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Cronache

Dirigevano traffico di droga dal carcere, nove arresti

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Il capo del narcotraffico comandava dal carcere. Si scambiava i pizzini con la fidanzata e la sorella durante i colloqui. E poi usava i telefonini che le donne, in qualche modo, riuscivano a passargli di nascosto. L’indagine dei carabinieri del Ros e’ stata lunga e laboriosa ma, alla fine, tutto il gruppo e’ caduto nella rete: nove arresti e sequestri conservativi di beni per 700 mila euro hanno caratterizzato un blitz scattato stamani all’alba nelle province di Torino, Ancona, Cagliari, Nuoro, Savona e Ragusa. Il boss era Giuseppe Nerbo junior, vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, considerato in buoni rapporti con il clan ‘ndranghetista piemontese degli Agresta ma capace di ritagliarsi la propria fetta di autonomia nel ricco business della droga. Lo avevano arrestato nel 2017 a Barcellona, in Spagna, dove si era nascosto insieme ai suoi fedelissimi per sfuggire alla cattura nelle indagini sull’omicidio di un orefice, Patrizio Piatti, ammazzato a Monteu Roero (Cuneo) nel 2015 in quello che si rivelo’ essere un tentativo di rapina andato male. “Junior”, una volta estradato, venne rinchiuso nel carcere di Aosta. Ma le sbarre della cella non gli impedirono di importare stupefacente dall’estero. Gia’ alla fine del 2017 gli investigatori riuscirono a bloccare un paio di grossi carichi: uno, di 153 chili di hashish, era dentro alcuni frigoriferi (dentro i quali i trafficanti avevano piazzato dei gps per monitorarne il tragitto) in partenza da Genova per la Sardegna. Nel 2018 “Junior” venne scoperto e trasferito a Biella. A quel punto, secondo gli inquirenti, furono la sorella Pamela e la fidanzata Fabiola a prendere in pugno la situazione, gestendo una banda cosi’ affiatata che i suoi componenti rifiutavano le offerte di altre gang. Comunicavano con telefonini Pgp (difficilmente intercettabili) e tra di loro, anziche’ per nome, si indicavano con un numero. Anna Maria Loreto, procuratore capo a Torino, mette l’accento su “un fenomeno preoccupante”, quello della circolazione dei telefonini all’interno delle carceri, rilanciando l’allarme contenuto in una circolare interna del 3 novembre 2020 della Procura nazionale antimafia. La crescita e’ esponenziale: nel 2018 la polizia penitenziaria ne sequestro’ in tutta Italia 394, che salirono a 1.304 nel 2019 e a 1.761 nei primi nove mesi del 2020. “E’ un sintomo del potere mafioso – dice il magistrato – e uno svilimento per tutti coloro che combattono contro il crimine organizzato. Eppure fino a poco tempo fa non era neppure un reato”.

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Enti formazione come bancomat, arrestato ex senatore Pd

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Enti di formazione usati come stipendifici per remunerare avversari politici da portare dalla propria parte o divenuti bancomat a cui attingere per spese proprie; un uso spregiudicato del soldi europei incassati in violazione di ogni regola; progetti sociali finanziati e mai realizzati: c’è il mondo della formazione professionale siciliana, non nuovo a scandali e inchieste, nell’ultima indagine della Procura di Marsala e di quella europea che oggi ha portato all’emissione di 14 misure cautelari. Una operazione nata da accertamenti su tre enti marsalesi che facevano capo all’ex senatore del Pd Antonio Papania, già finito sotto inchiesta per voto di scambio a settembre scorso e da allora detenuto. Al politico, che nel 2020 ha fondato un suo movimento dal nome pretenzioso di Valore, Impegno e Azione, questa mattina la Guardia di Finanza ha notificato in carcere una misura cautelare di arresti domiciliari.

Per gli inquirenti, con la complicità di esponenti del suo movimento e politici locali, aveva costituito una sorte di lobby di potere costantemente impegnata a esaudire desideri privati e cortesie, sfruttate poi per chiedere voti e controprestazioni varie in occasione di tornate elettorali. Per far cambiare casacca agli avversari e cooptarli al Movimento l’ex senatore prometteva o assicurava loro e a loro familiari incarichi negli enti di formazione o posti di lavoro.

“La pratica del trasformismo politico – scrivono i magistrati – sarebbe lecita, atteso che l’eletto non deve rendere conto al partito che lo ha candidato o all’elettore che lo ha votato, ma non, come emerge dalle indagini, quando detto cambio di casacca sottenda illecite promesse o percezioni di utilità”. Figli, nipoti e parenti di alcuni consiglieri comunali avrebbero beneficiato dei favori dell’ex senatore e dei suoi, alcuni riuscendo ad avere incarichi senza possederne i requisiti. Ma a sanare la situazione, dicono gli investigatori, ci avrebbe pensato l’organizzazione criminale pronta a preparare falsi curricula.

