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Economia

Oggi Tria deve decidere: o trova i soldi per flat tax e reddito di cittadinanza o è meglio lasciare

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Lo scontro sulla manovra è drammaticamente semplice. I soci di maggioranza dell’esecutivo vogliono cose diverse dal ministro dell’Economia Giovanni Tria. Luigi di Maio e Matteo Salvini vogliono fare quello che hanno promesso ai loro elettori ovvero il superamento della legge Fornero, demolizione del Jobs Act, reddito di cittadinanza, flat tax. Servono miliardi di euro per fare tutto? Bene, devono trovarli, nelle pieghe del Bilancio dello Stato, Tria e i suoi tecnici. Se possibile, sostengono Lega e 5Stelle, si farà un po’ di deficit, si sforerà il rapporto deficit pil previsto al 1,6 per cento. Anzi, i due alleati, dopo settimane di tira e molla con Tria hanno infine deciso di fargli sapere ufficialmente che il Governo intende fare deficit fino al 2,4 per cento. Vuol dire che per fare una manovra che redistribuisce un po’ di reddito a chi ha bisogno si spenderà qualcosa in più di quello che si incassa. Si farà un po’ di deficit, appunto, Tria, forte delle tutele del Quirinale e di Bruxelles, non ha intenzione di cedere.

Ministero dell’Economia

L’esito del braccio di ferro si risolverà, in un modo o nell’altro, oggi, quando il governo dovrà approvare la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def) che fa da base per la manovra d’ autunno. Sull’esito del braccio di ferro non c’è dubbio che qualcuno dovrà cedere. E se il Governo deve andare avanti, certo non potranno cedere il passo Di Maio e Salvini.  Ci sono molti tentativi di conciliare le posizioni in campo, di trovare un compromesso. Ma ora Lega e M5S che per settimane hanno letto sui giornali del rigore di Tria, di Tria che non intende sforare l’1,6 per cento promesso all’Ue, hanno respinto persino la proposta di Tria di fissarlo all’ 1,9%, un punto sopra quello a cui si era impegnato il governo Gentiloni (sarebbe stata una stangata da oltre 15 miliardi), dopo aver a lungo pensato di farlo salire fino all’ 1,6% già accordato da Bruxelles, in modo da mostrare un minimo dell’aggiustamento strutturale imposto dal Fiscal compact.
Dopo una giornata di tensione, Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno invece deciso di andare allo scontro: nel vertice a Palazzo Chigi alla presenza del premier Giuseppe Conte e del ministro degli Affari europei Paolo Savona (l’ uomo che ha indicato il collega dell’economia dopo essere stato retrocesso dal Quirinale), chiederanno a Tria di portare il deficit al 2,4%, livello che aprirebbe uno spazio fiscale da quasi 20 miliardi per poter avviare il programma di governo (Reddito di cittadinanza, Fornero, Flat tax). Tria ora ha una sola scelta. O cede o lascia. La mediazione a questo punto non è sul fatto che si debba o si possa fare deficit per approvare la manovra, ma sul quantum del deficit.  Tria è solo. Il premier Giuseppe Conte, che pure nei giorni scorsi aveva incontrato i vertici del Tesoro per rassicurarli dopo gli attacchi arrivati dalla maggioranza di Governo, è stato chiaro:
“Non considero, prima ancora che politicamente, moralmente accettabile un’azione di governo che non si preoccupi adeguatamente di assicurare a tutti i cittadini condizioni di vita eque e pienamente dignitose”,
ha spiegato Conte da New York, da dove rientrerà oggi per presiedere il vertice e il consiglio dei ministri. Come andrà a finire? O Tria trova una mediazione sul 2 per cento di deficit o lascia il Governo. I 5Stelle non hanno dubbi: i vertici tecnici del Tesoro non sono affidabili, i soldi ci sono ma loro li nascondono. “Ci fidiamo di Tria – attacca Di Maio – ma lo sanno tutti che dentro questi ministeri ci sono tanti tecnocrati collocati lì dai partiti, una zavorra del vecchio sistema di cui dobbiamo liberarci”. E a chi gli ricorda che la Francia chiede il rispetto dei vincoli di Bilancio e che il commissario europeo francese Pierre Moscovici chiede all’Italia di non fare deficit, Di Maio risponde con pacatezza che non accetta lezioni di europeismo e di buona finanza pubblica da chi si è distinti negli anni nel non rispettare alcuno degli obblighi europei in fatto di rapporto deficit/pil. 
“Moscovici – scrive Di Maio – è il commissario europeo per gli Affari Economici e Finanziari, questo non gli dà assolutamente il diritto di dire all’Italia, Paese sovrano, cosa deve fare con i suoi soldi. L’unico obbligo che rispettiamo è quello del 3%, quello a cui dovrebbero sottostare tutti i Paesi Europei e che la Francia per anni non ha rispettato”. E poi pubblica il grafico dell’andamento del rapporto deficit/pil in Francia.

