nell’industria manifatturiera, ha frenato le Borse del Vecchio Continente nella prima parte della giornata.

Non ha aiutato la revisione al ribasso del Pil della Germania, cresciuto nel terzo trimestre solo dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti. A far scattare le vendite sull’azionario hanno contribuito le scommesse del mercato su un taglio deciso dei tassi, di 50 punti base, alla prossima riunione Bce per dare ossigeno alle economie della zona euro in una scenario ormai di stagnazione: bassa crescita e inflazione non ancora sotto controllo. La prospettiva di tassi di interesse più bassi ha avuto l’effetto di far calare i rendimenti dei titoli di Stato a partire dal Bund tedesco, sceso al 2,23%. Quello dell’Oat francese è diminuito al 3% e del Btp italiano al 3,5%. Lo spread si è allargato intanto sopra i 126 punti base.

Le Borse europee hanno invece rialzato la testa nell’ultima parte della seduta sulla scia di Wall Street, spinto dal Pmi composito negli Stati Uniti, arrivato a 55,3 meglio delle stime a conferma di un’economia in crescita. A fine giornata il maggior rialzo lo ha messo a segno Londra (+1,38%) indifferente agli indici Pmi del Regno Unito, anch’essi in flessione. Ha fatto tutto sommato bene anche la Borsa di Francoforte (+0,92%) malgrado i brutti dati Pmi e il Pil deludente. Parigi ha registrato un guadagno finale dello 0,52% malgrado anche nella seconda maggiore economia dell’eurozona gli indici Pmi siano stati sotto le attese. Meglio intonata Piazza Affari (+0,6%) malgrado abbiamo perso terreno le banche, in sintonia con i big del credito spagnoli Santander e Bbva penalizzati dalla decisione del governo di Madrid di aumentare la tassa sugli extraprofitti. Con l’effetto di far segnare alla Borsa del Paese solo un timido +0,39%.

L’euro in serata si è confermato debole col cambio sul dollaro a 1,042, ai minimi da novembre 2022. Che la Bce si prepari a nuovi tagli dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, di fronte a un target d’inflazione al 2% che dovrebbe essere raggiunto a metà 2025, lo ha detto anche il presidente della Bundesbank Joachim Nagel, spiegando che i dati Pmi di oggi confermano lo scenario di stagnazione dell’economia tedesca. Nel complesso, visti i Pmi, difficilmente la situazione avrebbe potuto rivelarsi peggiore, è l’opinione condivisa dagli analisti secondo cui il settore manifatturiero dell’eurozona sta affondando sempre più nella recessione. Dopo due mesi in lieve crescita anche il settore dei servizi inizia poi a essere in difficoltà. E non c’è troppo da stupirsi considerato la confusione politica delle maggiori economie dell’area: il governo francese si muove su un terreno instabile e la Germania è alle prese con le elezioni anticipate. A tutto questo si aggiunge Donald Trump e la minaccia concreta di nuovi dazi sulle importazioni. Alle aziende europee non resta che navigare a vista.

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Economia

Moody’s, Pil Italia sotto 1%, impegnativa spesa Pnrr

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La crescita dell’Italia si mantiene moderata e quest’anno sarà sotto l’1%, con un deficit in calo al 4,6% e un debito che invece sale. L’analisi di Moody’s (nella foto Imagoeconomica in evidenza) mostra come i fondi del Pnrr continuano a sostenere le prospettive dell’Italia. Ma per il Belpaese sarà “impegnativo” spendere tutte le risorse disponibili dal programma entro il 2026 anche perché la spesa è stata finora inferiore al previsto. “Tassi di interessi elevati e un potenziale di crescita di circa lo 0,8% richiederanno un ampio aggiustamento fiscale per raggiungere e mantenere avanzi primari in grado di stabilizzare il debito”, afferma Moody’s annunciando il completamente della revisione del rating dell’Italia che, precisa, “non è un’azione sul rating e non è un’indicazione” sulle future decisioni sul rating. L’Italia ha al momento un rating Baa3 con outlook stabile.

“In un contesto di tassi di interesse più elevati, l’aumento del potenziale di crescita e gli avanzi primari saranno fondamentali per evitare un significativo aumento del debito”, aggiunge Moody’s spiegando come la riduzione del deficit – al 3,5% nel 2025 e al 3% nel 2026 – “non sarà sufficiente” per un calo del rapporto debito-pil in seguito agli effetti del Superbonus. L’agenzia prevede che il debito italiano salirà al 139,7% del pil nel 2024 dal 134,8% del 2023 e continuerà a salire fino al 2027 a oltre il 143%. I risultati ottenuti dall’Italia nell’attuazione del Pnrr sono “contrastanti”: l’Italia è stato il primo paese dell’Ue a chiedere le ultime tranche di finaziamento e “prevediamo che la settima tranche sarà richiesta entro la fine del 2024. Tuttavia la spesa di queste risorse è stata inferiore al previsto e la spesa totale dei fondi disponibili entro la fine del 2026 sarà impegnativa”, mette in evidenza ancora Moody’s. L’agenzia potrebbe alzare il rating nel caso di fossero prove di una crescita sostanzialmente più forte: “un miglioramento del potenziale di crescita contribuirebbe a mettere il debito su una chiara traiettoria discendente”. Il rating invece potrebbe essere rivisto al ribasso se “anticipassimo un significativo indebolimento della forza economica e di bilancio dell’Italia”.

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