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Abu Mazen vede Blinken, apre su Gaza ma chiede i 2 stati

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“Ci assumeremo pienamente le nostre responsabilità ma nel quadro di una soluzione politica globale che includa tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza”: nella sua blindatissima visita a sorpresa a Ramallah, prima di quella altrettanto imprevista a Baghdad, Antony Blinken incassa l’impegno del presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen a farsi carico della futura amministrazione di Gaza, ma ad una condizione che gli Usa dovranno far digerire al premier israeliano Benyamin Netanyahu: la soluzione dei due Stati. Intanto Teheran, dove la Guida suprema Ali Khamenei ha incontrato il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, rilancia la minaccia che gli Stati Uniti saranno “colpiti duramente” se non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza. Sostanziali concessioni ai palestinesi facevano già parte della trattativa in corso per allargare gli accordi di Abramo con la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, che avrebbe isolato l’Iran e che forse è all’origine dell’ attacco del 7 ottobre.

L’amministrazione Biden non ha mai smesso di sostenere la soluzione dei due stati, che ora sembra l’unica possibile, attraverso tre passaggi: l’eliminazione di Hamas da Gaza; la creazione di una forza internazionale di pace sotto egida dell’Onu, con militari arabi ma forse anche europei, e l’affido del governo della Striscia all’Anp, che già amministra la Cisgiordania. Per il dopoguerra di Gaza e per rilanciare il negoziato di pace con Israele, la Casa Bianca ha deciso di scommettere su Abu Mazen, nonostante sia un leader anziano (87 anni) e screditato agli occhi del suo stesso popolo: non certo il partner ideale, ma l’unico con cui riavviare il dialogo e tentare di ricucire le profonde ferite aperte dall’attacco di Hamas e dalla risposta di Israele.

“Washington crede che l’Anp debba giocare un ruolo centrale in quello che accadrà dopo Gaza”, gli ha detto Blinken, che nei giorni scorsi al Congresso aveva già suggerito di affidare il governo della Striscia ad una “Autorita’ Palestinese efficace e rivitalizzata”, con altri Paesi e agenzie internazionali a giocare un ruolo temporaneo per garantirne la sicurezza. Nel loro colloquio di un’ora, Abu Mazen ha denunciato i bombardamenti israeliani come una “guerra genocida” e chiesto un cessate il fuoco immediato per far entrare gli aiuti umanitari. Una richiesta analoga a quella dei ministri degli esteri dei paesi arabi incontrati ieri da Blinken, che ritengono prematuro parlare del futuro di Gaza senza prima fermare le ostilità, anche se sostanzialmente sono favorevoli al piano Usa. Il capo della diplomazia americana esclude però una tregua, convinto che aiuterebbe Hamas a riorganizzarsi, e insiste su limitate pause umanitarie per il rilascio degli ostaggi e la consegna degli aiuti, il cui flusso ora è “gravemente insufficiente”.

Ma Netanyahu non molla, diventando un alleato sempre più problematico da gestire per Joe Biden: “Non ci sarà cessate il fuoco fino al ritorno dei nostri ostaggi. Lo abbiamo detto ai nostri amici e nemici. Andremo avanti finché non li avremo sconfitti”. Blinken dal canto suo ha ribadito ad Abu Mazen “l’impegno per la fornitura di assistenza umanitaria salvavita e la ripresa dei servizi essenziali a Gaza” e ha messo in chiaro che “i palestinesi non devono essere sfollati con la forza”. Con il leader palestinese ha discusso anche “gli sforzi per ripristinare la calma e la stabilità in Cisgiordania, compresa la necessità di fermare le violenze estremiste contro i palestinesi e accertare le responsabilità”, un riferimento alle vittime dei colpi sparati da soldati o coloni israeliani dopo il 7 ottobre. Intanto il ministro della difesa iraniano Mohammad Reza Ashtiani ha avvertito che gli Stati Uniti saranno “colpiti duramente” se non ci sarà un immediato cessate il fuoco a Gaza.

Nelle stesse ore Khamenei riceveva il capo dell’ufficio politico di Hamas assieme ad una delegazione, per un aggiornamento sugli sviluppi della situazione nella Striscia e in Cisgiordania. La Guida Suprema ha ribadito l’impegno a “sostenere le forze della resistenza palestinese contro i sionisti occupanti”, denunciando la complicità Usa e di alcuni governi occidentali “nei crimini del regime sionista a Gaza”, e lanciando un appello agli Stati musulmani per dare un sostegno pratico ai palestinesi. Nella sua visita a sorpresa a Baghdad, dove ha incontrato il premier iracheno Muhammad Shiaa al Sudani, Blinken ha rilanciato il monito Usa, rivolto in particolare a Teheran, a non allargare il conflitto e a non colpire il personale americano nella regione, dopo i ripetuti attacchi alle basi Usa in Iraq e in Siria da parte di milizie filo iraniane. Poi il volo per Ankara dove cercherà di fare il pompiere dopo che presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ritirato l’ambasciatore da Israele e, presentandosi come leader del mondo islamico nella lotta contro lo Stato ebraico, ha promesso di portare i crimini di guerra israeliani alla Corte penale internazionale. Tra le sue tappe anche Cipro, dove col presidente Nikos Christodoulides ha discusso la proposta di aprire un corridoio umanitario via mare con base nell’isola mediterranea per portare gli aiuti ai civili di Gaza.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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Mandato di arresto della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant: accuse e reazioni

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La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. La decisione riguarda le accuse legate alle azioni militari israeliane durante la guerra a Gaza e ha suscitato reazioni contrastanti a livello internazionale.

