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Zaccaria: nomine Rai contro la legge, vanno sospese

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Sospendere l’iter delle nomine Rai perché in contrasto con la giurisprudenza della Corte Costituzionale e con le nuove norme europee. È la richiesta avanzata da tre candidati al cda, Nino Rizzo Nervo, Patrizio Rossano e Stefano Rolando, che, dopo essersi rivolti al Tar, hanno deciso di presentare appello al Consiglio di Stato. La pronuncia è attesa per il 4 o 5 luglio e potrebbe scombussolare i piani della maggioranza, intenzionata a rinnovare il vertice di Viale Mazzini, a mandato ormai scaduto, nelle prossime settimane. Secondo i ricorrenti, rappresentati dagli avvocati Giovanni Pravisani e Giulio Vigevani, coordinati dall’ex presidente della Rai e docente di Diritto Costituzionale, Roberto Zaccaria, il sistema delineato dalla Legge Renzi presenterebbe profili di illegittimità costituzionale, ponendosi, inoltre, in contrasto con l’European Media Freedom Act, il regolamento europeo che impone a tutti i servizi pubblici radiotelevisivi indipendenza nella governance e trasparenza nelle nomine.

“Noi ci aspettiamo che ci sia una sospensiva dell’iter delle nomine”, dice Zaccaria, spiegando che lo scorso 30 maggio “il Tar ha riunificato la richiesta cautelare di sospensione e il merito, fissando però una data troppo in là nel tempo, perché il 23 ottobre le Camere potrebbero aver già deciso. Per questo abbiamo fatto ricorso al Consiglio di Stato”. Sono tre gli obiettivi possibili, in primo luogo in relazione alla nomina dei quattro membri dei cda eletti dalle Camere. “Il risultato minimo è che ci sia una sospensione per consentire di mettere in pratica la procedura selettiva prevista dalla legge – spiega ancora Zaccaria -. Sono arrivati 50 curricula e le Camere dovrebbero almeno guardarli e valutarli. Il problema è rendersi conto che ci sono 50 persone che hanno fatto una domanda che non viene presa nemmeno in considerazione. Questo non è stato fatto né nel 2018, né nel 2021. Siamo certi di questo, perché avrebbe dovuto quanto meno insediarsi una commissione per la valutazione”.

“La seconda possibilità è che ci sia una sospensione con il rinvio alla Corte Costituzionale – fa sapere Zaccaria -. Questo perché il sistema complessivo delle nomine confligge con una sentenza della Consulta, secondo la quale le nomine non devono essere espressione prevalente del potere esecutivo. Invece oggi lo sono, come è evidente per i due membri del cda indicati dal governo e come dimostrano ulteriormente le trattative nella maggioranza per le nomine parlamentari”. “La terza possibilità – prosegue l’ex presidente Rai – è che, siccome oggi esistono principi europei sui media di servizio pubblico formalizzati nel Media Freedom Act, in mancanza di un rinvio alla Corte Costituzionale ci sia un rinvio alla Corte di Giustizia europea per una valutazione preliminare del caso, un’eventualità che capita molto spesso”. La maggioranza non ha calendarizzato le nomine nel mese di luglio, ma potrebbe comunque comunque farlo nelle prossime settimane. Intanto, però, l’iter è stato rallentato.

“Non ci interessano le vittorie di Pirro – afferma Zaccaria -. Noi puntiamo ai tre obiettivi citati, nella prospettiva di una riforma della governance in linea con i principi costituzionali e della normativa Ue”. La decisione del Consiglio di Stato potrebbe arrivare in tempi celeri, nel giro di un paio di giorni. “Il governo e le forze politiche dovranno comunque tener conto delle decisioni giurisprudenziali – spiega Zaccaria -. Se si dovesse procedere con le nomine, io credo che si aprirebbero le porte della procedura d’infrazione Ue. Se ci mettiamo di traverso rispetto ai principi europei penso che alla fine sia inevitabile. Ci sono alcuni paesi europei più a rischio sotto questo profilo e noi siamo tra quelli”.

