Collegati con noi

Cronache

Il caso Pecorelli, il boss manager di Secondigliano che gestiva gli affari del clan chiuso nel carcere di Opera

Pubblicato

del

Oscar Pecorelli, noto presunto boss di Secondigliano, ha fatto parlare di sé per la sua gestione di affari criminali direttamente dal penitenziario di Opera. Non si trattava di una gestione tradizionale, ma di un’operazione sofisticata che sfruttava le tecnologie moderne per violare le regole imposte ai detenuti di massima sicurezza.

La storia si svolge nell’ambito di un’inchiesta condotta dal procuratore Maria Sepe, inserita nel pool anticamorra guidato da Rosa Volpe e coordinato da Nicola Gratteri. Le indagini hanno portato al sequestro di beni per cinque milioni di euro, compresi società, denaro tradizionale, Rolex e Bitcoin, e hanno coinvolto oltre trenta indagati con numerosi arresti.

Il modus operandi di Pecorelli è stato rivelato attraverso l’uso di strumenti digitali: non si trattava solo di pizzini scambiati tra le celle o codici durante i processi, ma di veri e propri summit gestiti tramite WhatsApp, Skype e ordini impartiti via email. Come un manager internazionale, Pecorelli avrebbe coordinato le sue attività criminali direttamente dalla sua cella a Opera, mentre nel suo appartamento di Napoli si riunivano i suoi uomini di fiducia per discutere di affari illeciti e strategie del clan.

L’aspetto più sorprendente è stato l’uso della posta elettronica, un privilegio concesso dal sistema penitenziario solo con rigide condizioni. Tuttavia, secondo quanto emerso dalle indagini, Pecorelli avrebbe abusato di questo permesso per mantenere una corrispondenza con l’esterno, gestita da una società esterna che impiegava detenuti per servizi di call center e email.

Il suo ruolo di “manager” della criminalità organizzata sembra essere stato rafforzato anche dal coinvolgimento della moglie, indagata ma non in custodia cautelare, che avrebbe agito come mediatrice per convocare i vari settori del suo impero criminale sotto lo stesso tetto a Secondigliano.

Le indagini hanno anche portato al sequestro di 500.000 euro in contanti e 21 orologi di lusso, oltre al coinvolgimento di un giovane esperto informatico e di un avvocato, entrambi indagati per presunta partecipazione a operazioni di riciclaggio di denaro attraverso transazioni in bitcoin e acquisti di Rolex.

Oscar Pecorelli, difeso dall’avvocato Domenico Dello Iacono, ha scelto di non rispondere alle accuse davanti al gip, riservandosi di raccontare la sua versione durante il prosieguo del procedimento. Nel frattempo, le autorità proseguiranno le verifiche sulle mail sequestrate e sui dettagli delle operazioni gestite dal boss dall’interno del carcere di Opera, svelando uno scenario criminale che sfida le tradizionali restrizioni carcerarie.

Advertisement

Cronache

Omicidio Mergellina: chiesto l’ergastolo per Francesco Pio Valda, accusato della morte di Francesco Pio Maimone

Pubblicato

del

La Corte d’Assise di Napoli è stata teatro di una requisitoria accesa e drammatica. Il pubblico ministero Antonella Fratello ha chiesto la pena dell’ergastolo per Francesco Pio Valda, ventenne di Barra, accusato di aver ucciso, la notte tra il 19 e il 20 marzo 2023, il diciottenne Francesco Pio Maimone con un colpo di pistola davanti agli chalet di Mergellina. Alla richiesta di condanna si aggiunge la proposta di due anni di isolamento carcerario per l’imputato.

Una ricostruzione drammatica

Secondo il pm, l’omicidio non sarebbe stato un atto isolato, ma un’azione deliberata per affermare il potere del clan Aprea-Valda nella zona degli chalet, area contesa da gruppi criminali. Durante la requisitoria, Fratello ha descritto Valda come un emergente boss camorrista che agiva con arroganza tanto sul territorio quanto sui social, utilizzati come mezzo per diffondere minacce e rivendicazioni.

L’imputato, collegato in videoconferenza da un carcere fuori regione, ha seguito la requisitoria in silenzio. Secondo quanto emerso dalle intercettazioni, Valda avrebbe agito con premeditazione, uscendo regolarmente armato con l’intento di creare situazioni di conflitto, come testimoniato da frasi registrate durante le indagini.

Le prove e il contesto sociale

Tra le prove presentate dal pm, sono stati ricordati:

  • Minacce diffuse sui social, comprese frasi di sfida come “brindiamo all’ergastolo” e “se va male è esperienza”.
  • Intercettazioni in cui emerge l’intenzione di uccidere, dimostrando un’assenza totale di rimorso per la morte di un innocente.
  • La continuità malavitosa del clan Aprea-Valda, con Valda che avrebbe assunto il comando dopo l’arresto del fratello Luigi.

Il magistrato ha evidenziato anche il ruolo svolto da amici e parenti dell’imputato, tutti inseriti nello stesso contesto camorristico.

Le condanne richieste per il clan

Oltre all’ergastolo per Francesco Pio Valda, il pm ha richiesto pene per altri membri del clan:

  • Giuseppina Valda (sorella di Valda) e Giuseppe Perna (zio): otto anni di carcere.
  • Giuseppina Niglio (nonna): sei anni.
  • Salvatore Mancini: tre anni.
  • Pasquale Saiz e Alessandra Clemente (cugina di Valda): otto anni e sei mesi.

