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Economia

Centri per l’impiego e reddito di cittadinanza, se funziona il primo non c’è bisogno del secondo

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I Centri per l’impiego (Cpi), uno può chiamarli come meglio crede, persino Collocamento. L’importante è che ci si intenda essenzialmente su una questione di fondo: non “impiegano” e non “collocano” a lavoro quasi nessuno. In queste strutture pubbliche coordinate dalle Regioni (dunque il Governo non c’azzecca niente, né quello di oggi e nemmeno quello di ieri) nelle intenzioni della politica doveva essere favorito l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. In pratica le Regioni avrebbero dovuto  attuare politiche attive del lavoro sul territorio per incoraggiare matrimoni (tra lavoro e lavoratori) in un logo dove invece si certificano divorzi tra chi ha voglia e bisogno di lavorare e il deserto delle aziende che chiudono o che non sono mai state invogliate a offrire una qualsivoglia occupazione. E questo accade dove il lavoro c’è. Dove invece c’è la disoccupazione, dunque al Sud, la situazione è anche peggio. Chi ha avuto ed ha la (s)ventura di frequentare questi luoghi racconta più o meno ad ogni latitudine, sebbene con accenti diversi, le stesse storie. Le attività dei Centri per l’impiego sono farraginose, non collegate ai bisogni dei cittadini disoccupati o a rischio disoccupazione, ai lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito che hanno rapporti di lavoro con retribuzione molto bassa. Nei racconti degli sventurati che hanno a che fare con questi Centri per l’impiego si possono scorgere i peggiori incubi che si palesano quando si ha a che fare con la burocrazia che invece di aiutare asfissia i cittadini. Entrare in un centro per l’impiego è come attraversare i gironi danteschi dell’inferno. Documenti e atti amministrativi come se piovesse, iscrizioni a liste di mobilità, inserimenti in elenchi, graduatorie, categorie protette, cessazioni di rapporti di lavoro, registrazione di assunzioni, certificati di disoccupazione. Questi uffici assomigliano agli antichi fori boari dove i romani entravano con facilità e gioia perché sapevano di realizzare affari, nei Centri per l’impiego l’unico lavoro vero è riuscire ad entrarci. Affari, poi, manco a parlarne. Pur non distribuendo nulla o quasi in termini di lavoro, ce ne sono alcuni al Sud che hanno migliaia di iscritti. Il centro per l’impiego di Aversa che ha competenza su 12 comuni del basso casertano ha più di 100 mila iscritti. E non è manco un record perché in Calabria e Sicilia c’è di peggio. Di queste migliaia di iscritti molti avranno dimenticato di farne parte, altri purtroppo saranno anche passati a miglior vita senza mai aver avuto il piacere non di avere un lavoro e nemmeno di emozionarsi per una “chiamata” per un lavoro. E avere lo sfizio di dire “no grazie, fare il giardiniere a me che sono laureato in medicina non mi interessa”. Il guaio di questi Centri per l’impiego è che chi ci riesce ad entrare lo fa con lo spirito di chi va a compiere un atto più o meno inutile perché sa, in cuor suo, che mai nessuna azienda richiederà suoi servizi. Di storie allucinanti ne potremmo raccontare a iosa. Ve ne offriamo due, tanto per far comprendere lo stato di prostrazione e frustrazione di chi ha a che fare con questi Centri per l’impiego. Sono casi di due donne che ci hanno scritto. Omettiamo il cogmome, ma sono persone vere, che soffrono con dignità e coraggio la condizione di disoccupazione o precarizzazione del mondo del lavoro. C’è una signora napoletana che da 15 anni vive a Bologna. Si chiama Lucia. È iscritta ancora al Collocamento di Napoli e oramai da 15 anni anche al Centro per l’impiego di Bologna. Ha una licenza di scuola media, dunque si accontenta di tutto quello che le offrono. Da sei anni fa un lavoro precario per il Comune di Bologna che è riuscita a trovare sua sponte. In 15 anni il centro per l’impiego bolognese non le ha mai offerto un lavoro. L’unico segnale di esistenza in vita di questo Cpi di Bologna Pedrosa è un colloquio con una dipendente del Ministero del lavoro 10 anni fa. “Una signora assai gentile – ci spiega Lucia, napoletana trapiantata a Bologna dove ha costruito una famiglia – mi disse, quasi esterrefatta, ‘ma che cosa ci fa a Bologna? Torni a Napoli che è una città in forte sviluppo’”. Lei a Napoli è iscritta al vecchio Collocamento. Ma non ha mai sentito nessuno. È rimasta a Bologna, è senza lavoro, fa qualunque lavoro perché ha diritto di vivere e “perché il lavoro non è solo retribuzione ma anche dignità”. E questa donna di dignità ne ha da vendere visto la lettera che ci scrive.