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Per Khamenei la carneficina del 7 ottobre “è legittima, elimineremo Israele”

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La Guida suprema della Repubblica islamica decide di non nascondersi. Nel momento più difficile per l’Iran, sotto scacco per i duri colpi inferti da Israele ad Hamas e Hezbollah, e con lo spettro di subire a breve un attacco diretto di vasta portata, Ali Khamenei è riapparso in pubblico guidando la preghiera del venerdì per la prima volta dopo quattro anni. Il 7 ottobre marcato con il sangue dalle milizie palestinesi ed i missili iraniani lanciati contro lo Stato ebraico sono state azioni “legittime”, e l’asse della resistenza “continuerà a lottare per la vittoria” nonostante la morte dei suoi leader: sono questi i messaggi che l’ayatollah ha inviato a nemici ed alleati, davanti alle migliaia di fedeli riuniti a Teheran, anche per commemorare l’uccisione di Hassan Nasrallah.

Un sermone in cui tutto contava, dalle parole all’iconografia. Come dimostra il fucile piazzato sul palco, a beneficio delle telecamere di tutto il mondo. Ad una settimana dalla morte del capo di Hezbollah – che pare sia stato provvisoriamente sepolto in un luogo segreto – Khamenei ha rinunciato per qualche ora alle rigide misure di sicurezza. Non guidava la preghiera dall’uccisione del generale Soleimani per mano americana nel 2020. Alla grande moschea di Teheran ha elogiato Nasrallah, simbolo dei “martiri” caduti nella guerra contro Israele, accanto a Ismail Haniyeh e ai tanti comandanti militari di Hamas e Hezbollah. Una guerra che, è il mantra dell’Iran, è condotta a scopi difensivi per rispondere ai “crimini sorprendenti” di Israele.

Così anche l’imponente operazione di martedì scorso, con duecento missili lanciati in territorio nemico, è stata “del tutto legale”, anzi è stata “una punizione minima”. Nel sermone, in persiano e in arabo, è stato poi lanciato un appello a tutte le nazioni musulmane, “dall’Afghanistan allo Yemen, da Gaza al Libano”, a “cingere una cintura di difesa” contro il “nemico comune”. Quella di Khamenei è apparsa come un’ostentazione di forza del regime, quasi a voler esorcizzare la grave minaccia alle porte. L’ipotesi che prende sempre più corpo è quella di un attacco israeliano alle infrastrutture energetiche e petrolifere iraniane, che affosserebbe un’economia già in crisi.

Un blitz su cui Israele si sta confrontando con gli Stati Uniti, e che potrebbe scattare da un momento all’altro. E’ uno scenario vissuto con comprensibile preoccupazione a Teheran, tanto che i pasdaran hanno provato a scoraggiare il nemico minacciando di reagire prendendo a loro volta di mira le raffinerie e i giacimenti di gas israeliani. Allo stesso tempo l’Iran continua a tessere la sua tela diplomatica per raffreddare la temperatura nella regione. Così il ministro degli Esteri Abbas Aragchi è volato a Beirut sotto le bombe per incontrare il collega libanese, sostenendo la necessità di un cessate il fuoco simultaneo con Israele a Gaza e in Libano. L’Idf invece ha continuato a martellare nel nord.

La periferia meridionale di Beirut, roccaforte del Partito di Dio, nella notte è stata bersagliata dai raid. Il principale obiettivo, secondo quanto è filtrato da Gerusalemme, era Hashem Safieddine, probabile successore di Nasrallah. Israele ritiene che sia morto. Quanto alla guerra al confine, è stato esteso l’ordine di evacuazione ai civili libanesi a 35 villaggi. Ma anche tra le truppe di Tsahal si continuano a contare perdite: nel Golan due soldati sono rimasti uccisi da un drone lanciato dall’Iraq, dove sono attive milizie sciite filo-iraniane. E si continua a combattere e a morire anche nei Territori palestinesi. Un raid israeliano a Tulkarem, in Cisgiordania, ha provocato almeno 18 morti.

Almeno 9 vittime, secondo l’Idf, erano miliziani di Hamas, incluso il capo locale, Abd al-Razeq Oufi. Era accusato di pianificare un attentato a breve, in vista delle commemorazioni per il 7 ottobre. C’è poi il fronte degli Houthi che, armati da Teheran, attaccano i mercantili occidentali nel Mar Rosso in rappresaglia per Gaza. Le milizie yemenite sono state colpite nuovamente da raid britannici e americani, che stavolta hanno cambiato strategia: finora avevano preso di mira le infrastrutture costiere, ora invece hanno attaccato più in profondità. Tra i nuovi bersagli, anche la capitale Sanaa.

