“Lasciamo che questa cupa era di demonizzazione in America cominci a finire, qui ed ora”, “ora e’ il tempo di riconciliarsi” e di guarire le ferite del Paese, dal “razzismo sistemico” alla pandemia. Joe Biden lancia subito un messaggio forte di unita’ bipartisan nel suo discorso della vittoria. Ad ascoltarlo ed acclamarlo in una serata mite alcune migliaia di fan con mascherina ma questa volta senza distanziamento sociale, nel parcheggio del Chase center della sua Wilmington, il quartier generale della campagna. “Miei concittadini, il popolo di questa nazione ha parlato e ci ha consegnato una vittoria chiara e convincente, una vittoria per “we the people”, esordisce citando la Costituzione americana e ricordando che questo ticket democratico e’ il piu’ votato della storia con 74 milioni di schede. Poi va dritto al messaggio: “ho corso come democratico ma saro’ il presidente di tutti, un presidente che non cerca di dividere ma di unire. Non ci sono stati rossi e Stati blu ma gli Stati uniti d’America”. Biden cita solo una volta Donald Trump, quando dice di capire il disappunto di chi lo ha votato e ricorda di aver perso anche lui due volte la corsa per la Casa Bianca. Ma ne approfitta per lanciare un appello a mettere da parte la “dura retorica”, ad “abbassare la temperatura”, a “guardarci e ascoltarci reciprocamente”, “smettendo di trattare i nostri oppositori come nemici”.
E a lavorare tutti insieme, “democratici, repubblicani, indipendenti, progressisti, moderati, conservatori, giovani e vecchi, cittadini metropolitani e delle aree rurali o suburbane, gay, eterosessuali e transgender, bianchi, latinos, asiatici, nativi americani”. E specialmente gli afroamericani che lo hanno sostenuto nel momento piu’ basso della sua campagna. Poi si concede gli omaggi. Prima alla moglie Jill, alla loro figlia Ashley, al figlio Hunter e Beau (morto di cancro), a tutti i nipoti con le loro famiglie. Poi a Kamala Harris, “che ha fatto la storia come prima donna vice”, e a suo marito Doug, dando loro il benvenuto nella sua famiglia come ‘Bidens onorari’. Infine i volontari della campagna, prima di elencare le priorita’ del suo governo, dalla lotta al virus all’economia, dalla sanita’ al razzismo e al clima. Ad introdurre Biden era stata la Harris, vestita tutta di bianco, forse un omaggio alle suffragette e alla loro battaglia per il voto femminile che ha ricordato nel suo intervento.
“La democrazia non e’ una cosa garantita per sempre”, ha esordito, citando il leader della lotta per i diritti civili John Lewis. “Col vostro voto avete mandato un messaggio chiaro, avete scelto la speranza, l’unita’, la decenza, la scienza e la verita’”, ha proseguito, insistendo anche lei sulla necessita’ di unita’. Ma il passaggio piu’ applaudito e’ quando ha ricordato di essere arrivata alla vicepresidenza “sulle spalle” di tutte le donne che hanno combattuto per il diritto di voto. “Joe ha avuto l’audacita’ di rompere una delle maggiori barriere nel nostro Paese ma se saro’ la prima donna in questo incarico non saro’ l’ultima”, ha promesso, celebrando l’America come il paese “delle possibilita’”, del “sogno con ambizione”. Finale con tutte le due famiglie sul palco e fuochi d’artificio che hanno riprodotto i nomi di Biden come 46/mo presidente eletto e quello della Harris come ‘Vp elected’, con la mappa degli Usa e il brano musicale “Simply the best”. “Joe Joe”, Us, Us” il grido della folla.
La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.
Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.
E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.
La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.
Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.
Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.
Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.
Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.