L’inchiesta ha svelato anche un uso improprio dei fondi europei incassati dai tre enti di formazione – Cesifop (Centro Siciliano per la formazione professionale), Ires (Istituto di studi e ricerche economiche e sociali) e Associazione Ta i- che, per problemi debitori gravissimi non avrebbero neppure potuto essere accreditati per i finanziamenti Ue e tantomeno avrebbero potuto ottenere dal Programma Operativo Fondo Sociale Europeo 2014/2020 oltre 8,7 milioni di euro da destinare allo svolgimento di corsi di formazione e di progetti in ambito sociale molti dei quali mai tenuti. Del fiume di denaro pubblico su cui la lobby aveva messo le mani 800mila euro erano stati già incassati e impiegati per spese voluttuarie personali o connesse a iniziative di sostegno del movimento di Papania.

Ulteriori 2,5 milioni sarebbero stati a breve erogati. Le Fiamme Gialle hanno proceduto al sequestro di circa un milione, pari alle somme malversate o riciclate e al sequestro preventivo dei circa 8 milioni di euro residui già finanziati. Gli indagati al momento sono 24 e rispondono, a vario titolo, di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, corruzione, malversazione e riciclaggio. Nell’inchiesta sono coinvolti anche sei esponenti politici che rivestono o hanno rivestito cariche presso i Comuni di Marsala, Buseto Palizzolo, Calatafimi-Segesta, Castellammare del Golfo ed Erice.

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Ladro ucciso a forbiciate per un pugno di Gratta e vinci

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Nelle sue intenzioni doveva un ‘colpo facile’: l’arrivo in sella a uno scooter rubato, il buio delle 5 del mattino, la serranda divelta con un cric o un piede di porco, il blitz nel bar per arraffare quanto c’era in cassa e delle risme di Gratta e vinci, ben visibili sul bancone. E invece per Eros Di Ronza, 37enne sottoposto all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria con vari precedenti penali per resistenza e rapina, è andata nel peggiore dei modi: ucciso a forbiciate Tre figli e una vita ai margini da piccolo pregiudicato, Di Ronza è morto davanti a un bar di viale Giovanni da Cermenate, alla periferia sud di Milano, per mano di due cittadini di origine cinese, un trentenne e un 48enne, nipote e marito della titolare del bar, che abitano nello stesso stabile del locale.

Sono stati svegliati dall’allarme e sono scesi per strada, con delle forbici in mano, per affrontare il ladro. Anzi i ladri. Di Ronza era infatti con un complice che faceva da ‘palo’, un 48enne pregiudicato anche lui, che è stato trovato nel pomeriggio dagli investigatori nella sua casa di via Tibaldi e denunciato per tentato furto. L’uomo era riuscito a divincolarsi dai due cinesi che erano scesi di casa ed era fuggito. Non è andata così invece per il 37enne, che è stato colpito da una forbiciata al torace, la prima volta mentre ancora era sotto la serranda divelta. Poi è’ stato inseguito per alcuni metri e colpito almeno 20 volte con le forbici fino a stramazzare a terra, agonizzante.

Quando sono arrivati i soccorsi del 118, chiamati dal più giovane dei due cinesi, per l’uomo non c’era più nulla da fare. Accanto al corpo una striscia di sangue lunga alcuni metri e una risma di gratta e vinci insanguinati. Di Ronza è stato colpito anche quando era a terra, finito con le ultime forbiciate. E per questo non è stato possibile ipotizzare alcuna ipotesi di legittima difesa: quello del 37enne, stando alle prime indagini, è un omicidio volontario. Gli agenti dell’Ufficio prevenzione generale della Polizia non hanno impiegato molto per capire ciò che era successo e la stessa telefonata del 30enne al 118 era una confessione. Confermata dalle immagini delle telecamere che hanno ripreso le fasi del dramma, con gli abitanti della zona svegliati dalle urla della vittima e dei suoi aggressori e dalle sirene di ambulanze e Polizia. Davanti al pm di turno Maura Ripamonti che voleva avere la loro versione dei fatti, i due uomini sono rimasti in silenzio davanti al pm. Il magistrato chiederà domani la convalida del loro arresto e la custodia cautelare in carcere. La giustizia però è già stata fatta sui social, in pochi minuti di processo sommario e senza appello: ma al morto.

“La prossima volta eviti di rubare e vai a lavorare delinquente…Non ci mancherai”, “A vedere il profilo e il tipo di persona, era inevitabile che facevi sta fine prima o poi, ben ti sta…, “Io sto con il cinese”, “un delinquente in meno”. C’è anche chi prova a mostrare un po’ di umanità: “Gioire per la morte di un ragazzo è qualcosa di raccapricciante. Si, ha rubato, si avrà avuto problemi con la giustizia ma è stato ucciso e fino a prova contraria non era armato, stava cercando di scappare. Qui siamo tutti bravi a giudicare, dietro la tastiera! Che tristezza, profonda!”.

