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Boris Johnson sconfitto sulla Brexit, no ad elezioni immediate: sempre più caos a Londra

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L’appello “al popolo” dopo la sconfitta in Parlamento. Boris Johnson non si arrende alla maggioranza dei Comuni che gli intima di chiedere un nuovo rinvio della Brexit e risponde all’approvazione della cosiddetta legge anti-no deal lanciando la sfida delle elezioni anticipate, indicando l’obiettivo di convocare le urne per il 15 ottobre. Un obiettivo che la Camera per ora respinge, bocciando senza sorprese in serata la mozione-manifesto presentata dal premier per l’auto-scioglimento (sarebbe stato necessario un quorum dei due terzi) sullo sfondo d’un muro contro muro dalle conseguenze a questo punto imprevedibili: con le opposizioni decise a non farsi dettare i tempi e a spostare piu’ in la’, forse a novembre, l’incerta resa dei conti elettorale. Il testo della norma anti-no deal concepito trasversalmente dai contestatori per provare a fermare la corsa del Regno verso una potenziale hard Brexit ha viceversa avuto il via libera della Camera bassa. Con uno scarto finale – 327 si’ contro 299 no – quasi identico a quello della prima batosta assestata ieri al nuovo esecutivo grazie anche al voto di 21 conservatori moderati di spicco (frattanto espulsi). Un risultato che certifica lo sgretolamento della maggioranza di governo, ma a cui il premier Tory mostra di non avere alcuna intenzione di rassegnarsi. Lo ha confermato nel suo primo Question Time da inquilino (per ora precario) di Downing Street ribadendo a brutto muso di non pensare minimamente di farsi teleguidare da un Parlamento che pretenderebbe di mandarlo a Canossa fra un mese, dai 27 di Bruxelles, per piegarsi a quella proroga ulteriore che egli continua viceversa a rigettare come “priva di senso”. E di non vedere a questo punto altra strada se non quella del voto politico “martedi’ 15 ottobre”. Non senza denunciare la legge contro il no deal, definita “una resa”, e’ come un tentativo di “far naufragare qualunque serio negoziato” per ottenere dall’Ue un’intesa sulla Brexit “senza backstop” (obiettivo su cui del resto Bruxelles si conferma scettica). E di fatto per tradire la volonta’ popolare del referendum 2016. Il tono d’altronde non e’ piu’ quello dell’istrione dalla battuta leggera. Semmai del pretendente leader muscolare. Come conferma il botta e risposta in aula in cui il successore di Theresa May non ha esitato a far sfoggio di machismo, tirandosi critiche in serie, per l’uso di epiteti tipo “femminuccia” o “pollastro al cloro” rivolti in particolare verso il capo dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn: accusato in slang di essere addirittura “terrorizzato” (“frit”) dal voto, sull’onda di sondaggi che in caso di elezioni immediate sembrano in effetti poter premiare la causa Tory. A maggior ragione con l’aiutino della promessa di nuove spese pubbliche a pioggia, e annessa “fine dell’austerity”, appena annunciata nella revisione del bilancio 2019 dal cancelliere dello Scacchiere, Sajid Javid.

La replica e’ stata piu’ misurata, non meno dura. Il premier, ha reagito sarcastico Corbyn (nella foto sopra), non puo’ accusarci di “sabotare un negoziato con l’Ue che non esiste”. E deve garantire il rispetto della nuova legge (dopo il passaggio alla Camera dei Lord e la firma della regina, o Royal Assent, entro la settimana prossima) prima di avere l’ok sul voto. Di qui il no alla mozione di stasera sulle elezioni, condiviso per ora con i leader degli altri partiti di opposizione (dagli indipendentisti scozzesi dell’Snp ai LibDem), liquidata come “la mossa cinica di un primo ministro cinico”. In sostanza l’obiettivo degli oppositori pare al momento quello di provare a tenere il governo a bagnomaria e allontanare le urne a non prima di novembre. Anche se non e’ chiaro come si possa pensare di costringere un premier che ripete di voler portare il Regno fuori dall’Ue il 31 ottobre ‘senza se e senza ma’ a negoziare per legge un rinvio della Brexit. Tanto piu’ sullo sfondo dell’incoraggiamento che a Boris – nella cui manica potrebbe esserci ancora qualche carta di riserva per tentare di arrivare al voto a breve – rimbalza dalla Bank of England (col ridimensionamento dei timori sugli scenari peggiori d’un eventuale no deal). E dell’assoluzione incassata in un primo tribunale, l’Alta corte di Scozia, sulla legittimita’ della contestatissima sospensione del Parlamento destinata ad andare in scena fra una settimana come che sia.

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La trumpiana Greene lavorerà con Musk e Ramaswamy a taglio costi

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La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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