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Economia

Crack di Evergrande, si teme una Lehman Brothers cinese

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Il presidente Xi Jinping sta affrontando il ‘momento Lehman Brothers’ della Cina, il cui sistema finanziario è a un passo dalla crisi conclamata a seguito del crack Evergrande, salvo che Pechino non intervenga e intraprenda azioni radicali. Le difficoltà di Zhongrong International Trust, che vende prodotti finanziari esoterici, preoccupano gli investitori perché si vanno a sommare a quelle gravi dei colossi immobiliari Country Garden ed Evergrande (numeri uno e due del settore, oberati da 500 miliardi di dollari aggregati di debito), facendo temere per la tenuta o per un possibile shock dell’economia del Dragone, già in marcia a passo ridotto. Tra lo yuan ai minimi degli ultimi 16 anni sul dollaro, la brusca contrazione di export e domanda interna, e investimenti esteri diretti in frenata (-4% nei primi sette mesi), la Cina rischia di cadere nella classica trappola della liquidità.

Cai Fang, stimato economista della Banca centrale cinese (Pboc), ha lanciato l’allarme e ha sollecitato misure draconiane come una maxi iniezione da 550 miliardi di dollari nell’economia per fermare una psicologia deflazionistica e le famiglie che, di riflesso, ridimensionano i loro piani. “L’imperativo più urgente ora è stimolare la spesa dei consumatori. È necessario usare tutti i canali ragionevoli, legali ed economicamente fattibili per mettere soldi nelle tasche delle persone”, ha scritto di recente con coraggio Cai su China Finance 40, il forum di opinioni dell’elite mandarina. La convinzione è che l’attuale fase si avvicini al momento decisivo affrontato dal Tesoro americano nel 2008 dopo il crollo di Lehman Brothers, o dalla zona euro nel 2012 quando a rischiare furono Italia e Spagna. I cinesi hanno sopportato i lockdown anti-Covid infiniti per tre anni con meno supporto pubblico: il danno ha minato le finanze di famiglie e di milioni di piccole imprese familiari.

Una grossa fetta della popolazione ha tagliato le spese per ricostruire i risparmi evaporati, contribuendo a far svanire rapidamente il rimbalzo atteso dopo l’eliminazione della politica della ‘tolleranza zero’ al Covid, a fine 2022. Gli ultimi eventi relativi al mercato immobiliare cinese non hanno prodotto finora effetti contagiosi sui mercati finanziari globali, ma gli stress a livello domestico sono diventati evidenti. La richiesta di bancarotta di Evergrande negli Usa (ex capitolo 15 a tutela di oneri offshore per 31,7 miliardi di dollari tra bond, garanzie e obblighi di riacquisto) ha riportato le tensioni nel settore: il gruppo di Shenzhen ha precisato che l’istanza “è una normale procedura di ristrutturazione del debito offshore e non comporta istanza di fallimento”. Ma la sostanza è che la stessa sorte potrebbe toccare molto presto a Country Garden che ha cominciato a non onorare alcuni pagamenti di bond: la Borsa di Hong Kong, non a caso, ha deciso la rimozione del titolo dall’indice Hang Seng a partire dal 4 settembre a favore di Sinopharm Group, nome ricorrente durante la crisi del Covid-19.

Lo stesso listino dell’ex colonia britannica, il più colpito dalle ultime turbolenze, ha ceduto oggi un altro 2,05%, entrando nella fase ribassista (‘bear market’, cioè ‘mercato dell’orso’) a causa di una perdita superiore al 20% dai massimi di gennaio 2023. In rosso sono finite le Borse su scala globale, dall’Europa agli Usa. “La Cina affronta il rischio che due grandi problemi economico-finanziari si uniscano e che si alimentino e siano amplificati dall’instabilità finanziaria”, ha notato Mohamed El-Erian, guru degli investimenti di Wal Street. In primo luogo, “una crescita interna insufficiente a fronte di venti contrari esterni”, in secondo luogo “sacche di indebitamento e leva finanziaria di lunga data” che finiscono per colpire a livello di sistema crescita, fiducia e disponibilità di capitale. Su tutto questo, ha scritto su X (l’ex Twitter) El-Erian, “le risposte politiche delle autorità devono ancora affrontare entrambi i problemi in modo determinato”. La ragione di fondo resta la soluzione della grande bolla del debito, fattore che guardando al passato è stranamente simile alle turbolenze di oltre un secolo fa della tarda dinastia Qing, alla base della sua caduta.