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L’inchiesta sugli ultrà, fermato il ‘vice’ di Luca Lucci

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È arrivata ad individuare anche i presunti responsabili di un tentato omicidio del 2019, avvenuto in pieno centro a Milano, l’inchiesta della Procura che più di due settimane fa, con un maxi blitz di polizia e guardia di finanza, ha portato a 19 arresti tra vertici e sodali ultrà milanisti e interisti. Indagine che con un nuovo fermo, eseguito dalla squadra mobile, ha portato alla luce una sfilza di aggressioni degli ultimi anni nell’ambito di “uno scontro per il controllo della Curva Sud” del Milan. Ed è proprio in questo contesto, e nella volontà di “supremazia” conquistata dal 2016 da Luca Lucci, leader degli ultras rossoneri, che sarebbe maturato l’agguato di via Cadore, zona Porta Romana, del 12 aprile di cinque anni fa. Enzo Anghinelli, 51 anni, pure lui ultrà della Sud e coinvolto in procedimenti di droga, venne avvicinato da uno scooter quando era fermo in auto al semaforo. A bordo due persone che gli spararono contro più colpi, almeno due lo presero in faccia. Si salvò per miracolo, dopo essere finito in coma e dopo più interventi chirurgici.

Come risulta dal decreto di fermo firmato dai pm Paolo Storari, Sara Ombra e Leonardo Lesti, che hanno indagato anche su questo “cold case”, uno dei due che avrebbero avuto l’incarico di ammazzare Anghinelli sarebbe stato Daniele Cataldo, 52 anni, da stamani in carcere (sarà interrogato dal gip Domenico Santoro domani), ossia il “vice” di Lucci “con cui decide – scrivono gli inquirenti – le strategia delittuose”. Indagato per concorso, sospettato di essere il mandante, è proprio Lucci, già in carcere per l’inchiesta “doppia curva”, da cui sono emersi anche i suoi rapporti stretti di amicizia con Fedez (non indagato).

Quel tentato omicidio, per i pm, rientrerebbe in una serie di “atti violenti” riconducibili alla Sud guidata da Lucci. Quest’ultimo, Cataldo e altre 8 persone, tra cui Christian Rosiello (noto pure come bodyguard del rapper di Rozzano) sono accusati di associazione per delinquere per un lungo elenco di “azioni punitive”. E il movente del tentativo di far fuori Anghinelli starebbe in quei contrasti – una “guerra” – con un altro gruppo di ultrà milanisti, i Black Devil, capeggiati da Domenico Vottari, a cui era legato Anghinelli. Il “progetto finale”, scrivono i pm, e a cui reagì il capo della Sud chiedendo anche l’aiuto della ‘ndrangheta dei Barbaro-Papalia, “poteva essere quello di spodestare Lucci” e “proporre in Curva nuovi gruppi egemoni”, i Black Devil e i Commandos Tigre.

Tra le prove a carico di Cataldo, oltre a immagini di videosorveglianza e altri approfondimenti tecnici, ci sono le confidenze “confessorie” fatte alla moglie, in cui le spiegava che Anghinelli, sentito dagli investigatori, “mi ha accusato”, così diceva intercettato, per “quello che abbiamo fatto”. Parole alle quali lei reagiva dicendo che prima o poi “vi farà arrestare tutti quanti”. Anghinelli, tra il 2018 e il 2019, così come il suo avvocato (c’era “astio” tra lui, che apparteneva ai Commandos, e Lucci), fu vittima più volte di pestaggi e violenze e pure lo scorso luglio, dopo aver provato ad entrare “in pace” nel negozio di tatuaggi di Lucci, venne preso a “pugni alla testa”. Come ha messo a verbale, gli dissero “sei un morto che cammina”. Agli atti, poi, la fuga di Giancarlo Lombardi, detto “Sandokan” ed ex capo storico della Sud, facendosi “scudo” coi buttafuori in una discoteca, lo scorso gennaio.

A Cataldo che lo inseguiva, secondo i pm, sarebbe caduta una pistola (“in mezzo le gambe, mi è partito è andato finire sotto il sedile”, diceva intercettato). Intanto, è stato sentito come teste nell’inchiesta principale anche il centrocampista dell’Inter Hakan Calhanoglu. Ha confermato che, nonostante le raccomandazioni della dirigenza di evitare contatti con gli ultrà, avrebbe avuto incontri, ma mai a cena, con Marco Ferdico e Antonio Bellocco (‘ndranghetista ucciso un mese e mezzo fa) anche per ricambiare attestati di solidarietà ricevuti all’epoca del terremoto nel suo Paese del 2023.

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