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L’ira di Israele, ‘dura risposta ai droni di Hezbollah’

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Israele si scopre vulnerabile, i droni nemici potrebbero causare decine se non centinaia di vittime civili. Come ha dimostrato l’attacco di domenica sera alla base militare di Binyamina, dove un velivolo senza pilota di Hezbollah ha sfondato il tetto della mensa all’ora di cena uccidendo quattro reclute 19enni. Decine di altri soldati sono rimasti feriti. Poco dopo il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha parlato al telefono con l’omologo Usa Lloyd Austin per sottolineare “la gravità dell’attacco e la forte risposta che sarà data a Hezbollah”.

Benyamin Netanyahu ha visitato la base attaccata annunciando che Israele continuerà a colpire Hezbollah “senza pietà”, anche a Beirut, ha assicurato dopo che i media avevano riferito che il premier aveva ordinato all’Idf di astenersi dal colpire la capitale libanese su richiesta di Washington. E al suo ritorno ha convocato un incontro ristretto sulla prossima mossa da affidare all’esercito dopo il ‘catastrofico’ – come viene definito nel Paese – colpo messo a segno dai miliziani sciiti. Intanto resta altissima la tensione nelle basi Unifil del Libano meridionale dopo il ferimento di cinque caschi blu.

In mattinata una serie di ordigni esplosivi incendiari lungo la strada che conduce alla base operativa avanzata UNP 1-32A è stata individuata da una pattuglia del contingente italiano. Gli artificieri hanno messo in sicurezza l’area ma uno degli ordigni si è innescato provocando un incendio, fortunatamente senza danni per i militari. Sulla questione del contingente Onu è intervenuto il ministro dell’Energia Eli Cohen accusando le forze di peacekeeping di essere “inutili”, di non aver “garantito l’applicazione delle risoluzioni Onu e fatto da scudo a Hezbollah”.

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha parlato da Berlino, ribadendo che i soldati italiani (oltre mille) non lasceranno le loro postazioni e che se l’obiettivo è quello di disarmare Hezbollah, “le attuali regole di ingaggio dell’Unifil non vanno bene. Sono le Nazioni Unite che devono scegliere”. Poi, insieme con gli omologhi di Francia, Germania e Regno Unito, ha firmato una nota per esprimere “profonda preoccupazione per i recenti attacchi dell’Idf alle basi Unifil”, chiedendo che cessino immediatamente.

In allerta massima per il timore di aggressioni è anche l’Idf: nel pomeriggio ha fatto sapere che in questo momento la priorità è eliminare l’unità 127 di Hezbollah, responsabile della gestione dei velivoli senza pilota, uccidendo ogni singolo membro. Non solo, alla luce del colpo alla base militare, l’Iaf ha deciso di ampliare le aree di allerta. Gli ufficiali inoltre hanno individuato un nuovo protocollo: gli addetti ai radar dovranno presupporre che un drone stia ancora volando anche se scompare dagli schermi e indicheranno che si è schiantato solo quando saranno trovate le prove a terra. Da quando è iniziata la guerra, è la prima volta che l’Idf prende una decisione del genere, ammettendo sostanzialmente che il sistema di difesa aerea ha un pericoloso buco.

Come dimostrano almeno altri due casi: a luglio un mini aereo lanciato dagli Houthi ha percorso 1.800 chilometri dallo Yemen prima di esplodere vicino all’ambasciata Usa a Tel Aviv uccidendo un uomo. Poi, l’11 ottobre, era Yom Kippur, un altro drone, proveniente dal Libano, si è schiantato contro una casa di riposo a Herzliya. Elicotteri e caccia hanno volato a bassissima quota sulla città inseguendolo nel tentativo di abbatterlo ma senza successo. Il portavoce dell’Idf nella notte di lunedì, parlando vicino alla base di Binyamina, ha confermato che Israele “deve migliorare la difesa”.

Il nervosismo delle forze di difesa si è sentito nel tardo pomeriggio, quando tre razzi in volo dal Libano verso il centro di Israele hanno fatto suonare l’allarme a Tel Aviv e in altre 180 località per precauzione: dalla zona di Cesarea all’area di Rishon Lezion milioni di persone sono corse nei rifugi. Sul fronte libanese, le truppe israeliane continuano a espandere la manovra di terra, ma anche i raid aerei hanno mirato a zone del Paese finora rimaste fuori dalle mappe del conflitto: 21 persone sono state uccise in un villaggio nel nord, Aitou, a maggioranza cristiana.