Un’altra donna, napoletana, rimasta a Napoli, ci spiega che “è allucinante anche solo entrare nei Centri per l’impiego”. “Mi ricordo le file chilometriche, le giornate perse, l’inutilità di andare a mettere i timbri. Sì, perché, prima che arrivassero i computer, bisognava recarsi fisicamente al Collocamento una volta l’anno per farsi apporre un timbro che attestava lo stato di inoccupato e consentiva di rimanere in corsa in una fantomatica lista d’attesa per avere un lavoro. Ebbene – ci spiega Francesca, questo il nome della donna che ci ha mandato una mail – sono rimasta iscritta per anni. Diciotto anni. Finché non ho trovato lavoro. Da sola. Perché il lavoro, c’è poco da fare, te lo devi trovare tu. Chiedi ad amici, parenti, conoscenti. Mandi cataste di curriculum. E poi alla fine qualcosa trovi. Quasi mai ti ritrovi a fare quello per cui hai studiato e che ti piacerebbe, ma in qualche modo devi campare”. Ognuno di voi può trovare in queste poche righe la sua storia. “Un paio di mesi fa ci sono ritornata al Cpi. Sì, sono disoccupata, quindi mi spetta la NASPI, ovvero l’indennità mensile di disoccupazione. Certo sono lontani i ricordi dei vecchi uffici di collocamento. Oggi poi ci sono i computer che hanno snellito (quando tutto funziona) le procedure e ridotto i tempi di attesa. Ma è un tour allucinante nella burocrazia. Arrivo fuori una struttura che nulla ha di pubblico, anzi. Passo il primo controllo, all’ingresso del palazzo mi ferma una sorta di usciere(?) che chiede cosa devo fare. Entro nella struttura (…) e il secondo pit stop lo faccio da una signora che mi chiede i documenti e mi rilascia un modulo da compilare con i dati anagrafici, da consegnare poi all’impiegato che mi dovrà seguire. Una persona addetta alla fila mi consegna un numero. Aspetto il turno e alla fine entro in uno stanzone. Lì si trovano un numero imprecisato di persone dietro le loro scrivanie, non poco esaurite dalla quantità di pubblico da gestire e dalla confusione dovuta alla presenza di tanta gente che parla tutta assieme, nello stesso ambiente. Difficile lavorare così. Per fortuna, o forse solo per un senso di educazione e rispetto reciproco, posso dire di aver trovato quasi sempre impiegati che si sono comportati con cortesia e disponibilità nei miei riguardi. Ho fatto l’iscrizione. Ciò detto – conclude Francesca, con ironia tipica napoletana –  sono nuovamente sul mercato con altri milioni di disoccupati come me, troverò lavoro grazie al Centro per l’Impiego? Sarà utile? Mi sento di dire, con quasi assoluta certezza, di no. Riqualificare e ricollocare personale che è stato tagliato in seguito al ridimensionamento o alla crisi di un’azienda, a questo dovrebbe servire”. Questi Cpi, centri per l’impiego, che non impiegano nessuno ma garantiscono un lavoro solo a chi in quegli uffici ci lavora, costano all’Erario 600 milioni di euro l’anno. A fronte di questa spesa, i 556 Cpi sparsi sul territorio nazionale riescono a collocare (dati Istat 2018) appena il 3% dei disoccupati che si rivolgono a loro. In un Paese normale, il dibattito dovrebbe essere concentrato su come far funzionare i Centri per l’impiego, come renderli operativi, come fargli svolgere quella che dovrebbe essere la loro missione ovvero avvicinare domanda e offerta di lavoro. In questi mesi invece c’è un’incredibile stillicidio di attacchi “ai Centri per l’impiego che sono una truffa, che non hanno mai funzionato, che sono solo uno stipendificio per chi non fa niente”. E giù una marea di inchieste giornalistiche per mostrare che cosa? Che non si può fare il reddito di cittadinanza. E dire che chi sta per varare il reddito di cittadinanza intende investire un miliardo di euro per riformare i Centri per l’impiego per dare loro la vocazione che si desume dal nome e aiutare chi percepirà il reddito di cittadinanza a farne a meno perché nel frattempo ha trovato un lavoro. Ma questa è una cosa normale.

