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Giudici si rimettono alla corte Ue, i migranti in Italia

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Nelle stanze del centro italiano a Gjader (nella foto Imagoeconomica in evidenza) anche il secondo gruppo di migranti, appena giunto, non resta più di due giorni: come già successo per i primi dodici, anche i sette nuovi richiedenti asilo saranno trasferiti in Italia. Stavolta la sezione immigrazione del tribunale di Roma, di fronte al recente decreto sui Paesi sicuri, sospende il giudizio sulla convalida del loro trattenimento rimettendo tutto nelle mani della Corte di giustizia europea.

Ma la sostanza non cambia: i tre egiziani e i cinque bengalesi ora vanno via dalla struttura di permanenza per il rimpatrio in Albania e saranno portati in un centro per richiedenti asilo in Puglia. L’aggiornamento della lista degli Stati di provenienza dei migranti ritenuti ‘sicuri’, elevata a norma primaria dopo la prima bocciatura dei giudici nel mese scorso, non ha quindi sortito gli effetti sperati dal governo, rimettendo in discussione il meccanismo dei rimpatri accelerati.

Dal vice premier Salvini ripartono le accuse ai magistrati: “È un’altra sentenza politica contro gli italiani e la loro sicurezza. Governo e Parlamento hanno il diritto di reagire per proteggere i cittadini, e lo faranno”, attacca il leader leghista. Per l’Associazione nazionale dei magistrati la nuova norma italiana è però “incompatibile con il diritto dell’Unione europea” e nel dubbio è stato doveroso “sollevare un rinvio pregiudiziale”.

Il Viminale dal canto suo si costituirà di fronte alla Corte di giustizia europea per sostenere le proprie ragioni ma i tempi per dirimere la questione si preannunciano lunghi. Gli occhi di tutti sono adesso puntati sul prossimo 4 dicembre quando la Cassazione dovrà pronunciarsi in merito alla possibilità dei giudici di agire autonomamente oppure di doversi attenere alla lista dei Paesi sicuri stilata dal governo.

Intanto dal fronte dell’opposizione il Pd parla di “figura barbina da parte del governo, il quale dimostra che con le forzature e con i trucchetti per aggirare la legge non si va da nessuna parte. L’unico effetto è quello di condannare persone esauste, che arrivano in Europa per scappare da violenze e discriminazioni, a nuovi viaggi e trasferimenti estenuanti. Una scelta crudele e vergognosa che sta peraltro determinando danni enormi al bilancio dello Stato”, sostiene la deputata dem, Debora Serracchiani, che aggiunge: “Il tribunale di Roma ha applicato la legge in modo impeccabile che non può prescindere dalla normativa europea”.

Migranti. Al Porto di Shengjin, Nave Libra fa la spola con l’Italia per il trasporto dei richiedenti asilo 

E a Palazzo Madama il capogruppo di Italia Viva, Enrico Borghi, chiede che il ministro dell’Interno riferisca al Senato “e spieghi cosa sta accadendo. Noi – aggiunge – abbiamo dei poliziotti che controllano il nulla in terra d’Albania mentre dovrebbero essere qui in Italia a controllare l’ordine pubblico davanti alle scuole e nelle strade”. Nella stessa Aula il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, definisce i magistrati “eversivi”, annunciando di aver chiesto un’ispezione anche nei confronti della giudice Silvia Albano – componente della sezione immigrazione del tribunale capitolino – “perché non si capisce come mai lei abbia anticipato in un comizio di Magistratura Democratica la decisione del tribunale di oggi”. Parole a cui replicano i senatori del gruppo M5s: Siamo ad un attacco ai pilastri dell’ordinamento repubblicano”.

Secondo Bonelli, portavoce di Europa verde e deputato di Avs, “il governo sta violando consapevolmente la legge perché cerca scientemente di aprire uno scontro con la magistratura e poter continuare a dire ‘giudici comunisti'”. A dirsi sodisfatto per la sentenza è Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci nazionale: “Come previsto, i sette ostaggi del governo Meloni in Albania sono stati liberati. Cancellino questo protocollo e smettano di usare lo Stato come strumento di propaganda”.

