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Meloni al bivio tenta di rinviare il sì a Ursula

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Evitare che i nodi vengano al pettine finché non sarà inevitabile. Giorgia Meloni arriva a Bruxelles con questo obiettivo in testa innanzitutto. Il suo j’accuse recapitato alle Camere non è passato inosservato alle cancellerie europee, preannunciando una trincea di Roma sui top jobs Ue. Ma allo stesso tempo, per il governo, votare contro Ursula von der Leyen potrebbe avere delle conseguenze, tracciando una scomoda linea di demarcazione con la maggioranza alla guida dell’Europa. E’ in questo limbo che Meloni è chiamata a muoversi. Con un appendice: i tre partiti al governo dell’Italia, sulle nomine Ue, non la pensano allo stesso modo. Si va da FI – che è parte del Ppe e quindi dell’intesa su von der Leyen, Antonio Costa e Kaja Kallas – alla Lega, secondo la quale “quello che sta accadendo a Bruxelles puzza di colpo di Stato”.

Delle parole al vetriolo con cui Meloni si è scagliata contro Bruxelles all’Europa Building ne arriva solo l’eco. “Il suo è stato un approccio costruttivo”, spiega una qualificata fonte Ue. E’ stata “un po’ sottotono rispetto al G7, di solito è brillante”, osserva una fonte diplomatica di un grande Paese europeo. Nessun pugno sul tavolo, quindi, almeno nella prima parte del vertice, che solo in tarda notte è chiamato ad affrontare i top jobs Ue. E tutto questo perché, sotterraneamente, la trattativa tra la maggioranza Ursula e Meloni c’è. Con la chance di evitare un voto palese in seno al Conisglio sul terzetto von der Leyen-Antonio Costa-Kaja Kallas.

L’escamotage si chiama “consensus” e permette ai leader di non doversi ufficialmente esprimere contro o a favore una decisione del summit, ma semplicemente di non opporsi. E’ quello che più o meno è accaduto a dicembre scorso quando il Consiglio europeo ha dato il via ai negoziati per l’adesione dell’Ucraina. E in quel momento Viktor Orban, fino ad allora ostinatamente contrario, guarda caso è uscito dalla stanza. I precedenti raccontano che, nella maggior parte delle volte, le votazioni sono state separate. Nel caso di Donald Tusk e Jean-Claude Juncker giunsero proprio in due momenti differenti. Del resto, il presidente del Consiglio europeo viene “eletto” dal Consiglio stesso.

Mentre la presidente della Commissione e l’Alto Rappresentante sono “proposti” al Parlamento europeo. La forma, ancora una volta è sostanza. Charles Michel, spiega una fonte Ue, “valuta la situazione nella stanza”. E potendo optare, quindi, per mettere sul tavolo l’intero pacchetto di nomine, da approvare per consensus. Il nodo Italia plana anche sul tavolo del summit del Ppe. Sull’apertura a Ecr i Popolari rischiano di spaccarsi, con Antonio Tajani che, alla riunione del Sofitel, elenca uno ad uno i motivi per cui aprire a Ecr e non ai Verdi. L’attacco di Meloni, in fondo, ha complicato la stessa posizione del ministro degli Esteri. Non a caso, Tajani invita i Popolari a considerare che nel governo italiano siede anche il Ppe.

Alza la posta e mischia ancora le carte, chiedendo che il mandato di Costa duri solo 2 anni e mezzo. Tutti, al summit, concordano che l’approccio con Roma rispetto alla cena informale deve cambiare. Il presidente cipriota Nikos Christodoulides è il mediatore incaricato del faccia a faccia con la premier. I due, spiega una fonte del governo di Nicosia, “hanno un ottimo rapporto”. Donald Tusk, considerato da molti come il più scettico, nel Ppe, ad aprire alla premier italiana, entrando all’Europa Building ci mette del suo: “Non ci sarà alcuna decisione senza Meloni”.

Il sì ad Ursula di Roma resta legato alla richiesta di una vicepresidenza esecutiva della Commissione. “Un primo vice presidente sarebbe l’ideale”, spiega una fonte di governo. Si guarda alle deleghe su Industria e Commercio innanzitutto. Le stesse, o quasi, a cui punta Emmanuel Macron che ha riproposto la candidatura di Thierry Breton per “marcare da vicino” von der Leyen, come scrive Le Monde. Ma l’Italia ha le sue carte per convincere il Ppe: “Solo i voti di Ecr possono assicurare von der Leyen”, spiega Tajani. Trasformando in parole la silenziosa arma che la premier ha messo contemporaneamente sul tavolo dei 27.

