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Cosche e rifiuti in Toscana, c’è anche la corruzione elettorale

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L’ipotesi di corruzione elettorale è l’ulteriore reato, oltre quelli noti, con cui la Dda di Firenze ha corredato gli avvisi di conclusione indagini sullo smaltimento dei rifiuti speciali di aziende conciarie e orafe della Toscana, due filoni con 38 posizioni indagate con infiltrazioni della ‘ndrangheta sullo sfondo. Gli altri reati, contestati a vario titolo, sono di associazione a delinquere per traffico illecito di rifiuti e inquinamento, corruzione in materia elettorale e indebita erogazione di fondi pubblici ai danni della pubblica amministrazione, falso e impedimento del controllo da parte degli organi amministrativi e giudiziari. Un filone contiene pure episodi di estorsione, minacce e violenza. Ci sono imprenditori legati a cosche, esponenti politici e dirigenti di enti pubblici. Insieme avrebbero formato da anni un’organizzazione per la gestione del ciclo degli scarti delle concerie, capace di fare lobbying, pressioni efficaci sulla Regione Toscana, sul Comune di Santa Croce sull’Arno (Pisa) e su Arpat.

Non solo: secondo la procura antimafia avrebbero agito per evitare di adeguare gli impianti delle aziende alle necessità del trattamento degli inquinanti e per individuare dirigenti a capo degli enti di controllo di espresso gradimento dei conciatori. Tra i 26 indagati del filone ‘keu’ – sigla che indica la ‘cenere’ di risulta delle lavorazioni delle concia – ci sono Alessandro Francioni e Piero Maccanti, rispettivamente presidente e direttore dell’Associazione conciatori, potente reunion imprenditoriale, ritenuti insieme a Franco Donati vertici di un’associazione a delinquere. L’inchiesta si chiude con un salto di qualità per un’ipotesi di voto di scambio che impatta forte sul consigliere regionale del Pd Andrea Pieroni, espressione di Pisa. E’ accusato di corruzione elettorale per essersi reso disponibile nella campagna elettorale per le Regionali tra maggio e giugno 2020, a presentare un emendamento sui rifiuti in cambio dei voti del distretto conciario.

Poi, secondo quanto ricostruito, come presentatore dell’emendamento avrebbe “fatto pressioni anche sull’allora presidente dell’assemblea regionale Eugenio Giani (nel settembre 2020 poi dopo l’estate venne eletto governatore, ndr) per eludere le procedure di discussione in aula. Lo scopo era ottenere norme che esonerassero il Consorzio Aquarno (depuratore)” dall’Aia, autorizzazione ambientale rinforzata per i rifiuti speciali. L’emendamento passò in Consiglio in pieno Covid. Poi la stessa norma, un anno dopo, maggio 2021 venne abrogata dal Consiglio Regionale. Ed è indagato pure l’ex capo di gabinetto della presidenza della Regione, Ledo Gori, cresciuto con l’ex governatore Enrico Rossi.

Gori, poi passato con Giani governatore ha dovuto lasciare a causa delle indagini; è accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio proprio per aver assecondato le richieste dei conciatori. La sindaca di Santa Croce Giulia Deidda, indagata pure lei, avrebbe esercitato pressioni su un cittadino confinante con l’impianto Aquarno perché accettasse di vendere i terreni. Avviso anche all’imprenditore del movimento terra Francesco Lerose, legato alla cosca Grande Aracri, che coi familiari avrebbe “fornito un contributo decisivo alla vita dell’associazione”, per occultare e smaltire illecitamente i rifiuti contenente il keu. Avrebbe consegnato all’impresa fiorentina Cantini, finita sotto il controllo della cosca Gallace-Arena scarti contaminati come se fosse materiale inerte per rilevati, riempimenti e sottofondi stradali.

Il keu “avrebbe potuto rilasciare nel suolo significative concentrazioni di metalli pesanti, solfati cloruri e cromo con compromissione e deterioramento dell’ambiente”. La Dda commenta che “la gravità dei fatti contestati emerge da preoccupanti analisi delle acque di falda” nei siti contaminati dai rifiuti speciali.

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‘Disarmiamo il patriarcato’, le donne tornano in piazza

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La quiete prima della tempesta in un silenzio irreale che prelude a un grido di liberazione. Hanno deciso di cominciare così il loro corteo le migliaia di manifestanti di ‘Non una di meno’ che si sono ritrovate a Roma: sedute e mute. Poi all’improvviso tutte in piedi, in un’unica voce, altissima, di rabbia contro i femminicidi e al grido di ‘Disarmiamo il patriarcato’ hanno scandito lo slogan: ‘Insieme siam partite insieme torneremo. Non una di meno’. “Non una di meno” hanno ripetuto ancora, alla vigilia del 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, tante, troppe uccise e finite in una lista di sangue che allega foto di loro ancora sorridenti.

E senza dimenticare Ahoo Daryaei, la studentessa iraniana che si è spogliata davanti all’università a Teheran per protestare contro l’imposizione del regime, in molte si sono tolte la maglia rimanendo a seno scoperto. “Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce”, hanno urlato tenendo lo striscione con la scritta “il corpo è mio, decido io”, un famoso slogan femminista degli anni Settanta. Poco prima del corteo, davanti al ministero dell’Istruzione, una foto del ministro Giuseppe Valditara era stata bruciata dalle attiviste del movimento femminista Aracne e dai collettivi. Su un manifesto la scritta: “Oltre 100 morti di Stato.

Non è l’immigrazione ma la vostra educazione” hanno replicato alle parole del ministro che qualche giorno fa aveva sostenuto che “L’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza discendenti da un’immigrazione illegale”. Durante il corteo anche cori contro Pro Vita, con i manifestanti che hanno provato a raggiungere la sede dell’associazione antiabortista ma sono state bloccati. Scene che non sono piaciute alla ministra per la Famiglia Eugenia Roccella.

“Manifestare contro la violenza sulle donne, parlare di educazione al rispetto, libertà, per poi esibirsi negli atti e negli slogan che abbiamo visto andare andare in scena prima e durante le manifestazioni di oggi, è una contraddizione stridente”. La ministra ha voluto anche ricordare che “il governo Meloni ha fatto molto per contrastare la violenza contro le donne, anche dal punto di vista economico ha contribuito ad aumentare l’occupazione stabile femminile, ha supportato l’aumento dei centri antiviolenza che sono cresciuti del 5% negli ultimi due anni” e ha lanciato un appello alle ragazze affinché abbiano più a cuore la loro libertà, e ai ragazzi affinché non abbiamo paura della libertà delle ragazze.

Perché “la violenza contro le donne è qualcosa che tocca veramente in modo lacerante le famiglie, troppo spesso purtroppo”. Anche la marea fucsia, 150mila secondo le organizzatrici, a un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin e con il pesate elenco di “altri 106 nomi che si sono aggiunti”, ha risposto a Valditara: “Il patriarcato esiste, non è ideologia e il razzismo istituzionale non è la risposta. L’assassino, il violento, sono figli della nostra società e hanno quasi sempre le chiavi di casa. Questo è un governo patriarcale, non basta una premier donna. Le misure contenute nel ddl sicurezza sono preoccupanti, dalla restrizione del diritto al dissenso alla possibilità di ingresso in carcere per le donne in gravidanza o comunque con figli molti piccoli”. Cortei si sono svolti anche a Palermo, dove in testa hanno sfilato alcune vittime di violenza, insieme a donne disabili, e a Udine dove le Donne in Nero, una rete di attiviste per la pace hanno chiesto il cessate il fuoco in Palestina.

A Milano è apparsa un’opera della street artist Laika dal titolo ‘Smash the patriarchy’. L’immagine raffigura Giulia Cecchettin e Gisele Pelicot, sopravvissuta a uno stupro perpetrato in Francia da suo marito insieme a decine di altri uomini. Il sindaco Beppe Sala ha sottolineato che “le quote rosa sono state fondamentali ma adesso non bastano più. Ci sono interi settori, come quello finanziario, in cui le donne non toccano niente. L”occupazione sale ma in Italia solo il 14% delle donne sono ai vertici delle società”. E anche nelle principali città francesi ci sono state numerose manifestazioni contro la violenza sulle donne. A Parigi hanno sfilato migliaia di persone, soprattutto donne ma anche bambini e uomini.

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Polizia scopre nel Milanese l’arsenale della Curva Nord

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Un deposito di armi, che si reputa possa essere l’arsenale della Curva nord interista, è stato scoperto dalla Polizia a Cambiago, nel Milanese. In un capannone, indagando su un ultras che sarebbe legato ad Andrea Beretta, l’ultrà nerazzurro in carcere per l’omicidio di Antonio Bellocco, altro capo della Curva, sono stati sequestrati pistole, kalashnikov, bombe a mano e molti proiettili.

Secondo quanto si apprende, all’arsenale gli investigatori milanesi sono giunti la scorsa notte, seguendo la traccia di una proprietà immobiliare di Beretta che però era nella disponibilità di una altra persona, un ultras a lui vicino.

La questura di Milano non commenta, non conferma e non smentisce le notizie relative all’operazione di Polizia che ha portato alla scoperta di un arsenale in un deposito nel Milanese che sarebbe riconducibile alla Curva Nord nerazzurra.

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“Bomba Sinner”: un’invenzione giornalistica che alimenta il mito dei botti illegali

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La “bomba Sinner”, il nuovo ordigno di Capodanno sequestrato dai carabinieri in un appartamento di Pozzuoli, è solo l’ultima trovata di un fenomeno mediatico e sociale che va ben oltre la cronaca. Il nome, che richiama il tennista altoatesino Jannik Sinner, si unisce alla lunga lista di fuochi d’artificio illegali battezzati con appellativi accattivanti come “Maradona”, “Scudetto” o “Kvara”. Ma mentre questo genere di denominazioni richiama una sorta di “marketing” dei botti, è impossibile non notare come perpetui luoghi comuni pericolosi e pregiudizi su Napoli e il suo rapporto con l’illegalità.

La realtà dietro la “bomba Sinner”

Il nome non ha nulla a che vedere con il campione di tennis, ma sfrutta l’immaginario di esplosività associata al suo talento sportivo. La realtà, però, è ben diversa: si tratta di un ordigno pericoloso e illegale, capace di causare mutilazioni o peggio. L’ordigno, insieme ad altri 486 petardi illegali, è stato sequestrato dai carabinieri nell’abitazione di un 24enne incensurato a Pozzuoli, trasformata in una vera santabarbara. Materiale esplosivo per un totale di 50 chili era conservato in condizioni precarie, mettendo a rischio non solo l’incolumità del giovane, ma anche quella dei suoi vicini.

Un marketing pericoloso e la complicità dei media

La “bomba Sinner” e altri ordigni illegali sono promossi su piattaforme come Telegram, TikTok e Instagram, dove la vendita e distribuzione si sviluppano con logiche da e-commerce. I nomi accattivanti, però, non sono solo una trovata degli stessi produttori, ma trovano amplificazione nei media, che trasformano questi episodi in sensazionalismo, anziché sottolinearne i rischi. È qui che si insinua una responsabilità più ampia: invece di denunciare con forza il pericolo dei botti illegali, si finisce per rafforzarne la “fama”, perpetuando un’attrazione malsana verso questi prodotti.

Il perpetuarsi dei pregiudizi su Napoli

La narrazione che emerge da episodi come quello della “bomba Sinner” alimenta stereotipi radicati su Napoli e la Campania come luoghi di illegalità e anarchia diffusa. I nomi dei botti – da Maradona a Kvara – sono spesso legati a simboli locali, trasformando un problema grave in un racconto folkloristico che fa leva su luoghi comuni. In realtà, Napoli è una città con un tessuto sociale e culturale straordinario, che spesso lotta contro queste narrazioni riduttive. Collegare automaticamente l’illegalità a simboli della cultura partenopea non fa che danneggiare l’immagine di un territorio già troppo spesso vittima di pregiudizi.

Un problema nazionale, non locale

È importante sottolineare che il fenomeno dei botti illegali non è un problema esclusivamente napoletano. Gli ordigni sequestrati a Pozzuoli erano destinati anche al mercato tedesco, dimostrando che si tratta di un commercio organizzato su scala ben più ampia. Ridurre la questione a un “problema di Napoli” non solo ignora la complessità del fenomeno, ma ostacola una reale presa di coscienza e interventi efficaci.

L’urgenza di un cambiamento culturale

Il fenomeno dei botti illegali rappresenta un rischio concreto per la sicurezza pubblica e un problema culturale. Ogni anno, questi ordigni causano gravi ferite, amputazioni e persino vittime. Serve un cambio di paradigma: da una narrazione che esalta nomi e appellativi dei botti, si deve passare a una comunicazione che ne evidenzi i pericoli, senza alimentare inutili sensazionalismi.

La “bomba Sinner” non è solo un ordigno pericoloso: è un simbolo di come il sensazionalismo e la superficialità possano alimentare pregiudizi e ignorare il vero problema. Napoli merita una narrazione diversa, che metta in evidenza la lotta quotidiana di tanti cittadini contro l’illegalità, piuttosto che ridurla a un cliché. Allo stesso tempo, occorre un impegno collettivo per contrastare la produzione e la diffusione di fuochi illegali, puntando su una cultura della sicurezza e della responsabilità.

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