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Brexit, nuovo strappo di Londra sull’Irlanda del Nord

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La postura politica e il tono sono quelli di chi e’ disposto ad andare allo scontro: Londra batte di nuovo i pugni sul tavolo e cambia idea sull’Irlanda del Nord, chiedendo a Bruxelles di fatto che si riveda l’intesa. Quel protocollo risultato cruciale per l’accordo sulla Brexit, sofferto, limato a piu’ riprese, che il primo ministro britannico Boris Johnson aveva finalmente sottoscritto nel 2019 ma che a due anni di distanza resta evidentemente troppo controverso, e soprattutto insufficiente a garantire stabilita’ dato “il persistente febbrile clima politico” nell’area, che secondo Londra non consente di “poter andare avanti cosi'”. Le parole sono del sottosegretario britannico con delega alla Brexit, David Frost: le ha scandite alla Camera dei Lord. E si traducono nell’intenzione di chiedere all’Ue una moratoria sull’applicazione delle disposizioni doganali post Brexit per l’Irlanda del Nord in modo da negoziare “cambiamenti importanti” nelle misure all’origine di gravi tensioni nella provincia britannica. “Pensiamo che ci dobbiamo mettere d’accordo rapidamente su una moratoria”, ha detto Frost ai Lord senza troppi giri di parole. La replica di Bruxelles e’ arrivata a stretto giro, con un ‘niet’ via comunicato, che non fa prevedere nulla di buono per i rapporti fra le due sponde della Manica che sembravano finalmente rasserenate dopo l’altalena del negoziato. In sostanza: il protocollo non si tocca, “ma siamo pronti a cercare soluzioni creative”. L’onere di rispondere a Frost e’ toccato al vicepresidente della Commissione europea Maros Sefcovic: “Prendiamo atto della dichiarazione resa oggi da Lord Frost. Continueremo a impegnarci con il Regno Unito, anche sui suggerimenti avanzati oggi”, ha fatto sapere, “siamo pronti a continuare a cercare soluzioni creative, nell’ambito del Protocollo, nell’interesse di tutte le comunita’ dell’Irlanda del Nord. Tuttavia, non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo”. Cosi’, nemmeno troppo tra le righe, si legge la risolutezza di Bruxelles a non riaprire un dossier non solo dolorosissimo, ma anche molto complicato, sul quale sono state spese energie, risorse e molto tempo. “Il Protocollo sull’Irlanda/Irlanda del Nord e’ la soluzione congiunta che l’Ue ha trovato con il primo ministro Boris Johnson e Lord David Frost, ed e’ stata ratificata dal Parlamento del Regno Unito”, si legge nella nota della Commissione europea. “Il suo scopo e’ proteggere l’accordo del Venerdi’ Santo in tutte le sue parti, mantenere la pace e la stabilita’ nell’Irlanda del Nord, evitare un confine duro sull’isola d’Irlanda, preservando l’integrita’ del mercato unico dell’Ue. Affinche’ questi obiettivi siano raggiunti, il Protocollo deve essere attuato. Il rispetto degli obblighi legali internazionali e’ di fondamentale importanza”. Quindi la chiosa, che non lascia molto spazio a dubbi: “L’Ue ha cercato soluzioni pratiche e flessibili per superare le difficolta’ che i cittadini dell’Irlanda del Nord stanno incontrando per quanto riguarda l’attuazione del Protocollo”, ha sottolineato la Commissione, “soluzioni realizzate con lo scopo principale di farne beneficiare le persone dell’Irlanda del Nord”. Ma il muro contro muro e’ appena iniziato, di nuovo.

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La trumpiana Greene lavorerà con Musk e Ramaswamy a taglio costi

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La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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