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Spettacoli

Tony Effe a Vanity Fair, ‘il dissing con Fedez è tutto un gioco’

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Nicolò Rapisarda, in arte Tony Effe, parla in esclusiva a Vanity Fair del dissing più chiacchierato del momento che lo vede coinvolto insieme a Fedez. Protagonista della cover digitale di questa settimana, il rapper romano, 33 anni, una band con cui ha raggiunto successo e fama (la Dark Polo Gang), una hit estiva da milioni di stream (Sesso e samba, con Gaia), un tour nei palazzetti in partenza a breve, è l’autore della canzone virale Chiara, piena di accuse e insulti al rapper di Rozzano. Com’è cominciato il dissidio con Fedez? Eravate amici, poi che cos’è successo?

“Ma no, è solo musica. Il dissing è una cosa che si fa da sempre e che non si deve spiegare, altrimenti finisce il gioco. C’è chi sfrutta l’onda per i propri scopi, chi per divertirsi come me”, la risposta. “Fa parte del gioco”, aggiunge Tony Effe che ricorda “Il dissing esiste da sempre, l’ultimo famoso è quello tra Kendrick Lamar e Drake. Forse in Italia la gente non lo capisce. È solo musica”. È stato accusato di misoginia per come parla delle donne nel dissing.

“Non sono misogino, ci mancherebbe, io lavoro con le donne e le tratto benissimo. È solo musica e bisogna leggere quel verso nel contesto: è rap. Si usano quelle parole, quella forma. Si raccontano cose belle, cose brutte, si raccontano le donne in tutte le sfaccettature”. “È una battaglia a chi fa più male. Magari la gente che non conosce questa cultura non capisce”. Ma perché tirare in mezzo le donne? “Perché le donne sono più potenti di noi”. Può esistere un rap non misogino? “Può esistere ma non è il mio rap. Io poi faccio di tutto, anche pop. Sono bravo a fare tutti i tipi di musica, molto semplicemente”.

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Cinema

Addio Maggie Smith, icona di Harry Potter e Dowton Abbey

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Un volto e una voce unici, irripetibili e inconfondibili nelle sue capacità di espressione: una leggenda del teatro britannico e del cinema mondiale. Il Regno Unito e moltitudini di spettatori sparsi per il pianeta dicono addio a Maggie Smith, attrice iconica, protagonista d’interpretazioni memorabili in più di 70 anni sulle scene, morta oggi 89enne in un ospedale di Londra. “È con grande tristezza che dobbiamo annunciare la morte di Dame Maggie Smith”, ha scritto la famiglia nel rendere pubblica la notizia, non senza ricordarne quel titolo di ‘dame’, frutto della decorazione a cavaliere dell’ordine dell’impero britannico concessole a suo tempo dalla regina Elisabetta II, raramente più meritato e dovuto.

“È spirata pacificamente in ospedale questa mattina presto, venerdì 27 settembre”, hanno precisato in un breve comunicato i due figli, Chris Larkin e Toby Stephens, attori come lei. Innescando una cascata di messaggi di cordoglio, dal mondo delle istituzioni britanniche a quello dell’arte e della cultura, da Londra a Hollywood al resto del pianeta. L’aggettivo “leggendaria”, troppo spesso abusato, si adatta del resto alla perfezione alla sua lunga, straordinaria carriera: iniziata negli anni ’50 sul palcoscenico inglese dell’Oxford Playhouse Theatre come interprete shakespeariana, sino agli esordi cinematografici al tramonto di quel decennio, al temporaneo trasferimento negli Usa negli anni ’60 e ai primi grandi successi dei ’70.

Una carriera andata avanti fino ad appena un anno fa, quando recitò in ‘The Miracle Club’, di Thaddeus O’Sullivan, e che non si esaurisce certo nella pur enorme popolarità globale assicuratale in età matura, negli anni 2000, sia dalla saga cinematografica di Harry Potter (dove fu l’unica attrice ad essere personalmente richiesta dall’autrice JK Rowling, per la parte di Minerva McGranitt, e in cui recitò a dispetto di un tumore al seno poi superato), sia dalla serie televisiva cult Downton Abbey (nelle vesti di Violet Crawley, inflessibile contessa madre di Grantham). Come dimostra un palmares d’eccezione in cui spiccano non solo i due premi Oscar ricevuti nel 1970 come migliore attrice protagonista per ‘La strana voglia di Jean’ di Ronald Neame (nei panni dell’anticonformista professoressa Jean Brodie) e come non protagonista accanto a Michael Caine in ‘California Suite’ di Herbert Ross (1979); ma pure altre quattro nomination dell’Academy hollywoodiana, tre Golden Globe, cinque premi BAFTA britannici, cinque Screen Actors Guild Awards, quattro Emmy, un Tony Award e tutta una serie di candidature sparse lungo i decenni.