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Politica

Salvini torna a Pontida, sul pratone Patrioti e Vox

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Leghisti e sempre più alleati, rigorosamente europei. Nel weekend Matteo Salvini li attende tutti a Pontida per lo storico raduno che quest’anno si preannuncia il più sovranista di sempre. Dopo Marine Le Pen, superstar del palco l’anno scorso, domenica sul “sacro suolo padano” sono attesi i big dell’ultra destra più ostile alla “fortezza Europa”. Dal leader dei Patrioti, Viktor Orban all’olandese Geert Wilders; dalla vicepresidente di Fpö, il partito che ha dominato il voto in Austria, Marlene Svazek, a José Antonio Fúster, portavoce di Vox strappato nel frattempo ai Conservatori di Giorgia Meloni. Manderanno un messaggio invece l’amica Le Pen impegnata in Francia e l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Una platea ben più folta di quella che, nel 2022, spinse Enrico Letta a definire Pontida “provincia dell’Ungheria”.

Stavolta non sarà né il Pd né Meloni (nel 2023, nello stesso giorno, la premier era a Lampedusa con Ursula von der Leyen) a rubare la scena al ‘Capitano’. Potrebbe farlo Roberto Vannacci, il generale recordman dei voti leghisti alle ultime Europee e al suo battesimo a Pontida. Oppure Forza Italia – da mesi l’alleato-rivale della Lega su più fronti – che domenica sarà a Milano per gli Stati generali dell’economia. Domani pomeriggio intanto ci sarà una pre-Pontida con i giovani leghisti, il segretario e il ministro dell’Istruzione, Valditara. Domenica il clou. Ma per Salvini non sarà un’edizione facile. Dal punto di vista personale, su di lui incombe la condanna a sei anni di carcere chiesta dai pm di Palermo nel processo Open arms, con l’accusa di sequestro di migranti. Il 18 ottobre l’arringa finale.

Una battaglia giudiziaria diventata cruciale per il partito che, a difesa del suo leader, ha raccolto finora 100 mila firme. Nel paesino della Bergamasca farà di più: lo slogan che avvolgerà il palco sarà: “Non è reato difendere i confini” – espressione mantra dell’ex ministro dell’Interno – e saranno distribuite le tessere da socio fondatore del ‘Comitato per la sicurezza dei confini’. In più, restano i nodi che preoccupano la vecchia guardia leghista. La più recente è la paura di nuove tasse che, innescata dalle parole di Giancarlo Giorgetti, mette in agitazione soprattutto gli imprenditori del nord. E nonostante il pedigree del ministro dell’Economia, tra i primi a credere al sogno bossiano della Padania contro Roma padrona.

Del resto, difficile non notare come alcune battaglie della Lega, di due anni fa, siano sparite dai radar: la flat tax per le imprese, Quota 41 per i pensionati o lo stop al canone Rai (“Si può fare”, urlò Salvini dal palco nel 2022). E se questa sarà la Pontida della promessa mantenuta (dal ministro Calderoli in primis) sull’autonomia differenziata, diventata legge a giugno, anche qui non manca la diffidenza. Ci saranno davvero i soldi – è la domanda più frequente tra i militanti padani – perché le Regioni possano gestire le funzioni strappate allo Stato centrale attraverso alcune materie Lep? Da qui la necessità, per Salvini, di evitare alcune parole tabù come il ponte sullo Stretto, bollato da alcuni come un regalo al sud. O facili ironie sul caos trasporti che ha travolto il suo ministero. Non a caso le opposizioni consigliano maliziosamente ai leghisti di optare sui pullman, anziché treni, per arrivare in tempo a Pontida.