Le accuse della Corte Penale Internazionale

Secondo la Camera preliminare I della CPI, esistono fondati motivi per ritenere che azioni come il blocco dell’accesso a cibo, acqua, elettricità e forniture mediche abbiano creato condizioni di vita tali da causare la morte di civili nella Striscia di Gaza, inclusi bambini.

La corte ha precisato che, pur non potendo confermare tutti gli elementi necessari per configurare il crimine di sterminio come crimine contro l’umanità, ha riscontrato prove sufficienti per l’accusa di omicidio come crimine contro l’umanità.

La reazione di Israele

La decisione della CPI è stata duramente criticata dal presidente israeliano Isaac Herzog, che l’ha definita un “giorno buio per la giustizia e l’umanità”. Secondo Herzog, la decisione è “presa in malafede” e rappresenta una distorsione della giustizia internazionale.

Il presidente ha anche evidenziato che:

  • La corte “ignora la difficile situazione degli ostaggi israeliani” detenuti da Hamas.
  • Non considera l’uso di civili come scudi umani da parte di Hamas.
  • Trascura il diritto di Israele a difendersi dopo l’attacco subito.

Herzog ha inoltre accusato la CPI di schierarsi con il terrore anziché con la democrazia e la libertà, sottolineando il rischio di destabilizzazione regionale causato dall’”impero iraniano del male”.

Le implicazioni della decisione

La decisione della CPI ha messo in discussione il delicato equilibrio tra il diritto internazionale e la sovranità nazionale. Da un lato, le accuse sottolineano presunte violazioni del diritto umanitario internazionale; dall’altro, il governo israeliano sostiene che la corte stia ignorando le circostanze che hanno portato al conflitto, come gli attacchi subiti e la necessità di difesa.

Questo mandato di arresto solleva interrogativi su come le istituzioni internazionali possano bilanciare il perseguimento della giustizia con il riconoscimento delle complessità dei conflitti moderni.

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Spagna, imprenditore sotto inchiesta denuncia: diedi 350mila euro a ministro e consulente

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L’imprenditore Victor de Aldama (nella foto col premier, che non è sotto accusa in questa inchiesta), uno dei principali accusati della rete di corruzione e tangenti al centro dell’inchiesta nota come ‘caso Koldo’, ha tentato oggi di coinvolgere numerosi esponenti dell’esecutivo, mentre il Psoe ha annunciato azioni legali per diffamazione. In dichiarazioni spontanee oggi davanti al giudice dell’Audiencia Nacional titolare dell’indagine, de Aldama ha segnalato anche il premier Pedro Sanchez, che a suo dire lo avrebbe ringraziato personalmente per la gestione che stava realizzando a favore di imprese spagnole in Messico, della quale “lo tenevano informato”, secondo fonti giuridiche presenti all’interrogatorio citate da vari media, fra i quali El Pais e Tve.

Al punto che lo stesso presidente avrebbe chiesto di conoscerlo, per ringraziarlo, in un incontro che – a detta dell’imprenditore, presidente del club Zamora CF e in carcere preventivo per altra causa – avvenne nel febbraio 2019 nel quartiere madrileno di La Latina, durante un meeting socialista. Un incontro che sarebbe documentato nella fotografia con Pedro Sanchez, pubblicata da El Mundo il 3 novembre scorso. Il presunto tangentista avrebbe sostenuto che Koldo Garcia, da cui deriva il nome del ‘caso Koldo’, divenne consulente dell’ex ministro dei Trasporti, José Luis Abalos, per decisione dello stesso Sanchez. Avrebbe sostenuto, inoltre, di aver consegnato tangenti per 250.000 euro ad Abalos e per 100.000 euro Koldo Garcia, arrivando a dire “io non sono la banca di Spagna, state esagerando”, secondo le fonti citate.

La rete di corruzione si sarebbe avvalsa dell’ex segretario di organizzazione del Psoe, Santos Cerdàn, al quale Aldama sostiene di aver consegnato una busta con 15.000 euro. Il tangentista avrebbe affermato anche si essersi riunito in varie occasioni con la ministra Teresa Ribera, per un presunto progetto di trasformazione di zone della Spagna disabitata in parchi tematici, secondo fonti giuridiche citate da radio Cadena ser. Un progetto al quale avrebbe partecipato anche Javier Hidalgo, Ceo di Globalia e al quale fu presente, in almeno una riunione, Begona Gomez, moglie di Pedro Sanchez. Fonti governative, riportate da Cadena Ser, definiscono un cumulo di menzogne le dichiarazioni di Aldana, che “non ha alcuna credibilità” ed è in carcere preventivo, per cui punterebbe a ottenere un trattamento favorevole in una prevedibile condanna.

“Il presidente del governo non ha né ha avuto alcuna relazione” con Aldama, segnalano le fonti. “Tutto quello che dice è totalmente falso”, ha dichiarato da parte sua ai cronisti Santos Cerdàn, “Questo signore non ha alcuna credibilità, sta tentando di salvarsi dal carcere. Non ha alcuna relazione con il presidente del governo, io non ho ricevuto mai denaro da lui e non lo conosco”, ha aggiunto l’esponente socialista, annunciando azioni .giudiziarie. Lo stesso ha fatto il portavoce parlamentare del Psoe, Patxi Lopez, che ha confermato “azioni legali” del partito della rosa nel pugno “perché la giustizia chiarisca tutte queste menzogne”.

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