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Harry teme per Meghan,’in Gb rischia attacco con acido’

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“Basta un unico squilibrato armato di coltello”. E pensa perfino ad un attacco con l’acido il principe Harry fra i rischi che sua moglie – Meghan Markle – potrebbe correre lungo le strade di Londra. No, tornare nel Regno Unito “non è sicuro” per il secondogenito di re Carlo, non lo è soprattutto per la moglie americana al centro di tanti gossip e retroscena da quando la coppia ha scelto lo strappo dalla famiglia reale. Ne è convinto e lo spiega in un nuovo documentario di Itv ‘Tabloids on Trial’ in cui si ripercorre la guerra che i duchi di Sussex hanno lanciato ai tabloid britannici, in molti casi sfociata in lunghe e anche molto pubblicizzate battaglie legali, alcune ad oggi vinte dalla coppia.

Che però non ha intenzione di fermarsi qui, come fosse una missione che Harry chiaramente non ritiene ancora compiuta e per la quale è determinato ad andare fino in fondo. E’ un dolore che viene da lontano: Harry punta oggi il dito contro i media, i tabloid in particolare, per il modo scorretto di ficcare il naso nei suoi affari e di andarci giù duro sulla sua famiglia e su Meghan in particolare. Ma non ha mai fatto mistero della sua dolorosa convinzione che anche sua madre, la principessa Diana, fosse vittima di quel modo spregiudicato di rincorrere i membri della famiglia reale, un vero e proprio ‘assedio’ alla loro privacy da parte di alcuni media, secondo il principe, al punto da stravolgerne le vite, da instillare paure. Così quando nel documentario gli si chiede se non teme che proprio le battaglie legali di cui è adesso lui protagonista (Harry ha intentato cause in particolare contro News Group Newspapers, editore di The Sun e dell’ormai defunto News Of The World) non possano attirare ancora più attenzione sulla sua famiglia, lui risponde risoluto: “L’attenzione su di me e mia moglie è comunque più che sufficiente. Mi hanno spinto troppo oltre”.

Una sorta di punto di non ritorno quindi, perchè proprio per questo – dice – di rientrare a vivere nel Regno Unito al momento non ha intenzione: “È ancora pericoloso, basta che una sola persona che legge queste cose passi all’azione: che si tratti di un coltello o di acido, qualunque cosa sia, e queste sono cose che mi preoccupano davvero”. Poi c’è il rapporto con la famiglia reale, con il fratello William e la cognata Kate dai quali un tempo era inseparabile, adesso sgretolato e chiaramente al momento molto difficile da ricomporre: anche in questo per Harry i media sono stati “centrali” e dice: “Penso che tutto quello che è successo abbia mostrato alla gente qual è la verità. Per me la missione continua, ma sì, è vero, questo in parte ha causato la frattura”.

Una missione dunque la sua, ma nulla quale sente di avere uno speciale ‘angelo custode’: Harry parla apertamente del sostegno che aveva ricevuto al riguardo dalla adorata nonna, Elisabetta II, quando era in vita e se ne dice confortato. “Abbiamo avuto diverse conversazioni su questo prima che morisse … ed era sicuramente qualcosa che lei sosteneva”. Al punto che del parere della regina Harry aveva parlato anche in tribunale, affermando durante una testimonianza che la sovrana avrebbe voluto che il tycoon Rupert Murdoch, proprietario dei taibloid sotto accusa, si fosse scusato. “Lei sapeva cosa questo significasse per me e… lei c’è, con il suo sostegno fino alla fine, non ci sono dubbi”.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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Mandato di arresto della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant: accuse e reazioni

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La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. La decisione riguarda le accuse legate alle azioni militari israeliane durante la guerra a Gaza e ha suscitato reazioni contrastanti a livello internazionale.

Le accuse della Corte Penale Internazionale

Secondo la Camera preliminare I della CPI, esistono fondati motivi per ritenere che azioni come il blocco dell’accesso a cibo, acqua, elettricità e forniture mediche abbiano creato condizioni di vita tali da causare la morte di civili nella Striscia di Gaza, inclusi bambini.

La corte ha precisato che, pur non potendo confermare tutti gli elementi necessari per configurare il crimine di sterminio come crimine contro l’umanità, ha riscontrato prove sufficienti per l’accusa di omicidio come crimine contro l’umanità.

La reazione di Israele

La decisione della CPI è stata duramente criticata dal presidente israeliano Isaac Herzog, che l’ha definita un “giorno buio per la giustizia e l’umanità”. Secondo Herzog, la decisione è “presa in malafede” e rappresenta una distorsione della giustizia internazionale.

Il presidente ha anche evidenziato che:

  • La corte “ignora la difficile situazione degli ostaggi israeliani” detenuti da Hamas.
  • Non considera l’uso di civili come scudi umani da parte di Hamas.
  • Trascura il diritto di Israele a difendersi dopo l’attacco subito.

Herzog ha inoltre accusato la CPI di schierarsi con il terrore anziché con la democrazia e la libertà, sottolineando il rischio di destabilizzazione regionale causato dall’”impero iraniano del male”.

Le implicazioni della decisione

La decisione della CPI ha messo in discussione il delicato equilibrio tra il diritto internazionale e la sovranità nazionale. Da un lato, le accuse sottolineano presunte violazioni del diritto umanitario internazionale; dall’altro, il governo israeliano sostiene che la corte stia ignorando le circostanze che hanno portato al conflitto, come gli attacchi subiti e la necessità di difesa.

Questo mandato di arresto solleva interrogativi su come le istituzioni internazionali possano bilanciare il perseguimento della giustizia con il riconoscimento delle complessità dei conflitti moderni.

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