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Salvini: lo scalo di Malpensa sarà intitolato a Berlusconi

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Un aeroporto intitolato a Silvio Berlusconi, in Lombardia, potrà presto diventare realtà. E se non sarà quello di Linate, vista la contrarietà del sindaco di Milano Giuseppe Sala, sarà lo scalo di Malpensa ad accogliere turisti italiani e stranieri con il nome del fondatore di Forza Italia, più volte presidente del Consiglio. L’annuncio è stato dato dal vicepremier Matteo Salvini. “Proprio oggi il cda dell’Enac ha approvato la richiesta di intitolare a Silvio Berlusconi l’aeroporto di Malpensa. E siccome l’ultima parola è del ministro dei Trasporti, penso proprio che il ministro dei Trasporti darà l’ok” ha detto Salvini, che è appunto ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, dal palco del ‘Forum in masseria’ in corso a Manduria, nella tenuta di Bruno Vespa.

Sulla proposta di intitolare lo scalo milanese di Linate a Berlusconi si era opposto invece il sindaco Sala, l’ultima volta il 17 giugno scorso, dopo che il Consiglio comunale aveva bocciato la mozione di Forza Italia che proponeva di intitolare un luogo pubblico all’ex premier. Sala, in particolare, ha sempre motivato la sua contrarietà con la regola dei dieci anni: il tempo che deve intercorrere tra la morte di un personaggio noto e l’intitolazione di un luogo pubblico. “Io difendo senz’altro la regola dei dieci anni – aveva ribadito Sala -. Per qualcuno, e non mi riferisco a Salvini ma in generale, le regole sono fatte per essere bypassate, per me le regole sono fatte per essere rispettate”. Favorevole all’iniziativa è invece il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana. “Un giusto tributo”: così il governatore ha commentato la notizia del via libera, da parte del Cda dell’Enac.

“Siamo certi che il vicepremier Matteo Salvini e il suo ministero – ha aggiunto – porteranno avanti questa proposta. Un riconoscimento che segue l’intitolazione a Silvio Berlusconi del Belvedere del 39° piano di Palazzo Lombardia, sede della giunta e luogo simbolo della nostra regione”. Diametralmente opposto il parere di Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd in Consiglio regionale. “Quella di intitolare l’aeroporto di Malpensa a Silvio Berlusconi mi pare una scelta davvero inopportuna. L’ex premier è stato un uomo divisivo e una persona con una storia molto ambigua, in cui molti lombardi e molti italiani non si riconoscono”. Esulta, infine, il partito fondato da Berlusconi.

“Grazie al cda di Enac per aver deliberato a favore di una proposta che, come Forza Italia ed insieme a Regione Lombardia, abbiamo sostenuto sin dall’inizio” ha scritto in una nota il deputato azzurro e sottosegretario di Stato al Mit, Tullio Ferrante. “È il giusto tributo – ha aggiunto – per l’immenso ruolo imprenditoriale, politico e istituzionale che Silvio Berlusconi ha ricoperto nella storia del Paese”. “Un’ottima notizia e un riconoscimento doveroso a una delle personalità occidentali più influenti della nostra epoca” ha commentato Gianluca Comazzi, assessore regionale al Territorio.

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Calenda a Schlein: il ‘campo largo’ è un’accozzaglia populista

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“Cara Elly Schlein, non è un problema di essere o non essere politici ma di cosa serve o non serve al paese. E un’accozzaglia populista e largamente filoputiniana con una spruzzata di centrino opportunista non serve a nulla. Buona strada”. Lo scrive sui suoi social il leader di Azione Carlo Calenda riferendosi a un articolo pubblicato oggi sulle pagine del Tempo in cui c’è un commento della segretaria del Pd Elly Schlein sulla costruzione delle alleanze nel campo del centrosinistra: “Con il successo che abbiamo avuto nelle ultime aministrative – sono le parole della segretaria Pd – tutti dovrebbero capire che non c’è un’alternativa al campo largo. E ci debbono essere tutti perchè per noi sarebbe più che funzionale la presenza di un ‘centro’ nel nostro schieramento. Ma deve essere un ‘centro’, non tanti ‘centri’. Ho parlato sia con Calenda che con renzi, ma per ora la vedo difficile riunirli. In realtà Renzi ha un afflato unitario, lui ha capito. Purtroppo Calenda no, è meno politico”.

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Salvini attacca Mattarella. Meloni: non strumentalizzarlo

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Hanno fatto rumore nel centrodestra le parole del presidente della Repubblica sui rischi di un “assolutismo” della maggioranza. Un rumore che ha provocato un riserbo silenzioso dalle parti del governo per tutta la giornata. Ci ha pensato alla fine la premier Giorgia Meloni a spegnere la miccia un po’ difendendo il messaggio di Mattarella un po’ attaccando a muso duro il Pd.

