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Settimana della verità per il M5S, c’è il divorzio con Grillo che preoccupa

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Per il Movimento 5 Stelle è iniziata una settimana cruciale, durante la quale si delineerà il futuro del partito. Dopo la campagna di ascolto della base, che ha coinvolto 300 militanti estratti a sorte e 60 tra “saggi” e giovani, sono stati selezionati 12 temi chiave che verranno discussi all’Assemblea costituente in programma a Roma il 23 e 24 novembre. Oggi, il Consiglio nazionale del partito si riunirà per definire ulteriormente il percorso.

Verso una riforma profonda per il M5S

Da mercoledì a venerdì, il Movimento renderà noti i quesiti che saranno oggetto di voto, ciascuno legato ai 12 temi individuati. Questi quesiti mirano a innescare una “profonda riforma” per rilanciare il M5S, come annunciato dal leader Giuseppe Conte. Negli ultimi anni, infatti, il Movimento ha registrato un costante calo di consensi: dal 32,7% ottenuto alle Politiche del 2018, è sceso al 17,1% alle Europee del 2019, fino al 15,4% alle Politiche del 2022, per poi precipitare sotto la soglia del 10% alle Europee del giugno scorso.

Caduta e tentativo di rilancio

La crisi di consenso ha accelerato la volontà di Conte di rinnovare il partito per evitare ulteriori perdite di leadership. A peggiorare la situazione, i risultati delle recenti Regionali in Liguria, con il 4,6% dei voti, mentre il prossimo test elettorale in Emilia-Romagna e Umbria, previsto per il 18 novembre, potrebbe rappresentare un ulteriore banco di prova.

Quesiti e decisioni in bilico

L’Assemblea costituente avrà il compito di determinare i dettagli della riforma, e la formulazione dei quesiti da votare rimane una questione aperta. Giuseppe Conte, in qualità di presidente, potrebbe assumersi la responsabilità dell’ordine del giorno, ma per evitare polemiche è più probabile che la redazione dei quesiti sia affidata a un gruppo rappresentativo del Movimento. La questione centrale è il ruolo del “garante” e la possibile rimozione di Beppe Grillo, in rotta con Conte per il controllo del partito.

Un altro punto delicato è la proposta di cambiare il nome e il logo del Movimento, anche se questa ipotesi appare meno probabile nelle ultime ore, poiché abbandonare il marchio M5S potrebbe risultare controproducente.

Dimezzamento della case attiva nelle regioni del Sud

Un dato significativo emerso di recente riguarda la base attiva del Movimento: in regioni chiave come Campania, Calabria, Puglia e Basilicata, i militanti sono passati da 45.600 a 24.865. Mentre gli uomini vicini a Conte considerano questa riduzione come una selezione naturale della base realmente attiva, gli avversari interni lo interpretano come una strategia per ridurre le contestazioni da parte dei sostenitori di Grillo.

“Il nostro lavoro è concluso, la cessione di sovranità finisce qui”, ha dichiarato Iolanda Romano, fondatrice di Avventura Urbana, la società che ha gestito la campagna di ascolto, passando ora la “palla” al M5S.

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Imbarazzo nella maggioranza, il silenzio di Meloni

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La telefonata con “l’amico” Elon Musk arriva nel pomeriggio, dopo un silenzio interrotto solo da quel “ascoltiamo sempre con grande rispetto” le parole che arrivano dal Colle, fatto filtrare da Palazzo Chigi. Sono ore di imbarazzo, per la maggioranza e per Giorgia Meloni, alle prese peraltro nelle stesse ore con ben altri timori, che non vengono (solo) dal cambio di amministrazione a Washington – con cui bisognerà comunque aprire un nuovo dialogo – ma dall’impasse che blocca la nuova commissione a Bruxelles, e con lei la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo. Il patron di Tesla sarà pure entrato a gamba tesa nelle vicende italiane – e in molti anche tra i meloniani si chiedono il perché di tanto attivismo che “certo non giova al governo” – ma per ora, è la difesa d’ufficio, è un semplice “cittadino” (copyright della stessa Meloni interpellata già a Budapest proprio su Musk) e non ha “alcun incarico” di governo.

