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Bancarotta, sei interdizioni e sequestro beni per 30 milioni

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La misura cautelare interdittiva che dispone il divieto di esercitare attività imprenditoriali e professionali ovvero di ricoprire uffici direttivi di persone giuridiche o imprese è stata notificata da Finanzieri del nucleo di Polizia economico-finanziaria di Palermo e della compagnia di Sciacca a sei indagati. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, riciclaggio, autoriciclaggio, corruzione e tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Con lo stesso provvedimento il gip ha disposto il sequestro di beni per complessivi 30 milioni circa di euro tra disponibilità finanziarie e tre società del settore immobiliare, due delle quali proprietarie della struttura turistico-alberghiera “Torre Macauda”, di Sciacca, in provincia di Agrigento.

Le indagini della Guardia di finanza avrebbero accertato operazioni finanziarie finalizzate alla distrazione di ingenti disponibilità delle società che nel tempo avevano detenuto la proprietà del complesso alberghiero, sino a causarne il dissesto e il successivo fallimento. Secondo l’accusa, “con un articolato schema di riciclaggio, che sarebbe stato concordato tra gli imprenditori indagati e dirigenti e consulenti di un istituto di credito nazionale, gli indagati avrebbero riacquisito la stessa struttura ricettiva che, nel frattempo, era stata messa in vendita mediante asta esecutiva”.

In una prima fase sarebbe stato acquisito un credito, per circa 28 milioni di euro, vantato dalla banca nei confronti del gruppo imprenditoriale proprietario del complesso turistico, a fronte del pagamento di soli 4 milioni di euro, utilizzando fondi sottratti alle società fallite. In una seconda fase, la struttura ricettiva sarebbe stata riacquistata, in sede di asta esecutiva, a fronte di un’offerta di circa 8 milioni di euro che il soggetto giuridico aggiudicatario, sempre riconducibile allo stesso gruppo imprenditoriale, non avrebbe interamente pagato alla banca. In quest’ultimo caso, ritiene la Procura, “sarebbe stato determinante il ruolo di importanti dirigenti bancari che avrebbero falsamente attestato l’avvenuto pagamento nella dichiarazione di quietanza necessaria all’emissione, da parte del giudice dell’esecuzione, del “decreto di trasferimento” del complesso turistico”.

Secondo il gip “nonostante le operazioni bancarie fossero connotate da sicuri indici di anomalia, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo non venivano in alcun modo segnalate come sospette, così come invece avrebbe dovuto essere fatto”. Secondo l’accusa, “grazie a questa articolata operazione il sodalizio criminale sarebbe rientrato in possesso dell’intera struttura ricettiva, a quel punto libera da ipoteche o qualsivoglia pendenza e la banca avrebbe monetizzato un credito vantato ormai da decenni e di difficile realizzazione”.

Le indagini delle Fiamme gialle avrebbero inoltre “fatto emergere gravi violazioni da parte dell’istituto di credito, configurandosi nei confronti dello stesso la responsabilità amministrativa dell’ente” che avrebbe “omesso la predisposizione di adeguati modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i reati di riciclaggio contestati ai propri dirigenti e commessi a vantaggio della banca”. Su questo tema il gip, nell’ordinanza, scrive, che “risulta evidente, invero, come l’illecita operazione in contestazione sia stata realizzata nell’interesse e a vantaggio dell’ente stesso”. Le attività investigative avrebbero, infine, fatto luce su “un tentativo di truffa ai danni dello Stato, finalizzato ad accaparrarsi un finanziamento pubblico destinato allo sviluppo delle attività ricettive, di circa 1,8 milioni di euro. Infine, viene ipotizzato il reato di corruzione nei confronti di un Pubblico ufficiale il quale, in cambio dell’assunzione del figlio, avrebbe favorito un imprenditore nei lavori di rifacimento e messa in sicurezza di un costone roccioso franato, ricadente all’interno del complesso turistico-alberghiero”.

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‘Disarmiamo il patriarcato’, le donne tornano in piazza

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La quiete prima della tempesta in un silenzio irreale che prelude a un grido di liberazione. Hanno deciso di cominciare così il loro corteo le migliaia di manifestanti di ‘Non una di meno’ che si sono ritrovate a Roma: sedute e mute. Poi all’improvviso tutte in piedi, in un’unica voce, altissima, di rabbia contro i femminicidi e al grido di ‘Disarmiamo il patriarcato’ hanno scandito lo slogan: ‘Insieme siam partite insieme torneremo. Non una di meno’. “Non una di meno” hanno ripetuto ancora, alla vigilia del 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, tante, troppe uccise e finite in una lista di sangue che allega foto di loro ancora sorridenti.

