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Economia

Fisco: con Imu parte corsa pagamenti. Irpef al 30/6

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Ancora pochi giorni a disposizione per pagare l’Imu. Mentre per i versamenti Irpef, Ires, Irap e Flat Tax si puo’ aspettare ancora qualche settimana. Da meta’ giugno parte la corsa ai pagamenti fiscali sui redditi prodotti nel 2021. Se non si riesce a pagare in tempo, per Irpef, Irpeg e Ires resta la possibilita’ di mettersi in regola dopo ferragosto con una leggera maggiorazione. Cominciamo dall’Imu, che – secondo le stime della Uil portera’ alle casse di enti territoriali e Stato (al quale va l’Imu sui capannoni) 19,6 miliardi di euro. Entro il 16 giugno si versa l’acconto sul 2022 mentre il saldo e gli eventuali conguagli (se ad esempio il Comune ha modificato le aliquote) dovranno essere versati entro il 16 dicembre. La tassa non grava sulla maggioranza delle prime case ma devono pagarla tutte le seconde case, affittate o a disposizione. Gli immobili, i terreni o aree edificabili e i terreni agricoli. Nel 2021 l’Imu ha fruttato ai Comuni 17,772 miliardi con un aumento di 824 milioni di euro, pari a +4,9% rispetto al 2020. A causa delle chiusure imposte dal Covid, anche quest’anno non pagheranno l’Imu gli immobili D/3 cioe’ destinati a spettacoli cinematografici, teatri e sale per concerti. Mentre da quest’anno dovra’ pagare l’Imu sulla prima casa anche il coniuge che vive nella casa di famiglia appartenente all’altro coniuge, anche se le due case sono in due comuni diversi. Pagano sempre l’Imu anche se prime case le abitazioni cosiddette di lusso (A/1), ville (A/8), Castelli o Palazzi Storici (A/9) ai quali spettera’ una detrazione di 200 euro. Sempre il 16 giugno, i contribuenti Iva devono versare la quarta rata dell’Iva relativa al 2021 risultante dalla dichiarazione annuale, senza applicazione della maggiorazione a titolo di interesse corrispettivo. Mentre i contribuenti Iva mensili devono versare l’imposta dovuta per il mese di maggio. Secondo i dati del Mef, nel 2021 le entrate erariali da Iva sono ammontate a 147,981 miliardi di euro Un’altra data impegnativa sara’ quella del 30 giugno entro la quale si dovra’ versare il saldo e il primo acconto dell’IRPEF, delle addizionali regionali e comunali, della cedolare secca sugli affitti. Stessa data per pagare il saldo 2021 e l’acconto 2022 per l’IRAP e l’IRES. Anche i soggetti Iva che hanno potuto godere del regime forfettario o di vantaggio (la cosidetta flat tax) dovranno versare il saldo del 2021 e l’acconto (40%) sul 2022. Sempre entro il 30 giugno i contribuenti Iva potranno versare il saldo Iva del 2021 con una maggiorazione dello 0,40%. Nel 2021 il gettito arrivato allo Stato dalI’IRPEF e’ stato di 198,203 miliardi di euro, quello proveniente dall’IRAP (Imposta Regionale sulle attivita’ Produttive) e’ stato di 23,959 miliardi, quello proveniente dall’IRES (Imposta sul Reddito delle Societa’) e’ stato di 31,864 miliardi Infine il 30 giugno e’ l’ultimo giorno per la richiesta per l’esonero del pagamento del canone Rai da parte di chi non ha televisori in casa.

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Orsini: nucleare scelta obbligata se Italia vuol competere

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“Con i nuovi reattori e le nuove tecnologie, rispetto alla scelta fatta con il referendum di 40 anni fa, noi, senza se e senza ma diciamo che l’Italia paga l’energia il 40% in più dei propri competitor, e questo è un elemento che incide negativamente sulla competitività. Il nucleare mi pare una scelta obbligata se vogliamo tornare competitivi nel medio lungo periodo”. Lo ha detto il presidente di Confindustria Emanuele Orsini, intervistato da Myrta Merlino nel corso dell’assemblea generale di Confindustria Veneto Est, a Padova. Secondo Orsini, per tornare a produrre energia dal nucelre in Italia “nella migliore delle ipotesi servirà un decennio. Occorre però cambiare la narrazione sul nucleare e guardare con favore alla Newco fatta da Ansaldo, Leonardo ed Enel: vuol dire che l’Italia c’è”.

“Le industrie italiane ed europee sono quelle che emettono meno a livello mondiale – ha detto Orsini – in rapporto al Pil che produciamo che è il 15% secondo i dati Onu contribuiamo alle emissioni per un valore che secondo le stime è molto più basso, tra il 3 e il 5% delle emissioni mondiali. Ed allora mi pare difficile sostenere che dobbiamo sacrificare un intero comparto, importantissimo per l’economia europea, com’è quello dell’automotive per ridurre di un ulteriore 0,5%”.

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Economia della Ue con il fiato corto, euro ai minimi

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L’economia europea ha il fiato corto e a risentirne è l’euro che scivola ai minimi da due anni rispetto al dollaro di fronte alla doccia fredda degli indici Pmi, una misura del grado di fiducia dei responsabili agli acquisti delle imprese. Il biglietto verde, da parte sua, continua ad avanzare, e non solo rispetto alla moneta unica, sull’onda della vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali. E lo stesso fa il Bitcoin, che prosegue il rally e supera i 99.300 dollari, ormai diretto verso la soglia dei 100.000 grazie alla sostegno del nuovo presidente americano alle criptovalute e all’idea di un regolamentazione più benevola. Il pmi composito dell’eurozona, finito a novembre a 48,1 (contro le attese che lo davano a 50), complice il calo inaspettato nei servizi più ancora che nell’industria manifatturiera, ha frenato le Borse del Vecchio Continente nella prima parte della giornata.