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Economia

Al Nord stipendi talvolta quasi il doppio rispetto al Sud

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Dalla Lombardia alla Calabria l’Italia resta divisa in due anche negli stipendi, che al Nord sono mediamente più alti del 35% rispetto a quelli del Sud. I conti in busta paga li ha fatti la Cgia di Mestre, elaborando dati Inps e Istat: se gli occupati nelle regioni settentrionali hanno una retribuzione media giornaliera lorda di 101 euro, i colleghi meridionali ne guadagnano solo 75. Una differenza, afferma l’ufficio studi mestrino, dovuta alla maggiore produttività del lavoro al Nord, che supera del 34% il dato delle regioni meridionali. Il confronto in termini assoluti rende chiarissima questa disparità: la retribuzione media annua lorda di un lavoratore dipendente in Lombardia è pari a 28.354 euro; in Calabria ammonta a poco più della metà, 14.960 euro. Ma se nel primo caso la produttività del lavoro è pari a 45,7 euro per ora lavorata, nel secondo è di 29,7.

Squilibri retributivi che del resto, osserva la Cgia di Mestre, si riscontrano anche tra le diverse aree del Paese, quelle urbane e quelle rurali. Tema che le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro. L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte, per la Cgia, gli effetti sperati. Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste. Anche perchè nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie (che tendenzialmente riconoscono ai dipendenti stipendi più elevati) sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord.

A pesare inoltre è il lavoro irregolare, molto diffuso nel Mezzogiorno, che da sempre provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori che tradizionalmente sono investiti da questa piaga sociale (agricoltura, servizi alla persona, commercio) Quanto alle città con gli stipendi più alti, spicca su tutte Milano, con 32.472 euro annui, seguita da Parma (26.861 euro), Modena (26.764 euro), Bologna (26.610), Reggio Emilia (26.100). I lavoratori dipendenti più poveri, invece, si trovano a Trapani dove percepiscono una retribuzione media lorda annua di 14.365 euro, a Cosenza (14.313 euro), Nuoro (14.206 euro). Negli ultimi posti della classifica vi sono i lavoratori dipendenti di Vibo Valentia, con una busta paga media di 12.923 euro l’anno contro una media italiana di 22.839 euro.

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Economia

Assicurazioni,utili su nei 6 mesi,12 miliardi per 4 big

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Dopo un 2023 da record, continua il periodo di crescita per il settore assicurativo. Nel primo semestre del 2024 bilanci ancora nel segno più con 4 grandi protagonisti internazionali del settore, ovvero Generali e Unipol dalle radici italiane, insieme ad Allianz e Axa, che da soli hanno chiuso il periodo con oltre 12 miliardi di utili, in crescita del 4,4% rispetto ai primi 6 mesi dello scorso anno. A rilevarlo è un report dell’Ufficio Studi e Ricerche della Fisac Cgil condotto sui bilanci delle quattro grandi compagnie assicurative europee. Complessivamente, i quattro grandi gruppi hanno superato i 204 miliardi di euro di premi (Danni e Vita) con un incremento di oltre il 9% rispetto all’anno precedente.

La crescita nei Rami Danni, che hanno presentato un utile operativo tecnico di 9,1 miliardi è stata del 3%, mentre i Rami Vita hanno rilevato un utile operativo tecnico di 6,5 miliardi con un incremento più marcato del 7%. Il campione italiano, Generali e Unipol, ha registrato utili a 2,6 miliardi di euro di utili nel primo semestre, rispetto ai 2,8 miliardi registrati nei primi sei mesi dello scorso anno. La leggera diminuzione è principalmente imputabile a utili non ricorrenti e one-off di Generali lo scorso anno, in assenza dei quali l’utile normalizzato sarebbe risultato stabile a 2 miliardi di euro, mentre Unipol è passata da 517 milioni di euro al semestre 2023 a 555 milioni di euro al 30 giugno 2024, con un incremento del 7%.