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Economia

Economia della Ue con il fiato corto, euro ai minimi

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L’economia europea ha il fiato corto e a risentirne è l’euro che scivola ai minimi da due anni rispetto al dollaro di fronte alla doccia fredda degli indici Pmi, una misura del grado di fiducia dei responsabili agli acquisti delle imprese. Il biglietto verde, da parte sua, continua ad avanzare, e non solo rispetto alla moneta unica, sull’onda della vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali. E lo stesso fa il Bitcoin, che prosegue il rally e supera i 99.300 dollari, ormai diretto verso la soglia dei 100.000 grazie alla sostegno del nuovo presidente americano alle criptovalute e all’idea di un regolamentazione più benevola. Il pmi composito dell’eurozona, finito a novembre a 48,1 (contro le attese che lo davano a 50), complice il calo inaspettato nei servizi più ancora che nell’industria manifatturiera, ha frenato le Borse del Vecchio Continente nella prima parte della giornata.

Non ha aiutato la revisione al ribasso del Pil della Germania, cresciuto nel terzo trimestre solo dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti. A far scattare le vendite sull’azionario hanno contribuito le scommesse del mercato su un taglio deciso dei tassi, di 50 punti base, alla prossima riunione Bce per dare ossigeno alle economie della zona euro in una scenario ormai di stagnazione: bassa crescita e inflazione non ancora sotto controllo. La prospettiva di tassi di interesse più bassi ha avuto l’effetto di far calare i rendimenti dei titoli di Stato a partire dal Bund tedesco, sceso al 2,23%. Quello dell’Oat francese è diminuito al 3% e del Btp italiano al 3,5%. Lo spread si è allargato intanto sopra i 126 punti base.

Le Borse europee hanno invece rialzato la testa nell’ultima parte della seduta sulla scia di Wall Street, spinto dal Pmi composito negli Stati Uniti, arrivato a 55,3 meglio delle stime a conferma di un’economia in crescita. A fine giornata il maggior rialzo lo ha messo a segno Londra (+1,38%) indifferente agli indici Pmi del Regno Unito, anch’essi in flessione. Ha fatto tutto sommato bene anche la Borsa di Francoforte (+0,92%) malgrado i brutti dati Pmi e il Pil deludente. Parigi ha registrato un guadagno finale dello 0,52% malgrado anche nella seconda maggiore economia dell’eurozona gli indici Pmi siano stati sotto le attese. Meglio intonata Piazza Affari (+0,6%) malgrado abbiamo perso terreno le banche, in sintonia con i big del credito spagnoli Santander e Bbva penalizzati dalla decisione del governo di Madrid di aumentare la tassa sugli extraprofitti. Con l’effetto di far segnare alla Borsa del Paese solo un timido +0,39%.

L’euro in serata si è confermato debole col cambio sul dollaro a 1,042, ai minimi da novembre 2022. Che la Bce si prepari a nuovi tagli dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, di fronte a un target d’inflazione al 2% che dovrebbe essere raggiunto a metà 2025, lo ha detto anche il presidente della Bundesbank Joachim Nagel, spiegando che i dati Pmi di oggi confermano lo scenario di stagnazione dell’economia tedesca. Nel complesso, visti i Pmi, difficilmente la situazione avrebbe potuto rivelarsi peggiore, è l’opinione condivisa dagli analisti secondo cui il settore manifatturiero dell’eurozona sta affondando sempre più nella recessione. Dopo due mesi in lieve crescita anche il settore dei servizi inizia poi a essere in difficoltà. E non c’è troppo da stupirsi considerato la confusione politica delle maggiori economie dell’area: il governo francese si muove su un terreno instabile e la Germania è alle prese con le elezioni anticipate. A tutto questo si aggiunge Donald Trump e la minaccia concreta di nuovi dazi sulle importazioni. Alle aziende europee non resta che navigare a vista.