Dopo, quando sarà effettivamente parte della nuova amministrazione americana, è il ragionamento, si vedrà, si prenderanno le misure. Intanto meglio tenersi fuori dallo scontro, acceso, sugli interventi social del tycoon, su cui è intervenuto invece Sergio Mattarella con parole che qualcuno in Fdi “sottoscrive” perché, ricordano i luogotenenti della premier, le “ingerenze straniere” non sono mai piaciute al partito ed è un concetto che “vale sempre e con chiunque”. Il braccio destro della premier, Giovanbattista Fazzolari, fa riferimento a “governi” ma anche a “ong, grandi media”. Casi, nota a taccuini chiusi più di un parlamentare, in cui la voce del Colle non si è sentita. Certo però, ammettono i meloniani, Musk forse ha un po’ esagerato, soprattutto quando ha parlato di “autocrazia”. Un concetto che, racconta chi l’ha sentita poi, sarebbe stato oggetto anche della telefonata del pomeriggio tra la premier e Musk.

Meloni avrebbe ribadito direttamente al proprietario di Starlink e SpaceX che non sono opportune “ingerenze” negli affari interni degli altri Stati. Frasi che in pubblico non pronuncia, appunto, perché gli equilibri sono delicati e tutti da ricomporre di qui a quando Donald Trump rientrerà alla Casa Bianca. Nel frattempo meglio non sovraesporsi a livello internazionale, soprattutto mentre il progetto di avere un posto in prima fila nella squadra dell’Ursula bis di ora in ora è sempre più in pericolo. La situazione che le raccontano i suoi, è di un avvitamento molto più complesso di quanto ci si aspettasse, complice anche la “guerra” interna spagnola. Che è peraltro, ammettono nella maggioranza, speculare a quella che si sta consumando in Italia. Proprio il “sovranismo” a fasi alterne del Pd (che chiede al governo di respingere gli attacchi di Musk ma vuole “impallinare Fitto”) viene messo nel mirino dal partito della premier. Difficile, pronostica un veterano del Parlamento, che la partita si possa sbloccare a breve, di sicuro “non prima di lunedì”, quando sarà passata l’ultima tornata di elezioni amministrative.

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Rottura sulle nomine Ue, ora trema anche von der Leyen

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A due settimane dall’incoronazione della nuova Commissione di Ursula von der Leyen, la Commissione von der Leyen rischia di non esserci più. La possibilità che resti seppellita dal prolungato stallo alla messicana intavolato da popolari, socialisti e liberali è concreta, ed è arrivata fino al Palais Berlaymont. Dove la poltrona della presidente è meno salda di qualche giorno fa. A nulla è valso l’incontro che la leader dell’esecutivo Ue ha organizzato con Manfred Weber, Iratxe Garcia Perez e Valerie Hayer. I socialisti non voteranno Raffaele Fitto come vice presidente. Il Ppe, trascinato dalla delegazione spagnola, è pronto a strappare su Teresa Ribera.

E il baratro, per Ursula, non è più un’ipotesi dell’irrealtà. Il gioco dei veti incrociati, cominciato ad inizio settimana, è sfuggito di mano a tutti. Lunedì sera i tre leader della maggioranza avevano deciso di aggirare temporaneamente l’ostacolo votando contestualmente i sei candidati vice presidenti: la popolare Henna Virkkunen, i liberali Kaja Kallas e Stephane Sejourné, le socialiste Ribera e Roxana Minzatu e il conservatore Fitto. Non è servito a nulla. Tra socialisti e popolari sono volate accuse via via più pesanti. Nell’audizione all’Eurocamera, Ribera è stata duramente attaccata per le alluvioni in Spagna. E la linea del Ppe si è mostrata in linea con quella del Partido Popular: il sì alla fedelissima di Pedro Sanchez può arrivare solo dopo che Ribera avrà chiarito, nel Parlamento iberico, di non essere coinvolta nel disastro di Valencia. Appuntamento che è calendarizzato per il prossimo 20 novembre: un’eternità, in un clima da lunghi coltelli. Ma se la Ribera traballa, non va meglio per Fitto.

In un gioco di specchi tra vittime e carnefici, i socialisti sembrano aver messo un punto sul candidato di Giorgia Meloni. “Non lo voteremo in nessun caso, la fiducia è rotta. Il pacchetto per noi è di cinque vice presidenti, il Ppe lo voti con l’estrema destra”, hanno sottolineato fonti del gruppo S&D. All’interno del gruppo anche le posizioni dei dem, sulla scia dello scontro continuo da un lato con il Ppe e dall’altro con la premier italiana, si sono irrigidite. Innescando nuovamente l’ira di Meloni: “Signore e signori, ecco a voi la posizione del gruppo dei socialisti europei, nel quale la delegazione più numerosa è quella del Pd di Elly Schlein. L’Italia, secondo loro, non merita di avere una vicepresidenza della Commissione. Questi sono i vostri rappresentanti di sinistra”, ha ruggito via X la presidente del Consiglio. “Basta favole, nel 2019 eri contro la nomina di Gentiloni a commissario europeo e organizzavi addirittura una protesta davanti a Palazzo Chigi”, ha replicato il dem Dario Nardella. Mentre Schlein ha proseguito con la linea del silenzio, sostenendo che Meloni, attaccando su Fitto, vuole distrarre l’attenzione dalla manovra. A tarda sera, sull’Eurocamera, è scesa una coltre di incertezza. Con un punto fermo, però. La palla ora è nel campo di von der Leyen.