Il segno di un riconoscimento a tutto tondo del suo talento, e di una personalità tanto marcatamente inglese quanto universale, che già nel 1963 – anno in cui il grande Laurence Olivier le offrì la parte di Desdemona accanto al suo trionfale Otello sulle tavole del National Theatre – le aveva permesso “quasi di rubare la scena” a Richard Burton e Liz Taylor – nella parole della critica – comparendo da coprotagonista nel suo primo vero film di successo al cinema, ‘International Hotel’ di Anthony Asquith. Il tutto passando attraverso esperienze e generi di ogni tipo, da ‘Camera con vista’ di James Ivory (1985) a ‘Gosford Park’ di Robert Altman (2001, ultima sua nomination all’Oscar); da ‘In viaggio con la zia’, di George Cukor (1972) a ‘Il giardino segreto’ e ‘Washington Square’ di Agnieszka Holland. Senza dimenticare i ruoli nei kolossal ‘Assassinio sul Nilo’, tratto da Agatha Christie, del 1978, o ‘Capitan Uncino’, di Steven Spieberg, del 1991, entrambi con cast stellari; o ancora le partecipazioni in ‘Sister Act’ e ‘Sister Act 2’, la reunion datata 2004 in ‘Ladies in Lavender’ con l’amica e coetanea Judi Dench, altra grandiosa dama del cinema e del teatro d’oltre Manica, e la prova magistrale esibita a 80 anni compiuti in ‘The Lady in the Van – La signora del furgone’, del 2015, valsale l’ennesima candidatura a un Golden Globe.

E infine, sul fronte dei rapporti con l’Italia, l’incontro con Franco Zeffirelli: dapprima in teatro a Londra, poi sul set cinematografico di ‘Un tè con Mussolini’ del 1999. Nata a a Ilford, nell’Essex, il 28 dicembre 1934, Maggie Smith si è sposata due volte: la prima nel 1967 con l’attore Robert Stephens, dal quale ha avuto entrambi i suoi figli e da da cui divorziò nel 1975 dopo un matrimonio segnato da infedeltà e alcolismo; la seconda col drammaturgo Beverley Cross, morto nel 1998. Ora, la sua uscita di scena.

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Musica

La nuova vita di Damiano David, esce Silverlines

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L’attesa è finita. Dopo gli indizi lasciati nei giorni scorsi sui social, come briciole di pane seminate da Pollicino, Damiano David ha pubblicato all’1 di questa notte, il suo primo singolo da solista, Silverlines. “Mi chiamo Damiano David. Sono nato nel 1999 a Roma, Italia. Amo la musica, l’arte e le donne. Amo la sensazione di indossare bei vestiti e l’odore di un buon profumo. Nella mia vita sono stato un ladro, un bugiardo, un amante, un trasformista. Ho viaggiato in tutto il mondo per trovare la mia voce, per poi finire dove tutto è iniziato. Mi chiamo Damiano David. E oggi è il primo giorno della mia vita”, aveva detto in un video nei giorni scorsi, annunciando il suo progetto lontano dai Maneskin, con i quali ha raggiunto fama e successo ben oltre i confini nazionali. Con l’arrivo di Silverlines, la sua nuova vita (quantomeno quella artistica) ha davvero inizio.

