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Di Maio vara il decreto Dignità: basta lavoro precario per i giovani, così abbiamo licenziato il Jobs act di Renzi

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Decreto Dignità. Il ministro Luigi Di Maio vara il decreto che “licenzia” il Jobs act

L’indennizzo in caso di licenziamenti illegittimi diventa molto salato. Aumenta del 50%: non più una somma fra un minimo di 4 e un massimo di 24 stipendi, ma una cifra che potrà appunto arrivare fino a 36 mesi. Certo, è una misura simbolo del «decreto dignità» varato dal ministro del Lavoro e dello Sviluppo, Luigi Di Maio, ma se volete potete leggerlo anche come un proclama contro la precarizzazione della vita di milioni di giovani italiani spesso anche sfruttati. Di Maio non ha difficoltà a dire che è stata aperta «la guerra al precariato, ora licenziamo il Jobs Act».

L’aumento dell’indennità sui licenziamenti è però una delle tante misure che affiancheranno altre importanti novità sui contratti a termine che riducono da 5 a 4 i rinnovi possibili nell’arco di 36 mesi e reintroducono le causali (picchi produttivi, esigenze temporanee, ecc.) per procedere agli stessi rinnovi. Per capirci, spiega il ministro, “solo il primo contratto potrà essere stipulato senza motivazioni, ma di durata non superiore a 12 mesi”. Non solo: arriva anche un contributo aggiuntivo di 0,5% su ogni rinnovo, per scoraggiare appunto il lavoro a termine.

Il parto non è stato facile, ma il ministro del Lavoro e dello Sviluppo ha ottenuto finalmente il via libera dal Consiglio dei ministri. L’approvazione del suo decreto legge, che contiene appunto queste norme, è passato in una riunione dove non c’era Matteo Salvini, l’altro contraente del contratto di Governo, impegnato al Palio di Siena, evidentemente più importante del precariato dei giovano da sanare nel mondo del lavoro. Presa di distanza della Lega? Presto per dirlo, certo non un bel segnale l’assenza del leader leghista che non ha voluto metterci la faccia in una riunione che rimette il M5s al centro del contratto di Governo. Forse anche per segnalare a Confindustria che “lui non c’era” quando si è fatto il decreto Dignità. Anche se meno ambizioso rispetto al progetto iniziale (il ministro Tria ha opposto una ferma opposizione allo smantellamento di split payment e spesometro e anche sulla stretta a giochi e scommesse, per evitare che il decreto avesse un costo eccessivo per le finanze pubbliche), il pacchetto di misure su lavoro, delocalizzazioni, ludopatia e semplificazioni fiscali, è sufficiente a Di Maio per parlare di svolta storica. Per carità, aggettivi a parte, c’è una netta inversione di marcia rispetto alla precarizzazione del mondo del lavoro.

Nel decreto c’è anche una norma che, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, lascia al loro posto le maestre diplomate per 120 giorni in attesa di una soluzione definitiva. Inoltre, la delega al Turismo passa dal ministero per i Beni culturali all’Agricoltura, sotto il leghista Gian Marco Centinaio che in un gioco alla Cencelli perde la delega e i soldi per la bonifica della terra dei fuochi in favore dell’Ambiente, dicastero alla cui guida c’è il generale dei carabinieri indicato dal M5S Sergio Costa.

Di Maio ha anche incontrato anche aziende e sindacati sulle tutele per i ciclo fattorini delle piattaforme di consegna di pasti a domicilio. «È emersa la volontà di arrivare a un contratto nazionale dei rider», ha detto il ministro, annunciando un nuovo incontro in settimana per arrivare a «un punto di caduta» che comprenda «compenso minimo orario, copertura Inail e Inps, il non essere dipendenti da un algoritmo». Entro due mesi, spiega il ministro, potremmo avere il primo contratto nazionale dei riders. Un unicum in Europa. Al tavolo, per la prima volta davanti a Di Maio, c’erano anche i tre segretari di Cgil, Cisl e Uil, Camusso, Furlan e Barbagallo.

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La nuova Ue di Ursula, Fitto verso la vicepresidenza

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Tutto alla ricerca “dell’equilibrio”. La nuova Europa di Ursula von der Leyen è pronta a vedere la luce e, a una manciata di giorni dall’annuncio della rosa dei commissari atteso l’11 settembre, la presidente è impegnata a risolvere il sudoku tutt’altro che semplice delle deleghe da assegnare. A Bruxelles, la notizia più attesa a Roma circola ormai con insistenza: il prossimo commissario italiano, Raffaele Fitto, stando a più fonti qualificate, si avvia verso la vicepresidenza esecutiva con le potenziali deleghe cruciali della gestione dei Pnrr e dei fondi europei. Una scelta su cui, ha fatto sapere anche la premier Giorgia Meloni dal forum Teha a Cernobbio, lo scambio con la leader tedesca “è in dirittura d’arrivo” senza alcun “motivo di credere che all’Italia non venga riconosciuto quello che le spetta”.

Preso atto dei mal di pancia dei liberali di Renew e di un eventuale veto alla prova del Parlamento europeo sul nome di Fitto, von der Leyen mantiene comunque la linea del suo Ppe, consapevole che premiare Roma – pur protagonista a luglio del no al suo bis – significa anche avvicinarla alle posizioni più moderate. Il ministro uscente, nelle confidenze di alcuni funzionari Ue, è tra gli esponenti del governo italiano con cui la tedesca “ha lavorato meglio”. E, insieme a lui – per il quale anche il commissario Paolo Gentiloni ha riservato il consiglio di “essere ambizioso” -, a essere in pole per le altre poltrone di vicepresidenti esecutivi sono il francese Thierry Breton, macroniano di ferro deciso a guidare l’industria europea; lo slovacco Maros Sefcovic, favorito sul dossier dei rapporti istituzionali; il lettone Valdis Dombrovskis che con tutta probabilità svestirà i panni di rigorista dei conti pubblici per dedicarsi all’Ucraina; e la spagnola Teresa Ribera, madrina del Green deal iberico ma data a sorpresa in orbita Concorrenza anche da fonti interne all’antitrust Ue.

Pesi massimi a cui si affiancherà l’estone Kaja Kallas, la lady di ferro dell’est, nemica di Mosca, già certa di ereditare le redini della politica estera continentale. Ventisei poltrone per ventisei Paesi, se si esclude quella della presidenza, non sono tutte uguali e la corsa ai portafogli economici resta incerta. Oltre alle macro aree di responsabilità dei vicepresidenti, von der Leyen sta esaminando a chi affidare le singole deleghe. Il Bilancio potrebbe andare alla Polonia, mentre è quasi certo che saranno i Paesi Bassi a guidare il commercio internazionale. A contendersi l’agricoltura sono invece Lussemburgo e Portogallo. Per la regia tutta nuova del Mediterraneo in lizza ci sarebbero invece Cipro e Malta, a patto che quest’ultima cambi il nome di Glenn Micallef e accolga l’appello di von der Leyen – rimasto inascoltato dai più – a presentare una donna, possibilmente riconfermando l’uscente Helena Dalli.

I fedelissimi della tedesca a Palazzo Berlaymont continuano a ripeterlo: “La presidente è alla ricerca di equilibrio”. Un equilibrio che – ha precisato la stessa von der Leyen nei giorni scorsi – deve essere geografico, politico e di genere. Un fronte, quest’ultimo, su cui resta il nodo della superiorità di candidati uomini sulle donne. Dopo il ritiro della candidatura di Tomaz Vezel, la Slovenia è impegnata a cercare un nome femminile. E una critica alla reticenza dei governi sulla parità di genere è arrivata anche dall’attuale vicepresidente esecutiva, Margrethe Vestager. “Ursula von der Leyen ha chiesto una cosa del tutto legittima: datemi due candidati, un uomo e una donna”, ma il rifiuto dei governi – si è rammaricata la danese – “purtroppo smaschera la loro mancanza di sforzi”. Risolto anche quest’ultimo grattacapo, la squadra sarà pronta per essere presentata all’Eurocamera. Ed è lì, quando cominceranno le audizioni, che si misureranno ancora una volta i delicati equilibri della maggioranza che ha concesso a Ursula il bis. Con la possibilità che alcuni nomi – su tutti, l’ungherese Oliver Varhelyi – vengano affossati.

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Giornata off per Sangiuliano, verso il rientro in Rai

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Una giornata ‘off’, lontano dal clamore delle polemiche, dallo stillicidio delle stories e degli screenshot su Instagram, dalle pressioni politiche e mediatiche: il primo giorno da ex ministro di Gennaro Sangiuliano è all’insegna della ricerca di un po’ di serenità, dopo che il ciclone Boccia ha travolto la sua carriera ma anche la sua vita privata. “Io ho bisogno di tranquillità personale, di stare accanto a mia moglie che amo”, ha sottolineato lo stesso Sangiuliano nella lettera di dimissioni alla premier Meloni, pur senza arretrare rispetto alla volontà di “agire in tutte le sedi legali contro chi mi ha procurato questo danno”. I contatti con il suo legale di fiducia Salvatore Sica, al lavoro per mettere a punto la denuncia contro l’imprenditrice di Pompei che per qualche giorno ha tenuto sotto scacco il governo, sono costanti.

Ma per il resto l’agenda è all’insegna del ‘detox’, anche dal telefonino, anche dai social dove le intestazioni degli account recitano ormai “giornalista, scrittore e docente universitario. Ex direttore del Tg2, ex ministro della Cultura”: l’ultimo post è il video di ieri sera, mentre Sangiuliano attraversa il corridoio della sede del Collegio Romano accompagnato dagli applausi dei dipendenti. Quanto al futuro, l’affaire Boccia sembra aver eroso le possibilità di una candidatura dell’ex ministro alle Regionali 2025 nel centrodestra. La prospettiva, come spiega lo stesso Sangiuliano in un colloquio con Il Messaggero, è il rientro in Rai, azienda di cui è dipendente in aspettativa non retribuita da quando, da direttore del Tg2, a ottobre 2022 ha accettato l’invito di Meloni a entrare nell’esecutivo.