Non ha aiutato la revisione al ribasso del Pil della Germania, cresciuto nel terzo trimestre solo dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti. A far scattare le vendite sull’azionario hanno contribuito le scommesse del mercato su un taglio deciso dei tassi, di 50 punti base, alla prossima riunione Bce per dare ossigeno alle economie della zona euro in una scenario ormai di stagnazione: bassa crescita e inflazione non ancora sotto controllo. La prospettiva di tassi di interesse più bassi ha avuto l’effetto di far calare i rendimenti dei titoli di Stato a partire dal Bund tedesco, sceso al 2,23%. Quello dell’Oat francese è diminuito al 3% e del Btp italiano al 3,5%. Lo spread si è allargato intanto sopra i 126 punti base.

Le Borse europee hanno invece rialzato la testa nell’ultima parte della seduta sulla scia di Wall Street, spinto dal Pmi composito negli Stati Uniti, arrivato a 55,3 meglio delle stime a conferma di un’economia in crescita. A fine giornata il maggior rialzo lo ha messo a segno Londra (+1,38%) indifferente agli indici Pmi del Regno Unito, anch’essi in flessione. Ha fatto tutto sommato bene anche la Borsa di Francoforte (+0,92%) malgrado i brutti dati Pmi e il Pil deludente. Parigi ha registrato un guadagno finale dello 0,52% malgrado anche nella seconda maggiore economia dell’eurozona gli indici Pmi siano stati sotto le attese. Meglio intonata Piazza Affari (+0,6%) malgrado abbiamo perso terreno le banche, in sintonia con i big del credito spagnoli Santander e Bbva penalizzati dalla decisione del governo di Madrid di aumentare la tassa sugli extraprofitti. Con l’effetto di far segnare alla Borsa del Paese solo un timido +0,39%.

L’euro in serata si è confermato debole col cambio sul dollaro a 1,042, ai minimi da novembre 2022. Che la Bce si prepari a nuovi tagli dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, di fronte a un target d’inflazione al 2% che dovrebbe essere raggiunto a metà 2025, lo ha detto anche il presidente della Bundesbank Joachim Nagel, spiegando che i dati Pmi di oggi confermano lo scenario di stagnazione dell’economia tedesca. Nel complesso, visti i Pmi, difficilmente la situazione avrebbe potuto rivelarsi peggiore, è l’opinione condivisa dagli analisti secondo cui il settore manifatturiero dell’eurozona sta affondando sempre più nella recessione. Dopo due mesi in lieve crescita anche il settore dei servizi inizia poi a essere in difficoltà. E non c’è troppo da stupirsi considerato la confusione politica delle maggiori economie dell’area: il governo francese si muove su un terreno instabile e la Germania è alle prese con le elezioni anticipate. A tutto questo si aggiunge Donald Trump e la minaccia concreta di nuovi dazi sulle importazioni. Alle aziende europee non resta che navigare a vista.

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Moody’s, Pil Italia sotto 1%, impegnativa spesa Pnrr

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La crescita dell’Italia si mantiene moderata e quest’anno sarà sotto l’1%, con un deficit in calo al 4,6% e un debito che invece sale. L’analisi di Moody’s (nella foto Imagoeconomica in evidenza) mostra come i fondi del Pnrr continuano a sostenere le prospettive dell’Italia. Ma per il Belpaese sarà “impegnativo” spendere tutte le risorse disponibili dal programma entro il 2026 anche perché la spesa è stata finora inferiore al previsto. “Tassi di interessi elevati e un potenziale di crescita di circa lo 0,8% richiederanno un ampio aggiustamento fiscale per raggiungere e mantenere avanzi primari in grado di stabilizzare il debito”, afferma Moody’s annunciando il completamente della revisione del rating dell’Italia che, precisa, “non è un’azione sul rating e non è un’indicazione” sulle future decisioni sul rating. L’Italia ha al momento un rating Baa3 con outlook stabile.

“In un contesto di tassi di interesse più elevati, l’aumento del potenziale di crescita e gli avanzi primari saranno fondamentali per evitare un significativo aumento del debito”, aggiunge Moody’s spiegando come la riduzione del deficit – al 3,5% nel 2025 e al 3% nel 2026 – “non sarà sufficiente” per un calo del rapporto debito-pil in seguito agli effetti del Superbonus. L’agenzia prevede che il debito italiano salirà al 139,7% del pil nel 2024 dal 134,8% del 2023 e continuerà a salire fino al 2027 a oltre il 143%. I risultati ottenuti dall’Italia nell’attuazione del Pnrr sono “contrastanti”: l’Italia è stato il primo paese dell’Ue a chiedere le ultime tranche di finaziamento e “prevediamo che la settima tranche sarà richiesta entro la fine del 2024. Tuttavia la spesa di queste risorse è stata inferiore al previsto e la spesa totale dei fondi disponibili entro la fine del 2026 sarà impegnativa”, mette in evidenza ancora Moody’s. L’agenzia potrebbe alzare il rating nel caso di fossero prove di una crescita sostanzialmente più forte: “un miglioramento del potenziale di crescita contribuirebbe a mettere il debito su una chiara traiettoria discendente”. Il rating invece potrebbe essere rivisto al ribasso se “anticipassimo un significativo indebolimento della forza economica e di bilancio dell’Italia”.

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