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Economia

Orsini: nucleare scelta obbligata se Italia vuol competere

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“Con i nuovi reattori e le nuove tecnologie, rispetto alla scelta fatta con il referendum di 40 anni fa, noi, senza se e senza ma diciamo che l’Italia paga l’energia il 40% in più dei propri competitor, e questo è un elemento che incide negativamente sulla competitività. Il nucleare mi pare una scelta obbligata se vogliamo tornare competitivi nel medio lungo periodo”. Lo ha detto il presidente di Confindustria Emanuele Orsini, intervistato da Myrta Merlino nel corso dell’assemblea generale di Confindustria Veneto Est, a Padova. Secondo Orsini, per tornare a produrre energia dal nucelre in Italia “nella migliore delle ipotesi servirà un decennio. Occorre però cambiare la narrazione sul nucleare e guardare con favore alla Newco fatta da Ansaldo, Leonardo ed Enel: vuol dire che l’Italia c’è”.

“Le industrie italiane ed europee sono quelle che emettono meno a livello mondiale – ha detto Orsini – in rapporto al Pil che produciamo che è il 15% secondo i dati Onu contribuiamo alle emissioni per un valore che secondo le stime è molto più basso, tra il 3 e il 5% delle emissioni mondiali. Ed allora mi pare difficile sostenere che dobbiamo sacrificare un intero comparto, importantissimo per l’economia europea, com’è quello dell’automotive per ridurre di un ulteriore 0,5%”.

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Economia della Ue con il fiato corto, euro ai minimi

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L’economia europea ha il fiato corto e a risentirne è l’euro che scivola ai minimi da due anni rispetto al dollaro di fronte alla doccia fredda degli indici Pmi, una misura del grado di fiducia dei responsabili agli acquisti delle imprese. Il biglietto verde, da parte sua, continua ad avanzare, e non solo rispetto alla moneta unica, sull’onda della vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali. E lo stesso fa il Bitcoin, che prosegue il rally e supera i 99.300 dollari, ormai diretto verso la soglia dei 100.000 grazie alla sostegno del nuovo presidente americano alle criptovalute e all’idea di un regolamentazione più benevola. Il pmi composito dell’eurozona, finito a novembre a 48,1 (contro le attese che lo davano a 50), complice il calo inaspettato nei servizi più ancora che nell’industria manifatturiera, ha frenato le Borse del Vecchio Continente nella prima parte della giornata.

Non ha aiutato la revisione al ribasso del Pil della Germania, cresciuto nel terzo trimestre solo dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti. A far scattare le vendite sull’azionario hanno contribuito le scommesse del mercato su un taglio deciso dei tassi, di 50 punti base, alla prossima riunione Bce per dare ossigeno alle economie della zona euro in una scenario ormai di stagnazione: bassa crescita e inflazione non ancora sotto controllo. La prospettiva di tassi di interesse più bassi ha avuto l’effetto di far calare i rendimenti dei titoli di Stato a partire dal Bund tedesco, sceso al 2,23%. Quello dell’Oat francese è diminuito al 3% e del Btp italiano al 3,5%. Lo spread si è allargato intanto sopra i 126 punti base.