“Certo che ci tornerò. Come hanno fatto Marrazzo, Badaloni e tanti altri che presero aspettativa per impegnarsi in politica. Sono un dipendente Rai a tempo indeterminato. Tornerò al mio lavoro e nell’azienda dove sono cresciuto. Ma non voglio un posto di rilievo”, sottolinea. Tra i precedenti, anche quelli di Fabrizio Del Noce (deputato per Forza Italia dal 1994 al 1996) e Michele Santoro (eurodeputato eletto nella lista Uniti per l’Ulivo nel 2004, incarico da cui si dimise nell’ottobre 2005). L’ipotesi che circola nei rumors di queste ore sarebbe quella di affidare a Sangiuliano la direzione della TgR, oggi guidata da Alessandro Casarin, che ha un mandato in scadenza a novembre ed è candidato a entrare nel nuovo cda con il sostegno della Lega.

In ballo ci sono però le ragioni di opportunità che un ex ministro vada a dirigere una testata e soprattutto la necessità che si sblocchi l’impasse sulle nomine, rimaste al palo anche per il mancato dialogo con l’opposizione, indispensabile per il voto di ratifica sul presidente. Un vertice di maggioranza potrebbe tenersi a inizio settimana, anche perché giovedì in calendario al Senato c’è il voto per i membri del Cda. Intanto martedì si riunirà l’ufficio di presidenza della Vigilanza: sul tavolo, l’intervista dell’ex ministro al Tg1 sul caso Boccia.

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I dubbi nel Pd su Renzi. Bersani, lui è un problema

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L’alleanza con Matteo Renzi non piace al M5s. Ma anche nel Pd c’è da superare più di qualche perplessità. A metterlo in chiaro è stato Pier Luigi Bersani. L’ex segretario ora è un iscritto “semplice”, ma resta un punto di riferimento per la sinistra del partito. “E’ l’extracorporeo – ha detto – Il problema ce lo stanno buttando in casa, ma siamo proprio fessi? Davanti a un’esigenza di allargamento stiamo discutendo di Renzi?”. E’ il secondo avvertimento che arriva in poche ore al leader di Iv dal mondo Pd. Il giorno precedente c’erano stati gli applausi al presidente del M5s Giuseppe Conte alla festa nazionale dell’Unità, a Reggio Emilia. Renzi ha incassato e rilanciato.

Prima ha teso la mano a Conte per il campo largo, e subito dopo l’ha ritratta per l’alleanza in Liguria. “Alla festa dell’Unità, Conte si è portato dietro la claque grillina” ha attaccato, per poi allentare la tensione: “Io non ho un carattere accomodante, ma dico che vale la pena trovare cose su cui si sta insieme. Se con Conte parlo del passato litigo, ma mi interessa capire se possiamo ragionare sul futuro”. Nel M5s, però, l’umore non cambia: non è un problema di natura personale, ma di “affidabilità politica” di Renzi. Alla Festa del Fatto Quotidiano a Roma, Bersani ha messo in guardia Elly Schlein: “Sei sicura che il Pd sia vaccinato dal renzismo?”.

Bersani la vede così: “Se domani mattina casca il governo e c’è da fare un’alleanza improvvisata io” Renzi “non lo prenderei su. Se ci fosse un percorso, mi interessano anche gli elettori di Renzi e di Calenda”. Gli elettori, più che i leader. “Io partirei dal percorso – ha continuato Bersani – poi strada facendo si vede”. E dopo, tanto per ribadire: E’ “un’idea balzana che uno stia con la sinistra nel governo della regione e con la destra nel capoluogo”. Torna in ballo la Liguria, dove Iv è in maggioranza nel comune di Genova, governato dal centrodestra, mentre il Pd sta cercando di costruire il campo largo a sostegno della candidatura a governatore dell’ex ministro Andrea Orlando. Renzi aveva prospettato un’uscita dalla giunta genovese, ma Iv è ancora in maggioranza.

“Se Orlando ha voglia di vincere – ha detto Renzi – cercherà di mettere insieme tutte le anime che si riconoscono in un programma e fare una coalizione. Il punto è sui contenuti. Beppe Grillo e i 5 Stelle dicevano che volevano fermare la Gronda, una infrastruttura necessaria a Genova. Se Orlando dice no alla Gronda a me non interessa stare con una coalizione che blocca le infrastrutture, se i grillini hanno cambiato idea si può discutere”.

Il tema infrastrutture insegue Orlando. Che già nei giorni scorsi aveva rassicurato l’altro centrista, Carlo Calenda, che poi ha aperto all’intesa: le opere strategiche liguri – aveva ricordato Orlando – sono state tutte volute o finanziate dal centrosinistra. La Gronda? Se ne parla da anni: ma nel 2013 – viene ricordato – fu l’allora ministro dell’Ambiente Orlando a firmare la Valutazione di impatto ambientale. Nei giorni scorsi Orlando ha avvertito: non facciamoci del male da soli. “Rallentamenti e ritardi – ha spiegato – sono la conseguenza non di idee diverse” nel centrosinistra “ma del fatto che la destra ha tolto le risorse o non ha vigilato sul rispetto dei tempi”.

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