Il dolore della famiglia Maimone

In aula, accanto al loro legale Sergio Pisani, erano presenti i genitori di Francesco Pio Maimone, distrutti dalla perdita del figlio. Suo padre, Antonio Maimone, ha dichiarato: “Concordiamo con la ricostruzione del pm. Crediamo nella giustizia e ci auguriamo che questa giornata rappresenti un segnale forte per tanti giovani. Speriamo sia un esempio in grado di mettere fine a tutti questi omicidi che stanno avvenendo a Napoli”.

Un segnale contro la violenza giovanile

L’omicidio di Francesco Pio Maimone non è solo una tragedia personale ma un simbolo della drammatica escalation di violenza giovanile a Napoli. La vicenda richiama l’urgenza di interventi che possano contrastare il fenomeno della criminalità organizzata e prevenire nuove tragedie.

Continua a leggere

Cronache

Giallo a Napoli, donna precipita dal 30° piano dell’hotel Ambassador: indagini in corso

Pubblicato

del

Un mistero avvolge la morte di una donna di 52 anni, precipitata dal trentesimo piano dell’hotel Ambassador in via Medina, nel cuore di Napoli. L’episodio, avvenuto ieri sera poco dopo le 20, ha lasciato sgomenti i numerosi passanti presenti nella zona, particolarmente affollata di auto e pedoni in quell’ora.

La dinamica della tragedia

La caduta si è interrotta al nono piano dell’edificio, dove la donna si è schiantata. La scena è stata notata da alcuni presenti, che hanno immediatamente allertato i soccorsi. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118, ma non hanno potuto far altro che constatare il decesso della donna.

Non è ancora chiaro se si trattasse di un’ospite della struttura alberghiera o di una persona esterna all’hotel.

Indagini in corso per chiarire le cause

Il caso è ora al vaglio dei carabinieri di Napoli e degli agenti della Questura, che stanno cercando di risalire all’identità della vittima e ricostruire le circostanze della tragedia.

Secondo i primi rilievi, la donna avrebbe 52 anni, ma rimane ancora incerto se si tratti di un suicidio o di un’azione violenta, con la possibilità che sia stata spinta da qualcuno.

Una zona centrale sotto i riflettori

Via Medina, cuore pulsante del centro cittadino, si è trasformata in uno scenario di sgomento e tensione. Gli investigatori stanno esaminando le immagini delle telecamere di sorveglianza dell’hotel e ascoltando eventuali testimoni per ottenere maggiori dettagli sull’accaduto.

Continua a leggere

Cronache

Caso Eni Nigeria: condannati due magistrati per rifiuto di atti d’ufficio

Pubblicato

del

Il processo legato alla presunta tangente Eni in Nigeria continua a far discutere. Lo scorso 8 ottobre, il Tribunale di Brescia ha condannato a otto mesi, con pena sospesa, l’ex procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro per il reato di rifiuto di atti d’ufficio. I due magistrati, che rappresentavano l’accusa nel procedimento sulla corruzione internazionale legata al blocco OPL 245, sono stati accusati di aver omesso deliberatamente prove favorevoli alla difesa, influenzando così il corso del processo.

Le accuse ai magistrati

Secondo le motivazioni della sentenza, De Pasquale e Spadaro avrebbero utilizzato solo le prove che supportavano la loro tesi accusatoria, escludendo intenzionalmente elementi contrari portati alla loro attenzione dal pm Paolo Storari. I giudici sottolineano come i due magistrati abbiano compiuto una “selezione ragionata” delle prove, oscurando deliberatamente quelle che avrebbero indebolito le loro accuse.

Tra gli elementi sottaciuti figurano:

  • Messaggi estratti dal telefono di Vincenzo Armanna, il grande accusatore dei vertici di Eni, in cui si faceva riferimento a presunte dazioni di denaro a favore di testimoni chiave.
  • Una chat di Telegram che suggeriva la contraffazione di documenti utilizzati nel processo.
  • Conversazioni con un manager nigeriano, Mattew Tonlagha, affinché confermasse la versione di Armanna durante una rogatoria.

I giudici hanno evidenziato che queste omissioni hanno condizionato indebitamente l’intero iter processuale, influenzando le strategie difensive degli imputati e ostacolando una valutazione imparziale dei fatti.

Il contesto e la marginalizzazione del pm Storari

Nella sua deposizione, il pm Paolo Storari ha denunciato un clima di isolamento e marginalizzazione all’interno della Procura, descrivendo un “gioco di squadra” volto a proteggere l’indagine sull’Eni Nigeria. Storari ha dichiarato:

«Io non venivo ascoltato in nulla. Non bisognava rompere le scatole a quel processo. Questa è la verità».

Secondo i giudici, l’obiettivo era quello di trasformare il Terzo Dipartimento della Procura, responsabile della corruzione internazionale, in un “fiore all’occhiello” dell’ufficio, giustificando così scelte organizzative e carichi di lavoro più leggeri rispetto ad altre sezioni.

Assoluzione nel merito e rinuncia all’appello

Il processo Eni Nigeria si è concluso con un’assoluzione collettiva con formula piena per tutti gli imputati, “perché il fatto non sussiste”. La Procura generale ha rinunciato all’appello, definendo i motivi “incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità”.

Implicazioni della sentenza

La sentenza del Tribunale di Brescia evidenzia come la discrezionalità nella gestione delle prove non possa sconfinare in scelte arbitrarie che compromettono il diritto a una difesa equa. I giudici hanno chiarito che:

«La piena autonomia dei magistrati nella scelta degli elementi probatori non può tradursi in una sconfinata libertà di autodeterminazione».

Questa vicenda solleva interrogativi sulla gestione delle indagini complesse e sui rischi di politicizzazione all’interno delle Procure.

(nella foto Imagoeconomica in evidenza Palazzo di Giustizia di Milano) 

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto