Il quadro normativo che regolamenta l’ ergastolo ostativo “è significativamente mutato” in quanto la riforma dell’esecutivo di Giorgia Meloni varata il 31 ottobre 2022 – dopo le sollecitazioni della Consulta ai governi precedenti – ha fatto della mancanza di collaborazione con la giustizia “una preclusione soltanto relativa e ha previsto l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative” anche “per i detenuti non collaboranti, ovviamente condannati per reati ostativi, seppure in presenza di ‘stringenti e concomitanti condizioni'”. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni, appena depositate, del verdetto che l’8 marzo scorso ha ‘promosso’ la riforma, sollecitata anche dalla Corte di Strasburgo, dopo un andirivieni di rimpalli tra ‘ermellini’ e giudici costituzionali, con l’iniziativa alla fine lasciata nelle mani del legislatore che è intervenuto a tempo quasi scaduto. “È un ottimo risultato perché la corte di Cassazione conferma che questa riforma va nella direzione giusta e mette al riparo l’ergastolo ostativo da modifiche che lo avrebbero inevitabilmente depotenziato”, ha commentato la capogruppo di FdI in Commissione giustizia alla Camera Carolina Varchi riferendosi al verdetto dei supremi giudici.
Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, la riforma “ha inciso proprio sulle disposizioni sottoposte a scrutinio di costituzionalità, specificamente sostituendo integralmente il comma 1-bis dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, a cui ha pure aggiunto due nuovi commi (1-bis.1 e 1-bis.2)”. Quanto alle novità introdotte, secondo gli ‘ermellini’ “il principale portato della nuova disciplina si rinviene nella trasformazione da assoluta in relativa della presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici e delle misure alternative in favore dei detenuti non collaboranti”.
“Costoro, infatti, sono ora ammessi – spiega la sentenza 15197, relatore Giuseppe Santalucia che è anche il presidente dell’Anm – alla possibilità di proporre richiesta, che può essere accolta in presenza di stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei casi per cui è intervenuta condanna”. Siccome Salvatore Pezzino, il detenuto all’ergastolo ostativo il cui caso ha fatto da motore propulsore alla riforma, si trova in carcere – per un cumulo di condanne emesse dalla magistratura di Palermo, tra le quali quella per omicidio con l’aggravante mafiosa – da oltre 30 anni, i supremi giudici sottolineano di non aver esaminato se siano compatibili con la Costituzione le nuove norme che innalzano da 26 a 30 anni la soglia del periodo di detenzione che devono aver scontato i detenuti per reati ostativi per chiedere l’accesso alla liberazione condizionale.
Gli ‘ermellini’ sul punto non possono approfondire il tema – dato che Pezzino ha il requisito dei 30 anni di detenzione in cella – e rimane in sospeso il quesito se la riforma “che nulla prevedendo in relazione alla sua applicazione nel tempo, restringe, con possibile frizione con il principio costituzionale del divieto di retroattività della norma penale di sfavore, l’accesso alla liberazione condizionale”. Un istituto che, prosegue il verdetto, “al pari delle altre misure alternative, costituisce, per usare le espressioni della sentenza n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale, una vera e propria pena alternativa con accentuata vocazione rieducativa”. Ora il caso di Pezzino, – che è recluso nel carcere sardo di Tempio Pusania ed è stato difeso dall’avvocatessa Giovanna Araniti – e della sua mancata collaborazione, deve essere esaminato alla luce della riforma dal Tribunale di sorveglianza de L’Aquila.