E senza dimenticare Ahoo Daryaei, la studentessa iraniana che si è spogliata davanti all’università a Teheran per protestare contro l’imposizione del regime, in molte si sono tolte la maglia rimanendo a seno scoperto. “Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce”, hanno urlato tenendo lo striscione con la scritta “il corpo è mio, decido io”, un famoso slogan femminista degli anni Settanta. Poco prima del corteo, davanti al ministero dell’Istruzione, una foto del ministro Giuseppe Valditara era stata bruciata dalle attiviste del movimento femminista Aracne e dai collettivi. Su un manifesto la scritta: “Oltre 100 morti di Stato.

Non è l’immigrazione ma la vostra educazione” hanno replicato alle parole del ministro che qualche giorno fa aveva sostenuto che “L’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza discendenti da un’immigrazione illegale”. Durante il corteo anche cori contro Pro Vita, con i manifestanti che hanno provato a raggiungere la sede dell’associazione antiabortista ma sono state bloccati. Scene che non sono piaciute alla ministra per la Famiglia Eugenia Roccella.

“Manifestare contro la violenza sulle donne, parlare di educazione al rispetto, libertà, per poi esibirsi negli atti e negli slogan che abbiamo visto andare andare in scena prima e durante le manifestazioni di oggi, è una contraddizione stridente”. La ministra ha voluto anche ricordare che “il governo Meloni ha fatto molto per contrastare la violenza contro le donne, anche dal punto di vista economico ha contribuito ad aumentare l’occupazione stabile femminile, ha supportato l’aumento dei centri antiviolenza che sono cresciuti del 5% negli ultimi due anni” e ha lanciato un appello alle ragazze affinché abbiano più a cuore la loro libertà, e ai ragazzi affinché non abbiamo paura della libertà delle ragazze.

Perché “la violenza contro le donne è qualcosa che tocca veramente in modo lacerante le famiglie, troppo spesso purtroppo”. Anche la marea fucsia, 150mila secondo le organizzatrici, a un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin e con il pesate elenco di “altri 106 nomi che si sono aggiunti”, ha risposto a Valditara: “Il patriarcato esiste, non è ideologia e il razzismo istituzionale non è la risposta. L’assassino, il violento, sono figli della nostra società e hanno quasi sempre le chiavi di casa. Questo è un governo patriarcale, non basta una premier donna. Le misure contenute nel ddl sicurezza sono preoccupanti, dalla restrizione del diritto al dissenso alla possibilità di ingresso in carcere per le donne in gravidanza o comunque con figli molti piccoli”. Cortei si sono svolti anche a Palermo, dove in testa hanno sfilato alcune vittime di violenza, insieme a donne disabili, e a Udine dove le Donne in Nero, una rete di attiviste per la pace hanno chiesto il cessate il fuoco in Palestina.

A Milano è apparsa un’opera della street artist Laika dal titolo ‘Smash the patriarchy’. L’immagine raffigura Giulia Cecchettin e Gisele Pelicot, sopravvissuta a uno stupro perpetrato in Francia da suo marito insieme a decine di altri uomini. Il sindaco Beppe Sala ha sottolineato che “le quote rosa sono state fondamentali ma adesso non bastano più. Ci sono interi settori, come quello finanziario, in cui le donne non toccano niente. L”occupazione sale ma in Italia solo il 14% delle donne sono ai vertici delle società”. E anche nelle principali città francesi ci sono state numerose manifestazioni contro la violenza sulle donne. A Parigi hanno sfilato migliaia di persone, soprattutto donne ma anche bambini e uomini.

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Polizia scopre nel Milanese l’arsenale della Curva Nord

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Un deposito di armi, che si reputa possa essere l’arsenale della Curva nord interista, è stato scoperto dalla Polizia a Cambiago, nel Milanese. In un capannone, indagando su un ultras che sarebbe legato ad Andrea Beretta, l’ultrà nerazzurro in carcere per l’omicidio di Antonio Bellocco, altro capo della Curva, sono stati sequestrati pistole, kalashnikov, bombe a mano e molti proiettili.

Secondo quanto si apprende, all’arsenale gli investigatori milanesi sono giunti la scorsa notte, seguendo la traccia di una proprietà immobiliare di Beretta che però era nella disponibilità di una altra persona, un ultras a lui vicino.

