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Cina: l’economista Zhu Hengpeng arrestato per critiche alla gestione economica di Xi Jinping

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Le critiche verso la leadership cinese continuano a essere un tema delicato, anche se espresse in contesti privati. Lo dimostra il recente arresto di Zhu Hengpeng, economista di spicco e vice dell’Istituto di economia presso l’Accademia cinese delle scienze sociali (Cass), finito sotto inchiesta per aver criticato le politiche economiche del presidente Xi Jinping.

L’arresto di Zhu, avvenuto in primavera, segue un’escalation degli sforzi del Partito Comunista Cinese per eliminare i commenti negativi riguardanti lo stato dell’economia cinese. Le sue osservazioni, fatte in una chat privata su WeChat, includevano critiche alla gestione economica del paese, giudicata “in affanno”. Zhu è stato successivamente rimosso dai suoi incarichi accademici e il suo nome è scomparso dai registri ufficiali, inclusi quelli di istituzioni prestigiose come la Università Tsinghua.

Zhu era noto per le sue proposte su come riformare il sistema pensionistico cinese, suggerendo, ad esempio, che i giovani dovrebbero contribuire maggiormente al sostegno dei pensionati, una proposta che ha suscitato un acceso dibattito sui social media.

Questa vicenda evidenzia la crescente intolleranza del governo cinese verso le critiche interne, anche da parte di esperti di alto livello come Zhu, e sottolinea l’importanza di conformarsi alle linee dettate dal Partito Comunista per chiunque occupi posizioni di influenza.

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Nasrallah braccato ma non è (ancora) solo al comando

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Un rifugio sotterraneo nel Libano orientale al confine con la Siria è indicato da più parti come il possibile luogo segreto dal quale il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, dirige assieme a un pugno di fedelissimi la resistenza armata contro Israele. La zona montagnosa a est di Baalbek è stata finora risparmiata relativamente dalla furia dei raid aerei israeliani, anche perché non consente al partito armato libanese filo-iraniano di usare gli impervi altipiani come corridoio privilegiato per il passaggio di convogli di mezzi carichi di armi provenienti dalla vicina Siria.

Sebbene Israele bracchi Nasrallah descrivendolo come un uomo sempre più solo al comando di Hezbollah, la formazione armata libanese ha una struttura solo in apparenza verticale e nel corso degli ultimi 40 anni ha dimostrato di saper sostituire, in maniera relativamente veloce, i quadri militari via via uccisi. Il numero due del partito è Naim Qassem, una figura rappresentativa capace di rilasciare interviste e apparire, seppur raramente, in pubblico. Un’altra figura di spicco è Wafiq Safa, l’uomo che da anni cura i negoziati con alleati e rivali della regione e che è responsabile della sicurezza interna del partito. Nonostante suo figlio sia stato ferito dagli attacchi della settimana scorsa tramite i cercapersone, Safa rimane un uomo molto vicino a Nasrallah.

La gerarchia militare è legata a doppio filo a quella politica tanto che non esiste, in realtà, una distinzione tra l’ala politica e quella militare del partito. Dopo l’eliminazione a luglio di Fuad Shukr a Beirut, lo stato maggiore di Hezbollah è comandato da Ali Karaki, che dovrebbe essere scampato al raid aereo israeliano di lunedì alla periferia sud di Beirut. Karaki, nato nel 1967, fa parte del Consiglio del Jihad, a cui apparteneva anche Ibrahim Aqil, ucciso venerdì scorso sempre a Beirut in un altro attacco aereo israeliano. Aqil è stato indicato come responsabile delle forze d’elite del partito, note come Forze Radwan.

Prima di assumere il comando di tutte le operazioni sul terreno dopo l’uccisione di suoi colleghi di alto rango, Karaki era responsabile del fronte del sud del Libano, in particolare delle due unità Nasr e Aziz, presenti nelle prime linee che si affacciano sull’Alta Galilea e i cui rispettivi comandanti erano stati uccisi da Israele tra giugno e luglio. Ancora in vita e operativi sono altre due figure chiave di Hezbollah: Muhammad Haidar, a capo delle unità che operano all’estero, e Talal Hamiye, responsabile delle cosiddette black-ops, le operazioni sotto copertura. Mentre l’ultima vittima dei bombardamenti israeliani, proprio oggi, è Ibrahim Qubaisi, capo dell’unità missilistica del gruppo.

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Ma la pancia di Hezbollah non vuole la guerra aperta

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Mentre infuriano i raid aerei israeliani nel sud del Libano, nella Bekaa e persino nella capitale Beirut, con centinaia di civili uccisi, inclusi donne e bambini, in poco meno di 48 ore, la comunità estesa di Hezbollah è attraversata da sentimenti più che mai contrastanti: da un lato, i combattenti e i sostenitori del partito riconoscono i durissimi colpi subiti dal nemico, dall’altro conoscono la ‘regola del sangue’, per cui la guerra, dopotutto, è fatta di vittorie e sconfitte, “e chi combatte lo sa”. Un’osservatrice d’eccezione delle atmosfere interne a Hezbollah è Chiara Calabrese, ricercatrice basata a Beirut. “La gente di Hezbollah è profondamente abbattuta e sconfortata”, afferma Calabrese.

