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Blinken: Usa non coinvolti né informati del raid

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Gli Stati Uniti non sono stati “informati” né “coinvolti” nell’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran: il segretario di Stato Antony Blinken ha messo subito le mani avanti escludendo qualsiasi legame tra gli Usa e l’attentato attribuito a Israele che rischia di infiammare il Medio Oriente. E, durante il suo viaggio in Asia, ha ribadito che Washington continuerà a lavorare per il cessate il fuoco a Gaza, che “resta un imperativo” e “il modo migliore per abbassare la temperatura ovunque”, dal confine nord di Israele col Libano all’Iran sino agli Houthi nel Mar Rosso.

Il capo della diplomazia americana ha ribadito la linea anche nel giro di telefonate che si è affrettato a fare in Medio Oriente, dal premier e ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani al vicepremier e capo della diplomazia della Giordania Ayman Safadi: la priorità è “raggiungere un cessate il fuoco nel conflitto a Gaza che garantirebbe il rilascio degli ostaggi, allevierebbe le sofferenze del popolo palestinese e creerebbe le condizioni per una maggiore stabilità”, prevenendo un’ulteriore escalation del conflitto. Insomma, per la Casa Bianca la chiave della crisi è Gaza. E solo un accordo per far tacere le armi e liberare i prigionieri aiuterà a ridurre le tensioni nella regione, prima di cominciare a discutere di nuove alleanze e nuovi equilibri geopolitici. Ma il calcolo del premier Benyamin Nethanyahu e della destra del suo governo sembra diverso: per arrivare alla pace e alla stabilità bisogna sradicare Hamas e neutralizzare l’influenza iraniana, aspettando magari la rielezione di Donald Trump e il suo pugno duro contro Teheran.

Il suo discorso al Congresso americano è stato un messaggio chiaro e forte, compresa la promessa di una “vittoria totale”. Aleggia anche la sensazione che la decisione di ritirarsi dalla corsa presidenziale abbia reso Joe Biden un’anatra zoppa, minando la capacità della Casa Bianca di controllare le crisi internazionali e creando un vuoto di potere dove i vari attori si sentono più liberi di agire. E se finora il commander in chief e il suo team sono riusciti a contenere la spirale di violenza tra Israele e i suoi nemici, ora la situazione rischia di sfuggire di mano.

Del resto Egitto e Qatar, due dei Paesi che stanno trattando l’accordo, sono stati i primi ad ammettere che le possibilità di una tregua sono state compromesse dall’uccisione di Haniyeh, che era uno dei negoziatori. “Gli omicidi politici e i continui attacchi ai civili a Gaza mentre i colloqui proseguono ci portano a chiederci: come può avere successo la mediazione quando una parte assassina il negoziatore dell’altra parte? La pace ha bisogno di partner seri”, ha scritto su X Al Thani, che ha guidato gli sforzi di mediazione del Qatar.

Ora Biden, che sperava di suggellare la sua eredità con un accordo da vantare già alla convention dem di Chicago, teme il peggio. Comprese ritorsioni contro obiettivi americani nella regione, dopo che Teheran ha accusato gli Usa di portare comunque la responsabilità dell’assassinio per il loro sostegno a Israele. Uno scenario che potrebbe avere riflessi nella campagna elettorale, dove Kamala Harris preme per la de-escalation e una soluzione diplomatica, mentre Trump è pienamente allineato con Israele.

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La trumpiana Greene lavorerà con Musk e Ramaswamy a taglio costi

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La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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