La questura di Milano non commenta, non conferma e non smentisce le notizie relative all’operazione di Polizia che ha portato alla scoperta di un arsenale in un deposito nel Milanese che sarebbe riconducibile alla Curva Nord nerazzurra.

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“Bomba Sinner”: un’invenzione giornalistica che alimenta il mito dei botti illegali

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La “bomba Sinner”, il nuovo ordigno di Capodanno sequestrato dai carabinieri in un appartamento di Pozzuoli, è solo l’ultima trovata di un fenomeno mediatico e sociale che va ben oltre la cronaca. Il nome, che richiama il tennista altoatesino Jannik Sinner, si unisce alla lunga lista di fuochi d’artificio illegali battezzati con appellativi accattivanti come “Maradona”, “Scudetto” o “Kvara”. Ma mentre questo genere di denominazioni richiama una sorta di “marketing” dei botti, è impossibile non notare come perpetui luoghi comuni pericolosi e pregiudizi su Napoli e il suo rapporto con l’illegalità.

La realtà dietro la “bomba Sinner”

Il nome non ha nulla a che vedere con il campione di tennis, ma sfrutta l’immaginario di esplosività associata al suo talento sportivo. La realtà, però, è ben diversa: si tratta di un ordigno pericoloso e illegale, capace di causare mutilazioni o peggio. L’ordigno, insieme ad altri 486 petardi illegali, è stato sequestrato dai carabinieri nell’abitazione di un 24enne incensurato a Pozzuoli, trasformata in una vera santabarbara. Materiale esplosivo per un totale di 50 chili era conservato in condizioni precarie, mettendo a rischio non solo l’incolumità del giovane, ma anche quella dei suoi vicini.

Un marketing pericoloso e la complicità dei media

La “bomba Sinner” e altri ordigni illegali sono promossi su piattaforme come Telegram, TikTok e Instagram, dove la vendita e distribuzione si sviluppano con logiche da e-commerce. I nomi accattivanti, però, non sono solo una trovata degli stessi produttori, ma trovano amplificazione nei media, che trasformano questi episodi in sensazionalismo, anziché sottolinearne i rischi. È qui che si insinua una responsabilità più ampia: invece di denunciare con forza il pericolo dei botti illegali, si finisce per rafforzarne la “fama”, perpetuando un’attrazione malsana verso questi prodotti.

Il perpetuarsi dei pregiudizi su Napoli

La narrazione che emerge da episodi come quello della “bomba Sinner” alimenta stereotipi radicati su Napoli e la Campania come luoghi di illegalità e anarchia diffusa. I nomi dei botti – da Maradona a Kvara – sono spesso legati a simboli locali, trasformando un problema grave in un racconto folkloristico che fa leva su luoghi comuni. In realtà, Napoli è una città con un tessuto sociale e culturale straordinario, che spesso lotta contro queste narrazioni riduttive. Collegare automaticamente l’illegalità a simboli della cultura partenopea non fa che danneggiare l’immagine di un territorio già troppo spesso vittima di pregiudizi.

Un problema nazionale, non locale

È importante sottolineare che il fenomeno dei botti illegali non è un problema esclusivamente napoletano. Gli ordigni sequestrati a Pozzuoli erano destinati anche al mercato tedesco, dimostrando che si tratta di un commercio organizzato su scala ben più ampia. Ridurre la questione a un “problema di Napoli” non solo ignora la complessità del fenomeno, ma ostacola una reale presa di coscienza e interventi efficaci.

L’urgenza di un cambiamento culturale

Il fenomeno dei botti illegali rappresenta un rischio concreto per la sicurezza pubblica e un problema culturale. Ogni anno, questi ordigni causano gravi ferite, amputazioni e persino vittime. Serve un cambio di paradigma: da una narrazione che esalta nomi e appellativi dei botti, si deve passare a una comunicazione che ne evidenzi i pericoli, senza alimentare inutili sensazionalismi.

La “bomba Sinner” non è solo un ordigno pericoloso: è un simbolo di come il sensazionalismo e la superficialità possano alimentare pregiudizi e ignorare il vero problema. Napoli merita una narrazione diversa, che metta in evidenza la lotta quotidiana di tanti cittadini contro l’illegalità, piuttosto che ridurla a un cliché. Allo stesso tempo, occorre un impegno collettivo per contrastare la produzione e la diffusione di fuochi illegali, puntando su una cultura della sicurezza e della responsabilità.

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