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Raddoppia il bonus Natale, arriva il concordato bis

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La maggioranza punta di nuovo sugli aiuti ai redditi bassi e raddoppia la platea del bonus Natale, l’una tantum di 100 euro che ora arriverà, con le tredicesime, a oltre due milioni di lavoratori dipendenti con reddito fino ai 28mila euro. “Il governo ha sempre voluto ampliare i beneficiari”, ha spiegato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, “e quindi ha cercato le risorse per includere parte di chi era rimasto fuori all’inizio”, come le famiglie monogenitoriali. Per coprire questa o altre misure – Forza Italia insiste per mettere nuove risorse sull’Irpef – arriva anche il concordato bis: le partite Iva che hanno già presentato la dichiarazione dei redditi hanno ora fino al 12 dicembre per aderire al patto con il fisco.

E’ il Consiglio dei ministri a fare un passo avanti sulle misure che poi finiranno, per velocizzare l’iter, come emendamenti nel decreto fisco in discussione al Senato. Il raddoppio della platea del bonus Natale è contenuto nel decreto per il concordato bis che a breve andrà in Gazzetta Ufficiale, per rendere possibile l’erogazione dell’aiuto con la prossima tredicesima. Oltre al requisito del reddito, per fare richiesta attualmente bisogna avere sia il coniuge sia almeno un figlio fiscalmente a carico. Da domani raddoppieranno gli interessati, ma per conoscere bene il nuovo perimetro occorrerà aspettare il testo della norma.

Quello che è già chiaro, invece, è la riapertura dei termini del concordatopreventivo biennale, dal quale il governo spera di ottenere nuove risorse da aggiungere agli 1,3 miliardi di euro arrivati con la prima tranche. Le maglie del concordato si allargano anche su altri fronti, grazie a due emendamenti presentati dai relatori al decreto fiscale. Potranno aderire al patto con il fisco anche le società che hanno subito una modifica dell’assetto proprietario, ma che ha lasciato invariati o ha ridotto il numero di soci. Inoltre, si amplia la platea degli ammessi al ravvedimento. Il vicepremier Antonio Tajani insiste affinché le ulteriori risorse vadano al ceto medio, ovvero per abbassare l’Irpef dal 35% al 33% alla fascia di reddito fino a 50-60 mila euro. Sul fronte fisco il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, respinge al mittente le critiche alla flat tax: “A chi ci dice che questo governo avvantaggia i lavoratori autonomi e non i dipendenti, dico no. Noi ci muoviamo per le piccole partite Iva, e quindi la flat tax, e per i dipendenti fino a un certo ammontare.

Abbiamo fatto un intervento significativo per le famiglie con figli, perché senza figli non c’è futuro per questo Paese”, sottolinea, definendo anche per questo “incredibile” la conferma dello sciopero da parte dei sindacati. Il partito della premier Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, vorrebbe di più. Ad esempio, in un emendamento alla manovra chiede un contributo di 500 euro l’anno per ciascuno figlio a carico fino a 14 anni per il rimborso delle spese per servizi extrascolastici, dedicato a genitori con Isee sotto i 35mila euro. Un’altra modifica depositata chiede di escludere il personale militare e delle Forze di polizia di Stato dal blocco parziale del turnover nella Pa previsto dalla manovra, un tema su cui Giorgetti ha già dato aperture.

A sorpresa, spunta anche una mano tesa al sindaco di Roma, del Pd, Roberto Gualtieri: Fratelli d’Italia chiede di ripristinare i fondi per la Metro C di Roma, cancellando i tagli previsti in manovra e sui quali Gualtieri si è confrontato sia con la premier che con Giorgetti. Una frecciata arriva invece in direzione dell’ex premier Renzi finito nel mirino per le sue consulenze estere: FdI vuole vietare a ministri e parlamentari di ricevere maxi-compensi da attività svolte per soggetti con sede legale fuori dall’Italia. E mentre la maggioranza cerca di capire come sfoltire le oltre 4mila proposte emendative arrivate alla manovra e il Senato cerca di stringere i tempi sul dl fiscale, i tre leader delle opposizioni, Pd, M5s e Azione, illustreranno le loro modifiche domani, in tre distinte conferenze stampa.

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Fumata grigia su Fitto, è stallo sui vicepresidenti Ue

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Raffaele Fitto (foto Imagoeconomica in evidenza) ha evitato le trappole disseminate durante la sua audizione all’Eurocamera ma il suo incarico da vice presidente esecutivo della Commissione resta tutt’altro che blindato. E da qui in poi, buona parte del destino del candidato italiano non dipenderà da lui. Le tre forze della maggioranza Ursula, Ppe, Socialisti e Liberali, di fronte ad uno stallo spigoloso e carico di tensioni, si sono viste costrette a rinviare il voto, optando per una decisione contestuale per i sei vice presidenti in pectore. Il gioco dei veti reciproci, con Fitto e Teresa Ribera nella veste degli elementi maggiormente sotto attacco, hanno reso le audizioni quasi superflue.