A Nabatiye, 60 chilometri a sud di Beirut, l’Iaf ha bombardato l’area dove si nascondeva un gruppo di miliziani uccidendo un comandante della forza d’élite Radwan. Al confine con Israele è stata scoperta una delle basi dei miliziani, imbottita di missili e mezzi, pronta per essere usata per “invadere la Galilea”, ha detto il portavoce dell’esercito in video da dentro il comando sottoterra. Su tutto incombe la risposta che lo Stato ebraico sta preparando contro l’Iran per gli attacchi missilistici del primo ottobre: “Ci sarà”, ha confermato il ministro degli Esteri Israel Katz al telefono con l’omologo cinese Wang Yi, chiedendo a Pechino di esprimere “una posizione equilibrata e giusta in relazione alla guerra imposta a Israele”.

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Sull’embargo delle armi a Israele l’Ue resta divisa

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L’Ucraina sarà stato anche il primo punto all’ordine del giorno del Consiglio Esteri del Lussemburgo ma è il Medio Oriente a tenere banco, tra divisioni e difficili compromessi per avvicinare le posizioni dei 27. L’Ue ha trovato finalmente le parole per condannare ad una sola voce gli attacchi d’Israele al contingente Unifil – “ci abbiamo messo troppo tempo per una cosa ovvia”, è il rammarico dell’alto rappresentante Josep Borrell – ma sul resto (quasi tutto) zoppica. Come ad esempio sulla questione di un possibile embargo alle forniture d’armi, ventilato da Emmanuel Macron e Pedro Sanchez. “Si potrebbero citare altri Stati membri che si trovano nella situazione opposta e chiedono una maggiore fornitura di armi a Israele”, nota Borrell. La verità è che si tratta di una “competenza nazionale” e per cambiare le cose ci vorrebbe una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (improbabile) oppure una decisione all’unanimità dei 27 (altrettanto impossibile, come spiegato dall’alto rappresentante).

Dunque si procede alla spicciolata. La posizione dell’Italia viene spiegata dal ministro Antonio Tajani, a Berlino per il vertice sui Balcani. “Dal 7 ottobre dell’anno scorso – ha detto – noi abbiamo bloccato tutti i contratti che riguardano la vendita di armi ad Israele, come previsto dalla legge; se poi usano armi vendute in passato non lo so”. Roma, anche in funzione di presidente del G7, è al lavoro per contenere la crisi. L’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al-Thani, sarà in visita di Stato in Italia il prossimo 21 ottobre. Ed è in questo quadro che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni starebbe valutando una missione in Medio Oriente nei prossimi giorni, con il Libano fra le possibili tappe. Per quanto riguarda l’Unifil, l’Ue ha definito “gravi violazioni del diritto internazionale” gli attacchi degli scorsi giorni e ha chiesto “spiegazioni immediate” a Tel Aviv.

I ministri degli Esteri di Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna oggi hanno ribadito la “preoccupazione profonda” in una nota congiunta e hanno chiesto che gli attacchi “cessino immediatamente”. Borrell, dal canto suo, ha esortato Israele a non minimizzare. Da un lato, infatti, ha definito gli episodi come “incidenti”, ma poi ha suggerito il ritiro come soluzione per evitarli. “L’Unifil non si ritira, sta dove deve stare, fino a che il Consiglio di sicurezza dell’Onu non prenderà una decisione in merito: gli attacchi vanno assolutamente evitati e non possono essere giustificati come ‘incidenti'”, ha aggiunto. Il Consiglio Esteri ha però varato delle misure pratiche contro l’Iran per il suo coinvolgimento nella guerra in Ucraina (nello specifico per aver fornito droni e missili balistici a Teheran).

Sette individui e sette entità sono stati sottoposti a misure restrittive e tra queste figurano tre compagnie aeree iraniane, inclusa l’Iran Air (le altre due sono Saha Airlines e Mahan Air). Inoltre, il Consiglio ha deciso di imporre misure restrittive nei confronti del vice ministro della Difesa iraniano, Seyed Hamzeh Ghalandari – oltre che ufficiali di spicco della Forza Qods del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (Irgc), del Quartier Generale Centrale dell’Irgc Khatam al-Anbiya e della Divisione Spaziale della Forza Aerospaziale dei Pasdaran, nonché gli amministratori delegati delle società Iran Aircraft Manufacturing Industries (Hesa) e Aerospace Industries Organization (Aio), quotate nell’Ue.

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La Cina accerchia Taiwan, tensione alle stelle

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Un numero record di incursioni di jet militari, elicotteri e droni in poco più di 12 ore, combinato allo schieramento delle forze missilistiche, navali e a quello inedito della guardia costiera, ha portato all’accerchiamento di Taiwan. La Cina ha mostrato i suoi muscoli alla provincia ribelle finita in stato di massima allerta per le manovre militari lampo ‘Joint Sword 2024/B’, le seconde della serie “punitiva” avviata a maggio come “severo avvertimento” alla leadership dell’isola di fronte “agli atti separatisti delle forze indipendentiste di Taiwan”.

