Il caso aveva fatto rumore. Anche perché avvenuto in provincia di Brescia, la terra dove venne uccisa dal padre e lo zio Hina Saleem, ritenuta troppo occidentale, e dove abitava Sana Cheema, ammazzata in patria per aver detto ‘no’ al matrimonio combinato. In questa vicenda l’epilogo è stato fortunatamente migliore. Le vittime di maltrattamenti fisici e psicologici si sono salvate, ma chi le ha picchiate “perché non brave musulmane” è scappato dopo la condanna definitiva della Cassazione pronunciata lo scorso 28 giugno. Sarwar Mohammad, 67 anni, la moglie Shamshad Bashir, 48 anni, e il figlio Amanat Ali, 29 anni, nati in Pakistan ma tutti cittadini italiani, sono irreperibili e il primo giudice che li ha condannati, Roberto Spanó, ha firmato il decreto di latitanza. Le vittime di maltrattamenti fisici e psicologici sono quattro sorelle da tempo sotto protezione. Dopo quello di Giacomo Bozzoli è il secondo caso in due settimane di fuga degli imputati per sottrarsi al carcere.
Il pm Erica Battaglia, titolare dell’inchiesta, ha già disposto le prime ricerche. La madre delle quattro ragazze potrebbe essersi allontanata dall’Italia già tempo fa, mentre gli inquirenti erano convinti che padre e figlio fossero ancora nella loro abitazione dove risulta avessero la residenza. E invece in casa c’è solo un connazionale. È probabile che anche i due uomini siano già rientrati in Pakistan dato che il loro avvocato li aveva avvisati che il 28 giugno ci sarebbe stata la sentenza della Cassazione.
I tre dicevano alle quattro ragazze che “non erano buone musulmane” arrivando a minacciare la più grande di “fare la fine di Sana Cheema” la 25enne di origini pakistane, cresciuta a Brescia e uccisa in Pakistan nell’aprile del 2018 per aver detto ‘no’ al matrimonio combinato. Condannandoli, il Tribunale aveva stabilito che “i soggetti provenienti da uno Stato estero devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità”.
Rigettando la tesi difensiva del reato culturalmente orientato il presidente Roberto Spanó aveva aggiunto che “la giurisprudenza di legittimità ha da tempo escluso ogni rilevanza scriminante dei comportamenti indotti da fattori culturali o ideologici confliggenti con i valori fondamentali inderogabili dell’ordinamento, tra i quali è ricompreso anche il rispetto delle norme penali, ispirate alla tutela delle vittime, quale limite invalicabile rispetto all’infiltrazione nella società civile di consuetudini, prassi, costumi contrastanti con il progresso sociale e con l’intangibilità dei diritti fondamentali dell’individuo. Sia esso cittadino che straniero”.