La vera trattativa è altrove. E’ sul tavolo di Ursula von der Leyen, chiamata ad una corsa contro il tempo per riuscire ad avere una Commissione operativa il primo dicembre. Il Super Tuesday delle audizioni dei commissari – oltre a Fitto e Ribera, sono stati esaminati la popolare Henna Virkkunen, i liberali Kaja Kallas e Stephane Sejourné e la socialista Roxana Minzatu – è finito così in un nulla di fatto. Già di prima mattina era chiaro che Ppe, Socialisti e Renew non avrebbero votato né con il quorum dei 2/3 della commissione parlamentare competente né con la maggioranza semplice dei membri, prevista al terzo scrutinio. Non sarebbe convenuto a nessuno. Con la maggioranza semplice Fitto sarebbe passato grazie al sì di Ecr, dei Patrioti e perfino dell’ultradestra di Afd, ipotesi scomodissima per von der Leyen e ora anche per il leader del Ppe Manfred Weber, alle prese con le prossime elezioni in Germania. Dall’altra parte la socialista Ribera non aveva la certezza di passare neppure a maggioranza semplice.

E la sua audizione lo ha mostrato. “Spettava a lei evitare la tragedia di Valencia. Dovrebbe essere in tribunale”, hanno attaccato sia Vox che il Partido Popular. Nel Ppe gli spagnoli vorrebbero rinviare il sì a Ribera a dopo la sua audizione nel Parlamento iberico, il 20 novembre. Weber ha poi un altro nodo da sciogliere: con la vittoria di Donald Trump e la prossima caduta del governo tedesco, il gioco a maggioranze variabili inizialmente pensato con la sponda di Ecr ma anche dei Patrioti non è più praticabile, perché sarebbe cavalcato immediatamente dai Socialisti. Giovedì i capigruppo dovrebbero riaggiornarsi ed è possibile che von der Leyen veda i leader della sua maggioranza. Ma già nel corso delle audizioni la presidente della Commissione ha fatto tappa all’Eurocamera, incontrando la capogruppo socialista Iratxe Garcia Perez e quella liberale Valerie Hayer. E’ andata via poco dopo, senza ancora un punto di caduta concordato. Fiutando lo stallo si è mossa subito Fdi, assicurando che, con Fitto nella squadra, in Plenaria voterà la nuova Commissione von der Leyen, entrando di fatto in maggioranza. In serata poi, è stata Giorgia Meloni ad intervenire. Con un obiettivo: scalfire il no dei socialisti alla vice presidenza a Fitto guidato da tedeschi e francesi, in primis.

“Trovo inconcepibile che alcuni esponenti del Pd chiedano adesso di togliere a Fitto la vicepresidenza esecutiva. Vorrei sapere da Elly Schlein se questa è la sua posizione ufficiale: sottrarre all’Italia una posizione apicale per mettere l’interesse del suo partito davanti all’interesse collettivo”, ha attaccato la premier. Nel Pd, in realtà, hanno chiarito che il problema non è la competenza di Fitto ma il ruolo apicale affidato a un membro di Ecr. Buona parte degli eurodeputati dem ha giudicato positivamente l’audizione di Fitto. Il ministro, per oltre tre ore, ha preso le distanze da qualsiasi posizione sovranista. Ha ammesso che, a dispetto di quanto fatto quando era al Pe, oggi avrebbe votato sì al Next Generation Ue.

“Qui non rappresento un partito o l’Italia, ma l’Europa”, ha scandito Fitto rivendicando di aver sempre lavorato per un’Unione più forte. “La sua competenza gli è valsa l’apprezzamento di moltissimi presenti”, ha chiosato Meloni. Ma la partita non è chiusa. Al Pe hanno ipotizzato che il D-Day possa essere addirittura lunedì. Spetterà a von der Leyen trovare una soluzione. Secondo alcuni, con una dichiarazione scritta che blindi la maggioranza europeista. Secondo altri, rimescolando lievemente le deleghe. Nessuno, però, sa se potrà bastare.