“Io francamente non ho letto un attacco al governo e penso che non si faccia un favore alle istituzioni di questa repubblica se ogni cosa che dice il presidente viene strumentalizzata come se fosse il capo dell’opposizione. Il discorso del presidente era un discorso molto alto ed è un discorso che io condivido”, premette la premier. Quel che serve per spegnere la miccia innescata da Matteo Salvini. Parole che vengono apprezzate anche da fonti vicine al Quirinale che ritengono “corretta” la valutazione del presidente del Consiglio sulle parole del capo dello Stato. Salvini, con un’uscita chiara e contundente, confutava il cuore del messaggio presidenziale sulle garanzie per le minoranze: “Assolutismo? Siamo in democrazia, il popolo vota, il popolo vince. Non faccio filosofia, ma politica. Semmai qui c’è il problema della dittatura delle minoranze, non il contrario”.

Un attimo di riflessione ed ecco rispuntare le diverse visioni sul Colle che si confrontano sempre più apertamente in maggioranza: “il capo dello Stato va sempre rispettato”, gli ha replicato gelido il vicepremier forzista Antonio Tajani. Non una parola di più ma stranamente, dopo poco (probabile che nel frattempo siano intercorsi contatti con Palazzo Chigi), fonti della Lega cercano di raffreddare una polemica che dal Quirinale si stava spostando dentro una maggioranza già alle prese con diverse gatte da pelare. “Matteo Salvini ha grande stima del presidente della Repubblica: la riflessione del vicepremier e ministro non era indirizzata al capo dello Stato”, provano a spiegare fonti del partito. Silenzio tranquillo invece al Quirinale dove, con un certo understatement, si spiega che quelle di Mattarella sono state parole che hanno ribadito ben noti concetti liberali peraltro contenuti in Costituzione. Ma che l’atmosfera sia tesa lo conferma il resto della dichiarazione di Giorgia Meloni che, dopo aver usato parole al miele verso il Colle, parte all’attacco del Pd: “a sinistra vedo gente che esulta come allo stadio” per le parole di Mattarella ma “se non esiste un assolutismo della maggioranza figuriamoci se può esistere un assolutismo della minoranza.

Lo abbiamo purtroppo visto quando la sinistra era al governo, quando c’era gente che perdeva le elezioni e che arrivava al governo e alla fine ti dicevano pure se potevi o non potevi uscire di casa”, spiega a Del Debbio su Rete4. Ma nel mirino ci sono i Dem: “il problema non è l’uomo solo al comando ma un sistema nel quale c’è solo il Pd al comando”. In questo clima la continua guerriglia di Salvini sui provvedimenti del governo sta mettendo a dura prova la pazienza della premier. Ma la linea di Chigi rimane “calma e gesso” soprattutto in questi giorni di attesa sospesa per il decisivo secondo turno di elezioni in Francia e il voto del Parlamento europeo sulle nomine atteso il prossimo 18 luglio.

Due settimane decisive per Meloni che sta subendo un danno d’immagine per le inchieste di Fanpage sui giovani di Fratelli d’Italia e si trova ai margini delle trattative per la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Senza contare l’avvicinamento di Salvini ai “patrioti” di Viktor Orban, che andrà da Vladimir Putin. Non c’è certo bisogno di aprire un altro fronte con il Quirinale dove, peraltro, Mattarella sta cercando di dare una mano alla premier ricordando a tutti i suoi interlocutori europei come l’Italia, Paese fondatore, non può essere lasciato fuori dalla governance continentale. Se a tutto questo si aggiunge il terribile ingorgo parlamentare di questi giorni, è logico che a Chigi si stiano studiando i passi futuri.

Perchè, se le elezioni europee hanno confermato che la luna di miele degli elettori con Giorgia non è finita, i dubbi – anche in maggioranza – sull’Autonomia differenziata e le difficoltà che sta incontrando il premierato hanno fatto scattare l’allarme. Sullo sfondo poi lo spettro della manovra economica di novembre che il nuovo Patto di stabilità (appena firmato anche dall’esecutivo italiano) costringe all’austerity per garantire il rientro dal debito.

Non mancano poi grane interne come il ruolo sempre più in bilico di un ministro, Daniela Santanchè, che potrebbero preludere a un rimpasto, soluzione della quale i media parlano da mesi. Riflessioni profonde che si spingono fino all’atomica di far tornare l’Italia al voto per ripartire con le mani ancora più libere. Sempre sperando che la luna di miele non finisca proprio con la legge di Bilancio per il 2025.

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