L’utile di Allianz migliora del 13,9% passando dai 4,6 miliardi di euro del 2023 ai 5,3 miliardi del 2024, mentre Axa conferma sostanzialmente l’utile del primo semestre dell’anno passato, pari a 4,1 miliardi di euro, a 4,2 miliardi nel 2024. Il settore assicurativo, conclude lo studio, si è quindi confermato nel complesso ancora una volta molto solido e, come riporta la Fisac Cgil con indici di solvibilità in deciso incremento. Gli ottimi risultati del comparto vengono evidenziato dalla ricerca della Fisc Cgil anche nell’ottica dei prossimi rinnovi di contratto: “Ancora una volta registriamo risultati estremamente positivi sul fronte della redditività e della solidità del settore assicurativo. Risultati raggiunti grazie all’impegno delle lavoratrici e dei lavoratori del settore che meritano un significativo riconoscimento, a partire dai prossimi rinnovi contrattuali, di primo e secondo livello”, dice la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito. (

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Ambiente

L’Italia pensa al nucleare, 50 miliardi l’impatto sul Pil

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Il tema del nucleare di ultima generazione irrompe al forum Teha di Cernobbio con con gli imprenditori e operatori del settore che chiedono di “fare presto” per evitare di perdere l’opportunità per gli investimenti. Una tecnologia che porterebbe benefici alla crescita economica del Paese un impatto sul Pil di 50,3 miliardi al 2050. La posizione del governo non si fa attendere con il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin che annuncia l’arrivo “entro fine anno” di un “disegno di legge, che conterrà la normativa primaria e dove saranno previsti i soggetti regolatori”.

L’Italia, di fatto, rientrerebbe nel nucleare. Da Villa d’Este, sul lago di Como, sono Edison e Ansaldo Nucleare ad illustrare l’impatto dell’atomo sulla decarbonizzazione energetica e sull’economia italiana. Il nucleare di ultima generazione, secondo una analisi illustrata a Cernobbio, può abilitare al 2050 un mercato potenziale fino a 46 miliardi di euro, con un valore aggiunto attivabile pari a 14,8 miliardi di euro. Ma c’è di più perché considerando anche i benefici indiretti e dell’indotto, sarà possibile creare oltre 117.000 nuovi posti di lavoro. Il nuovo nucleare non è soltanto una “risorsa preziosa per raggiungere gli obbiettivi di transizione energetica ma costituisce una vera e propria occasione di rilancio industriale per il Paese”, spiega Nicola Monti, amministratore delegato di Edison.

“L’Italia ha l’occasione – aggiunge – di essere protagonista, se da subito viene definito un piano industriale di medio-lungo periodo”. Sui tempi è il ministro Pichetto a fissare dei punti fermi. Per fine anno arriverà “l’analisi complessiva sul nucleare e su ciò che bisognerà introdurre come norma primaria che deve trasformarsi in disegno di legge”. I tempi li detterà il “parlamento, ma auspico che nel corso del 2025 che si possa chiudere quello che è il processo di valutazione normativa”. E sull’ipotesi di un nuovo referendum, “non faccio il mago di conseguenza la libertà di raccogliere firme e fare i referendum c’è”. In passato gli italiani si sono espressi su una “tecnologia di 60 anni fa, quella di prima e seconda generazione”, prosegue il ministro, ribandendo che “guardiamo al nuovo nucleare, che non prevede la costruzione di grandi centrali.

Pensiamo invece ai agli Small modular reactor e agli Advanced modular reactor”. In Italia c’è grande fermento tra i principali protagonisti del settore dell’energia per essere pronti ad affrontare la sfida del nuovo nucleare. Da mesi, infatti, sono stati siglati numerosi accordi di programma finalizzati allo ricerca ed allo sviluppo della tecnologia nucleare. Tra le ultime intese, ma solo in ordine di tempo, c’è quella tra Edison, Federacciai e Ansaldo Energia per decarbonizzare le acciaierie italiane. Per l’Italia si riapre una nuova “riflessione sul ruolo benefico che le nuove tecnologie nucleari disponibili o in via di sviluppo possono giocare nel mix energetico italiano”, spiega Daniela Gentile, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Il nucleare di nuova generazione conta attualmente, a livello globale, oltre 80 progetti in via di sviluppo.

Nello sviluppo del nuovo nucleare, secondo l’analisi di Edison, Ansaldo Nucleare e Teha, l’Italia può contare su competenze lungo quasi tutta la catena di fornitura e su un sistema della ricerca all’avanguardia. Lo studio, inoltre, ha identificato 70 aziende italiane specializzate nel settore dell’energia nucleare che confermano una “forte resilienza di questo comparto a tre decenni dall’abbandono della produzione in Italia”. Il valore strettamente legato all’ambito nucleare generato dalle aziende di questa filiera si attesta nel 2022 a 457 milioni di euro, con circa 2.800 occupati sostenuti, e l’Italia che si posiziona quindicesima a livello globale e settimana in Ue-27 per export di reattori nucleari e componenti tra il 2018 e il 2022.

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