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Grillo: il logo e i mandati, si delinea la rivoluzione M5s

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Un Consiglio nazionale lunghissimo, terminato a tarda notte, non è riuscito a definire i dettagli di un lavoro complesso e delicato. Sul tavolo del più alto organo pentastellato, i quesiti che saranno messi ai voti degli iscritti per rilanciare il M5s. Per la stesura definitiva bisognerà attendere ancora 48 ore. I vertici sono impegnati sulle limature, ma la sostanza c’è. L’Assemblea costituente di fine novembre voterà, sul ruolo del garante, sul limite dei mandati e sulle alleanze. Così come sul simbolo e sul nome del Movimento che verrà. Nessun referendum, invece, sulla leadership del presidente Giuseppe Conte (Conte e Grillo nella foto in evidenza di Imagoeconomica). Mentre prendono forma i contorni delle operazioni di voto.

Consultazione in rete aperta già dal 21 novembre, due giorni prima dell’inizio di ‘Nova’, l’evento culmine della Costituente fissato al Palazzo dei Congressi dal 23 al 24. Voto online fino al primo pomeriggio di domenica, poi la comunicazione dell’esito in chiusura della kermesse. Intanto, sono ore di intenso lavoro e febbrile attesa nelle fila del Movimento. Il lavoro sui quesiti non è tra i più facili. E le lunghe ore di discussione al Consiglio nazionale lo dimostrano. La pubblicazione era attesa per oggi, ma si dovrà ancora aspettare.

“La stesura segue pedissequamente il report di Avventura Urbana che tira le fila del processo costituente”, si tiene a precisare da Campo Marzio. E sono tanti, forse troppi, gli spunti emersi nei gruppi di lavoro e sintetizzati nel report. La sfida è quella di condensare una mole di differenti proposte in quesiti chiari ed equilibrati. La tendenza, emersa nel Consiglio, sarebbe quella di una modalità ibrida tra quesiti referendari e quesiti con opzione di scelta. E questo vale per la modifica del nome e del simbolo, per l’intricata revisione del limite dei due mandati e per il nodo delle alleanze. L’esempio più discusso in Transatlantico, però, è quello relativo al ruolo di Beppe Grillo.

A una domanda secca, come potrebbe essere “vuoi eliminare il ruolo del garante?”, l’iscritto si troverebbe di fronte a un bivio: “sì” o “no”. Nel caso di una risposta negativa, si aprirebbe una sorta di menù a tendina con altre proposte tra cui scegliere. Sempre tra quelle emerse durante il confronto deliberativo: e si va dal convertire la figura in un ruolo a tempo determinato al trasformarla in una carica onorifica. Al di là della procedura, una cosa è certa: i poteri di Beppe Grillo usciranno ridimensionati dalla consultazione, se non definitivamente cancellati. Non a caso, ora, i fari sono tutti puntati sulle possibili reazioni del garante. A cominciare da un suo possibile intervento infuocato in Assemblea, dopo mesi di guerra aperta con il presidente. Nessuno lo esclude, molti si aspettano la sorpresa. E c’è chi, come Pasquale Tridico, auspica un viaggio di Grillo a Roma per la Costituente.

Ma non finisce qui. Tra i corridoi della Camera, comincia a consolidarsi l’ipotesi che l’Assemblea rischi di non chiudere il nodo Grillo. Molti sottolineano come il garante possa sempre richiedere la ripetizione di alcune votazioni. E, nel caso di un secondo giro di consultazioni, ipotesi già di per sé dirompente, il raggiungimento del quorum della metà più uno degli iscritti sarebbe uno scoglio non da poco. Sul quale Grillo potrebbe giocarsi la carta dell’invito all’astensione. I timori ci sono. Dopo un Consiglio in cui non sono mancati momenti di acceso confronto, con alcuni consiglieri equidistanti tra Conte e Grillo e qualcuno critico sulla strategia, il presidente si prepara a serrare le fila. Riunisce i gruppi, anche per frenare qualche malumore tra parlamentari che si sono sentiti esclusi dal processo Costituente. Ed è pronto a parlare alla sua comunità, con l’intenzione di lanciare due ulteriori momenti di dibattito online prima dell’Assemblea. Un modo per mobilitare la base, ma anche il consenso. Intanto, sono oltre 2000 le registrazioni arrivate per ‘Nova’.

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