Lo sostengono i socialisti, lo argomentano i liberali, lo sussurra, con maliziosa discrezione, anche qualche popolare. A complicare il quadro ci sono le vicende politiche di Spagna e Germania. La prima alle prese con gli strascichi delle devastazioni di Valencia. La seconda prossima ad una tornata elettorale dove la Cdu è data per favorita e l’Spd si contenderà il secondo posto con l’estrema destra di Afd. Non è un caso che l’accusa costante che da socialisti, liberali e Verdi viene fatta a Weber sia quella di voler fare asse con le estreme destre. Solo che, con la Germania al voto e l’uragano Trump in arrivo, per Weber il gioco si complica. Ma a farne le spese potrebbe essere la presidente della Commissione. La numero uno dell’esecutivo europeo probabilmente sarà costretta ad un giro di colloqui con le capitali. Provando a scongiurare così l’ombra più nera, quella delle dimissioni. Gli ipotetici piani B sono già partiti nei chiacchiericci all’Eurocamera. Con un nome evocato qua e là: quello di Mario Draghi. Che mentre a Bruxelles la maggioranza Ursula si sbriciolava era a Parigi, a cena con Emmanuel Macron.

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Check sul Ponte Stretto, si valuta impatto ambientale

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Tempo d’esami per il progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto. L’apposita commissione Via ha iniziato la valutazione finale dell’opera sul fronte ambientale. Il giudizio, che potrebbe essere positivo anche se con qualche osservazione, potrebbe arrivare già nelle prossime ore. A spingere sul pedale dell’acceleratore è stato lo stesso ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini. “E’ in arrivo la Valutazione di impatto ambientale definitiva sul Ponte – ha detto parlando al forum di Conftrasporto – Non è il ponte di Salvini e sarà un cambio totale di prospettiva”.

Il ministro non ha perso l’occasione di ironizzare: “Vediamo se pesciolini, alghe e uccellini permettono all’Italia di fare quello che fanno tutti, cinesi, giapponesi, coreani, americani che fanno ponti in tutto il mondo senza che alghe e pesciolini se ne curino più di tanto”. Ma intorno all’opera in questi ultimi giorni non sono mancate le polemiche: prima la notizia del mancato via libera dell’Ingv sul rischio sismico e poi l’accusa del leader di Avs, Angelo Bonelli, secondo cui proprio sulla Commissione di Valutazione c’è stato “un vergognoso blitz da parte del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin”, che ha nominato 12 nuovi componenti, “quasi tutti politici” e “quasi tutti in quota FdI”. Saranno loro a valutare l’impatto dell’eventuale opera sull’ambiente. Sul controverso progetto del Ponte scende in campo anche la Cgil.

“Non si ripetano gli errori del passato, non si autorizzi un’opera priva delle certificazioni necessarie”, avverte il segretario confederale della Cgil Pino Gesmundo. “La presidente del Consiglio Meloni intervenga per chiarire se il suo governo è davvero intenzionato a procedere nonostante il divieto di edificazione sulle faglie sismiche previsto da una circolare della Protezione civile”, aggiunge il leader sindacale, sottolineando che “quanto emerge dalla nota dell’Ingv è gravissimo, e rischia di essere il campanello di allarme su un possibile procedimento autorizzativo irregolare”.

E fa sentire nuovamente la propria voce anche Legambiente. “Sul ponte sullo Stretto è importante continuare a far emergere quello che è un progetto che diciamo sostanzialmente ancora non esiste, che rischia di mobilitare 13 miliardi di euro, questo era scritto nella legge di bilancio dello scorso anno, e che ha previsto una serie di stanziamenti nei prossimi anni”, ha detto il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani. “Miliardi che potrebbero essere molto più utilmente dedicati per aprire altri cantieri”, ha aggiunto.

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