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Economia

Moody’s, Pil Italia sotto 1%, impegnativa spesa Pnrr

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La crescita dell’Italia si mantiene moderata e quest’anno sarà sotto l’1%, con un deficit in calo al 4,6% e un debito che invece sale. L’analisi di Moody’s (nella foto Imagoeconomica in evidenza) mostra come i fondi del Pnrr continuano a sostenere le prospettive dell’Italia. Ma per il Belpaese sarà “impegnativo” spendere tutte le risorse disponibili dal programma entro il 2026 anche perché la spesa è stata finora inferiore al previsto. “Tassi di interessi elevati e un potenziale di crescita di circa lo 0,8% richiederanno un ampio aggiustamento fiscale per raggiungere e mantenere avanzi primari in grado di stabilizzare il debito”, afferma Moody’s annunciando il completamente della revisione del rating dell’Italia che, precisa, “non è un’azione sul rating e non è un’indicazione” sulle future decisioni sul rating. L’Italia ha al momento un rating Baa3 con outlook stabile.

“In un contesto di tassi di interesse più elevati, l’aumento del potenziale di crescita e gli avanzi primari saranno fondamentali per evitare un significativo aumento del debito”, aggiunge Moody’s spiegando come la riduzione del deficit – al 3,5% nel 2025 e al 3% nel 2026 – “non sarà sufficiente” per un calo del rapporto debito-pil in seguito agli effetti del Superbonus. L’agenzia prevede che il debito italiano salirà al 139,7% del pil nel 2024 dal 134,8% del 2023 e continuerà a salire fino al 2027 a oltre il 143%. I risultati ottenuti dall’Italia nell’attuazione del Pnrr sono “contrastanti”: l’Italia è stato il primo paese dell’Ue a chiedere le ultime tranche di finaziamento e “prevediamo che la settima tranche sarà richiesta entro la fine del 2024. Tuttavia la spesa di queste risorse è stata inferiore al previsto e la spesa totale dei fondi disponibili entro la fine del 2026 sarà impegnativa”, mette in evidenza ancora Moody’s. L’agenzia potrebbe alzare il rating nel caso di fossero prove di una crescita sostanzialmente più forte: “un miglioramento del potenziale di crescita contribuirebbe a mettere il debito su una chiara traiettoria discendente”. Il rating invece potrebbe essere rivisto al ribasso se “anticipassimo un significativo indebolimento della forza economica e di bilancio dell’Italia”.

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Economia

Campagna pomodoro chiude in calo del -2,5% rispetto al 2023

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La campagna di trasformazione del pomodoro 2024 in Italia si è chiusa con una produzione di 5,3 milioni di tonnellate, in leggera riduzione (-2,5%) rispetto al 2023 ma con una sostanziale flessione rispetto alle programmazioni fatte, in particolare nel bacino Nord, nonostante un maggiore investimento in ettari a livello nazionale (+11% sul 2023). Lo comunica Anicav. L’Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali sottolinea che è stata “una campagna molto complessa con siccità a Sud e sovrabbondanza di piogge al Nord che hanno causato frequenti fermi fabbrica e allungato il periodo di lavorazione fino ad inizio novembre”.

Il report di produzione registra che al Centro Sud sono state trasformate 2,87 milioni di tonnellate (+10% rispetto al 2023) mentre nel bacino Nord il trasformato finale è stato di 2,4 milioni di tonnellate (-14% rispetto allo scorso anno), “tutto ciò nonostante – fa presente Anicav – l’incremento delle aree trapiantate rispetto alla scorsa campagna di trasformazione”. L’associazione segnala che l’Italia si conferma il terzo Paese trasformatore di pomodoro a livello mondiale, dopo la Cina (che registra un incremento del 31% rispetto al 2023 e del 68% sul 2022) e gli Usa (in calo del 14% sulla scorsa campagna).

“Quella appena conclusa è stata – afferma Marco Serafini, presidente di Anicav – una campagna molto complicata. Le problematiche legate alla gestione delle risorse idriche, in particolare, hanno avuto un importante impatto sull’andamento della campagna e, se non si correrà ai ripari, la situazione sia al Nord che al Sud potrebbe, nei prossimi anni, diventare insostenibile. C’è bisogno, quindi, di interventi infrastrutturali finalizzati all’efficientamento della filiera e a scongiurare i rischi legati all’emergenza idrica, la costruzione della diga di Vetto nel bacino Nord e la creazione di un’opera infrastrutturale di collegamento tra la diga di Occhito, in provincia di Foggia, e quella del Liscione, in provincia di Campobasso, rappresenterebbero una prima importante risposta per il nostro settore.”

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