Chi si aspettava un Damiano nella linea segnata con la band romana, potrebbe rimanere sorpreso, se non spiazzato. Il cambio di registro non è solo nel look, con l’addio ai costumi eccessivi, trasgressivi e gender fluid ai quali ci aveva abituato con la band romana, a favore di un outfit da uomo più maturo, giacca e pantaloni morbidi, canotta da latin lover a ricordare il cinema che fu, abbinati a baffetti e capelli impomatati. Il cambio è anche stilistico. Silverlines (Sony Music Italy/Arista Records), 3 minuti e 42 secondi nella versione lunga, rigorosamente in inglese, parte con una gracchiante trasmissione via radio per poi lasciare spazio alla voce potente e avvolgente di Damiano, accompagnata solo da un pianoforte, dal forte impatto emotivo.

Il brano è frutto della collaborazione con il cantautore e produttore inglese Labrinth, che ne ha curato anche la riuscita produzione. “I feel / sorrow no more / the calm / after the storm / and peace belongs to me” (Non sento più dolore, la calma dopo la tempesta e la pace mi appartiene), canta l’artista che anche nel testo, intimo e poetico, sembra rivendicare una maturità e una consapevolezza non più da ragazzo ma da uomo adulto. “Look at those light rays / No dark days anymore” (Guarda quei raggi luminosi, non più giorni bui). Immagini e sensazioni che riportano a un mondo onirico e cinematografico, assecondato anche dal video ufficiale, diretto dal duo Nono + Rodrigo.

Silverlines è il primo tassello, il biglietto da visita di un progetto più ampio cui sta lavorando l’artista 25enne, che dalle strade di Roma, dove ha iniziato il suo percorso insieme ai compagni di band Victoria, Ethan e Thomas, è arrivato al successo internazionale, passando con i Maneskin dalla partecipazione a X Factor alla vittoria al festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest all’affermazione sulla scena musicale mondiale. Silverlines è il primo passo di una nuova strada che però, è stato più volte ribadito, non è un addio alla band, ma frutto della necessità di esprimere una parte più personale e intima di sé. E allora non resta che dire arrivederci a presto a Damiano dei Maneskin e intanto dare il benvenuto a Damiano David.

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Spettacoli

The Cure, un nuovo album a 16 anni dall’ultimo

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Dopo sedici anni di silenzio discografico, i Cure hanno annunciato la pubblicazione di un nuovo album di inediti dal titolo Songs of a Lost World, in uscita in tutto il mondo l’1 novembre. Si tratta del 14/o album in studio del gruppo e il primo da 16 anni a questa parte, dopo l’uscita nel 2008 di 4:13 Dream. Alcuni dei brani tratti dal disco sono stati cantati live per la prima volta durante il loro tour, Shows of a Lost World, 90 date in 33 Paesi e che ha totalizzato oltre 1 milione e 300mila spettatori. Il primo singolo Alone è stato il brano di apertura degli show ed è disponibile sulle piattaforme digitali. Il resto della tracklist sarà svelata nelle prossime settimane sui profili social e sul sito ufficiale della band.

“Alone è il brano che ha sbloccato il disco; non appena abbiamo registrato quel pezzo ho capito che doveva essere la canzone d’apertura e ho sentito che l’intero disco veniva messo a fuoco – ha dichiarato il frontman Robert Smith -. Per un po’ di tempo ho cercato di trovare la giusta frase d’apertura per la giusta canzone che facesse da apripista al progetto, lavorando sul concetto di ‘essere soli’, sempre con la sensazione assillante di sapere già quale dovesse essere la frase d’apertura… appena abbiamo finito di registrare mi sono ricordato della poesia ‘Dregs’ del poeta inglese Ernest Dowson e quello è stato il momento in cui ho capito che la canzone – e l’album – erano diventati qualcosa di concreto”.

Songs of a Lost World è stato scritto e arrangiato da Robert Smith, prodotto e mixato da Robert Smith & Paul Corkett e cantato dai Cure, ovvero Robert Smit, Simon Gallup, Jason Cooper, Roger O’Donnell, Reeves Gabrels. L’album è stato registrato ai Rockfield Studios a Wales. Robert Smith ha creato il concept e Andy Vella, fedele collaboratore dei Cure, si è occupato del design e della parte visiva. La cover ritrae una scultura del 1975 di Janes Pirnat, Bagatelle. Nati nel 1978, The Cure hanno venduto oltre 30 milioni di dischi in tutto il mondo, sono stati headliner del Glastonbury Festival per quattro volte e sono stati inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2019. La band inglese è considerata una delle più influenti di sempre.

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