Le operazioni sono state lanciate senza notifiche preventive, indicazioni di aree interessate dalle attività e durata, e con un perimetro d’azione entrato per la prima volta nelle 24 miglia nautiche della zona contingua. Insomma, passi ulteriori della ‘strategia dell’anaconda’ teorizzata dall’ammiraglio capo della flotta militare taiwanese, Tang Hua, in un’intervista all’Economist, basata sull’escalation mirata di attività militari con cui le forze armate cinesi soffocano l’isola nella loro morsa. “Abbiamo individuato 125 jet militari cinesi, elicotteri e incursioni di droni alle 16.30 locali, il record giornaliero più alto”, ha riferito il tenente generale taiwanese Hsieh Jih-sheng. La portaerei cinese Liaoning, schierata ad est, ha esercitato “pressione e abbiamo monitorato i decolli dei suoi jet da combattimento J-15”. Il presidente taiwanese William Lai ha riunito il Consiglio di sicurezza, con il ministro della Difesa Wellington Koo e altri funzionari. Mentre da Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha espresso “seria preoccupazione” per le mosse cinesi, “ingiustificate e a rischio di escalation”.

Quanto ai fini della postura di Pechino, Su Tzu-yun, direttore strategia e risorse di difesa del National Defense and Security Research di Taiwan, ha osservato che “il fulcro delle manovre è stato un blocco della parte meridionale e settentrionale di Taiwan, mirando ai porti di Taipei, di Keelung e di Kaohsiung, nonché a quello di Hualien sulla costa orientale”. In altri termini, le sei zone di interdizione tracciate dalla Cina hanno avuto il fine di “inibire” porti e basi militari per impedire l’uso da parte di Taipei delle sue forze armate. Su ha interpretato poi la collaborazione tra la Marina e la guardia costiera cinesi come lo sforzo per fare di Taiwan e delle sue acque circostanti il “mare interno” della Cina, stroncando ogni supporto esterno. La guardia costiera, a tal proposito, ha pubblicato una mappa con i suoi pattugliatori intorno a Taiwan a formare un cuore perché “l’accerchiamento è un atto d’amore”. La Liaoning, in questo scenario, potrebbe aver avuto il ruolo di simulare una portaerei Usa, ha notato Ying yu-lin della Tamkang University in un post su X, per studiare le soluzioni per neutralizzarla.

La prova di forza è stata legata da Pechino al discorso “indipendentista” del presidente William Lai per la Festa nazionale del 10 ottobre, secondo cui la Repubblica popolare non ha il diritto di rappresentare Taiwan e “la Repubblica di Cina (il nome ufficiale di Taiwan, ndr) e la Repubblica popolare non sono subordinate l’una all’altra”. La Cina considera l’isola parte del suo territorio “sacro” e “inalienabile”, come ha ribadito il recente il presidente Xi Jinping. Tuttavia, Michael Cole, analista sulla sicurezza basato a Taipei, s’è detto sicuro che Pechino volesse le manovre. A dispetto del monito alla moderazione del segretario di Stato americano Antony Blinken e con l’attenzione dell’Occidente su Medio Oriente, Ucraina e presidenziali Usa, “le operazioni come queste sono ben pianificate”, ha osservato. Aggiungendo che sono state lanciate in un momento in cui la Corea del Nord sembra mobilitarsi “per qualche tipo di azione militare o dimostrazione rivolta alla Corea del Sud”. Una sorta di coordinamento tra Pechino e Pyongyang? Non da escludere, secondo Cole, per testare come Usa e alleati regionali avrebbero risposto a contingenze simultanee. “C’è un elemento di guerra cognitiva in tutto questo”, un aspetto affatto secondario.

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Wsj: droni misteriosi sorvolano base Usa, Pentagono perplesso

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Droni misteriosi hanno sorvolato, lo scorso dicembre per 17 giorni, la base militare di Langley, in Virginia, violando lo spazio aereo su un’area che ha la maggiore concentrazione di strutture di sicurezza nazionale negli Stati Uniti e innervosendo il Pentagono. Lo riporta il Wall Street Journal citando alcune fonti, secondo le quali non è chiaro chi controllasse i droni o tantomeno a chi appartenessero.

La legge federale vieta che siano abbattuti vicino alle basi militari se non rappresentano un problema di sicurezza. Gli avvistamenti, tutti i giorni alla stessa ora, sono stati notificati anche al presidente Joe Biden. E mettono in evidenza – osserva il Wall Street Journal – il dilemma degli Stati Uniti fra il difendersi in casa dai droni e usarli invece facilmente all’estero. Per far fronte all’emergenza, a Langley sono state cancellate le esercitazioni notturne per diverso tempo. Ancora oggi a mesi di distanza non è chiaro chi ci sia stato dietro i droni, avvistati negli ultimi mesi anche nei pressi della base militare di Edwards, vicino Los Angeles.  8

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