Le Borse europee hanno invece rialzato la testa nell’ultima parte della seduta sulla scia di Wall Street, spinto dal Pmi composito negli Stati Uniti, arrivato a 55,3 meglio delle stime a conferma di un’economia in crescita. A fine giornata il maggior rialzo lo ha messo a segno Londra (+1,38%) indifferente agli indici Pmi del Regno Unito, anch’essi in flessione. Ha fatto tutto sommato bene anche la Borsa di Francoforte (+0,92%) malgrado i brutti dati Pmi e il Pil deludente. Parigi ha registrato un guadagno finale dello 0,52% malgrado anche nella seconda maggiore economia dell’eurozona gli indici Pmi siano stati sotto le attese. Meglio intonata Piazza Affari (+0,6%) malgrado abbiamo perso terreno le banche, in sintonia con i big del credito spagnoli Santander e Bbva penalizzati dalla decisione del governo di Madrid di aumentare la tassa sugli extraprofitti. Con l’effetto di far segnare alla Borsa del Paese solo un timido +0,39%.

L’euro in serata si è confermato debole col cambio sul dollaro a 1,042, ai minimi da novembre 2022. Che la Bce si prepari a nuovi tagli dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, di fronte a un target d’inflazione al 2% che dovrebbe essere raggiunto a metà 2025, lo ha detto anche il presidente della Bundesbank Joachim Nagel, spiegando che i dati Pmi di oggi confermano lo scenario di stagnazione dell’economia tedesca. Nel complesso, visti i Pmi, difficilmente la situazione avrebbe potuto rivelarsi peggiore, è l’opinione condivisa dagli analisti secondo cui il settore manifatturiero dell’eurozona sta affondando sempre più nella recessione. Dopo due mesi in lieve crescita anche il settore dei servizi inizia poi a essere in difficoltà. E non c’è troppo da stupirsi considerato la confusione politica delle maggiori economie dell’area: il governo francese si muove su un terreno instabile e la Germania è alle prese con le elezioni anticipate. A tutto questo si aggiunge Donald Trump e la minaccia concreta di nuovi dazi sulle importazioni. Alle aziende europee non resta che navigare a vista.

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Moody’s, Pil Italia sotto 1%, impegnativa spesa Pnrr

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La crescita dell’Italia si mantiene moderata e quest’anno sarà sotto l’1%, con un deficit in calo al 4,6% e un debito che invece sale. L’analisi di Moody’s (nella foto Imagoeconomica in evidenza) mostra come i fondi del Pnrr continuano a sostenere le prospettive dell’Italia. Ma per il Belpaese sarà “impegnativo” spendere tutte le risorse disponibili dal programma entro il 2026 anche perché la spesa è stata finora inferiore al previsto. “Tassi di interessi elevati e un potenziale di crescita di circa lo 0,8% richiederanno un ampio aggiustamento fiscale per raggiungere e mantenere avanzi primari in grado di stabilizzare il debito”, afferma Moody’s annunciando il completamente della revisione del rating dell’Italia che, precisa, “non è un’azione sul rating e non è un’indicazione” sulle future decisioni sul rating. L’Italia ha al momento un rating Baa3 con outlook stabile.

“In un contesto di tassi di interesse più elevati, l’aumento del potenziale di crescita e gli avanzi primari saranno fondamentali per evitare un significativo aumento del debito”, aggiunge Moody’s spiegando come la riduzione del deficit – al 3,5% nel 2025 e al 3% nel 2026 – “non sarà sufficiente” per un calo del rapporto debito-pil in seguito agli effetti del Superbonus. L’agenzia prevede che il debito italiano salirà al 139,7% del pil nel 2024 dal 134,8% del 2023 e continuerà a salire fino al 2027 a oltre il 143%. I risultati ottenuti dall’Italia nell’attuazione del Pnrr sono “contrastanti”: l’Italia è stato il primo paese dell’Ue a chiedere le ultime tranche di finaziamento e “prevediamo che la settima tranche sarà richiesta entro la fine del 2024. Tuttavia la spesa di queste risorse è stata inferiore al previsto e la spesa totale dei fondi disponibili entro la fine del 2026 sarà impegnativa”, mette in evidenza ancora Moody’s. L’agenzia potrebbe alzare il rating nel caso di fossero prove di una crescita sostanzialmente più forte: “un miglioramento del potenziale di crescita contribuirebbe a mettere il debito su una chiara traiettoria discendente”. Il rating invece potrebbe essere rivisto al ribasso se “anticipassimo un significativo indebolimento della forza economica e di bilancio dell’Italia”.

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