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Coperture per la manovra, sulle imprese ipotesi Ires

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Un’addizionale Ires, tra lo 0,5% e l’1%: potrebbe prendere questa forma il contributo che imprese, mondo bancario e assicurativo saranno chiamati a dare in vista della manovra. Una via che gli istituti di credito sembrano però intenzionati a respingere per evitare un impatto sui conti. La trattativa andrà probabilmente ancora avanti prima che la legge di bilancio sia approvata dal Consiglio dei ministri e le ipotesi restano tutte aperte. Trovare le coperture resta una missione difficile. E il dato sul Pil fornito nelle ultime 24 ore dall’Istat qualche perplessità in più sull’andamento dell’economia italiana potrebbe farla nascere. L’istituto di statistica ha rivisto al ribasso la stima tendenziale sul Pil del secondo trimestre, ma soprattutto ha tagliato – peraltro con una correzione arrivata in un secondo momento – la crescita acquisita per il 2024, portandola dallo 0,6% allo 0,4%.

Se il +1% scritto dal governo nel Piano strutturale di bilancio della scorsa settimana, ribadito anche dallo stesso Giorgetti, sembrava fino a poche ore fa un risultato praticamente già messo in tasca, le certezze potrebbero ora cominciare a vacillare. E se la crescita non centrasse l’obiettivo, anche il lavoro del governo si farebbe più complicato. Meno crescita vuol dire meno entrate e più deficit, oltre che maggiore pressione fiscale. Nel secondo trimestre in cui l’Istat ha rivisto la crescita al ribasso, il peso del fisco rispetto al Pil è stato pari al 41,3%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il dato risente degli aggiustamenti statistici ma, considerate le tensioni nate sulla questione tasse all’interno della maggioranza, rischia di non passare inosservato visto che proprio sulle tasse l’opposizione ha gioco facile ad attaccare e rischiano di giocarsi anche gli equilibri tra gli alleati. Sul tavolo c’è innanzitutto il nodo accise.

Il governo ha chiarito che non si tratterà di un aumento tout court di quelle sul diesel ma di un allineamento tra benzina e gasolio. L’Unem ha quindi rifatto i calcoli sottolineando che “nell’ipotesi estrema” in cui la misura si traducesse nell’equiparazione dell’accisa sul gasolio a quella della benzina, l’effetto sarebbe un aumento immediato dei prezzi al consumo del gasolio di 13,5 centesimi di euro al litro, ovvero in un maggiore esborso per le famiglie di quasi 2 miliardi di euro, pari a circa 70 euro all’anno. C’è poi il tema sigarette, per le quali gli oncologi hanno proposto un maxi-aumento di 5 euro a pacchetto come sostegno al Sistema sanitario nazionale. La cui sostenibilità finanziaria. osserva il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, “sarà sempre più legata alla capacità di agire sulla dimensione della prevenzione”.

Ma c’è soprattutto il tema del ‘contributo’ delle imprese e del mondo bancario e assicurativo, poco inclini ad accettare di un’addizionale Ires. Una risposta piuttosto esplicita arriva da Augusto Dell’Erba, presidente di Federcasse-Bcc, secondo cui “i prelievi forzosi e improvvisi, peraltro su redditi già generati, quindi con una forma di retroattività, non sono il modo migliore per gettare le basi per un reale rilancio del Paese”. La prende più alla larga Antonio Patuelli che però spiega come “più le tasse sono alte, più la ricchezza e i valori vanno via”. Il presidente dell’Abi manda il suo messaggio: vede una legge di bilancio “meno drammatica di quello che può apparire”, anche perché “i germogli di ripresa e di legalità portano maggiori introiti allo Stato”.

L’idea di un contributo delle grandi imprese è invece condivisa da Luigi Sbarra della Cisl e da PierPaolo Bombardieri della Uil che definisce quella del ministro dell’Economia Giorgetti “una dichiarazione di buon senso”. E un’aliquota “pesante” sulla ricchezza prodotta viene invocata anche dalla segretaria confederale della Cgil, Francesca Re David. Di Ires, ma non come addizionale, hanno peraltro discusso il titolare di via XX Settembre e il presidente di Confindustria Emanuele Orsini in un incontro con al centro il piano casa proposto dagli industriali, ma anche “la premialità Ires, come scritto nella legge delega fiscale, per chi fa investimenti”. “L’obiettivo – ribadisce il il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo – è la riduzione della pressione fiscale”.

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