“Anche perché è ormai evidente quanto Israele sia riuscita a infiltrarsi a livello organico nel partito”, aggiunge la ricercatrice italiana, da anni dedicata allo studio delle traiettorie personali e professionali di combattenti e membri a vario titolo di Hezbollah. Il partito libanese è stato fondato 40 anni fa in Libano, alla metà degli anni ’80, con l’aiuto decisivo dell’Iran, per combattere con una “resistenza islamica” armata l’allora occupazione militare israeliana del sud del Paese. “Lo sconforto, però, non significa che Hezbollah si senta impotente o privo della volontà di reazione. Al contrario – afferma Calabrese – c’è una richiesta pressante e diffusa di restituire colpo su colpo a Israele e di continuare la resistenza, per mantenere l’equilibrio di forze col nemico basato sulla deterrenza”.

Nonostante questa determinazione, una convinzione altrettanto forte si è fatta strada tra le fila del movimento e nelle comunità che lo sostengono: nessuno vuole una guerra aperta. “Non vogliamo un’altra guerra”, ripetono in molti secondo Calabrese, che riporta diverse testimonianze in presa diretta da lei raccolte durante le difficili ore seguite al raid aereo israeliano di venerdì scorso sulla periferia sud di Beirut, nel quale sono state uccise più di 50 persone assieme al comandante militare del partito, Ibrahim Aqil. La guerra è ormai una realtà. Nonostante questo, diversi esponenti di Hezbollah si dicono convinti che “difendere la causa palestinese e gli abitanti di Gaza” rimanga una priorità.

Certamente, ammettono, “il costo di un conflitto su vasta scala è molto, troppo alto. L’equilibrio con Israele, deve essere mantenuto – affermano le fonti citate da Calabrese – ma non al prezzo di un nuovo bagno di sangue”. A pesare ulteriormente è la situazione umanitaria. Diverse voci provenienti dalle comunità sciite del sud del Libano, storicamente vicine a Hezbollah, si dicono “stanche”. Da anni vivono in condizioni precarie. Da un anno, circa 100mila persone del sud sono state sfollate. A queste si aggiungono le decine di migliaia fuggite in poche ore tra domenica e lunedì. Tra queste comunità si percepisce un crescente senso di disorientamento, amplificato dall’incertezza su cosa possa succedere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Hezbollah, intrappolato in questo dilemma, si trova a dover navigare tra la necessità di mantenere viva la sua missione militare e politica e la crescente richiesta, anche interna, di evitare un’altra guerra con Israele.

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Luis Armando Albino: il bambino scomparso ritrovato 70 anni dopo grazie al DNA

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Nel 1951, Luis Armando Albino, un bambino di soli sei anni, fu rapito in un parco di West Oakland, California, mentre giocava con il fratello maggiore. Era il 21 febbraio, e la famiglia Albino, arrivata da Puerto Rico solo sei mesi prima, non parlava ancora bene l’inglese. Quel giorno, Luis fu attirato da una donna che parlava spagnolo e che gli offriva caramelle, per poi sparire senza lasciare traccia. Nonostante gli sforzi della polizia, dell’FBI e persino dell’esercito, le ricerche non portarono a nulla, lasciando la famiglia nella disperazione.

Per anni, la madre di Luis, Antonia, non si arrese, continuando a cercare il figlio. Anche la nipote di Luis, Alida Alequin, non ha mai smesso di credere che suo zio fosse vivo. Nel 2020, Alida decise di fare un test del DNA online per curiosità e, sorprendentemente, scoprì una corrispondenza con un uomo che viveva sulla costa est degli Stati Uniti. Con l’aiuto delle figlie, riuscì a rintracciare delle foto di quest’uomo e notò una straordinaria somiglianza con il Luis bambino.

Le indagini della polizia di Oakland e un test del DNA confermarono l’incredibile verità: Luis Armando Albino era vivo. Oggi è un pompiere in pensione e veterano del corpo dei Marines. Luis ha vissuto tutta la sua vita credendo di essere stato cresciuto dai suoi rapitori come figlio loro, ma non ha mai dimenticato del tutto il giorno in cui fu rapito.

Nel giugno 2024, con l’assistenza dell’FBI, Luis è tornato a Oakland per incontrare la sua famiglia, e il giorno seguente ha riabbracciato il fratello Roger dopo oltre 70 anni. Questo incontro ha rappresentato una chiusura emotiva per tutta la famiglia. Roger è morto poco dopo, ma come ha detto Alida, “se ne è andato contento sapendo che Luis era stato ritrovato”.

Questa storia straordinaria è un esempio di come, anche dopo decenni, non bisogna mai perdere la speranza quando si tratta di persone scomparse. Alida ha voluto rendere pubblica la vicenda per dare speranza ad altre famiglie che, come la sua, cercano ancora i propri cari.

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