Collegati con noi

In Evidenza

Le nomine di Stato: rinvio per Cda Rai, decisioni attese per Cdp e Ferrovie, a Cinecittà De Mita

Pubblicato

del

Le nomine per il consiglio di amministrazione della Rai sono state rinviate, almeno per ora. Durante la riunione dei capigruppo alla Camera di ieri, non è stata discussa la calendarizzazione per il voto previsto a luglio, a causa di un’agenda legislativa estremamente fitta dovuta alla necessità di convertire numerosi decreti. Con il calendario delle sedute già pieno, la nomina dei quattro consiglieri Rai di spettanza parlamentare potrebbe slittare a settembre, insieme a quelle del nuovo amministratore delegato e presidente, indicati dal Tesoro.

Il 4 luglio è attesa una pronuncia del Consiglio di Stato in merito all’iter di nomina del consiglio di amministrazione della Rai, impugnato da alcuni candidati che lo ritengono illegittimo. Questa decisione potrebbe influenzare ulteriormente i tempi delle nomine.

A differenza della Rai, le nomine per altre due partecipate chiave, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e Ferrovie dello Stato (Fs), sono più imminenti. Entrambe le assemblee sono programmate per domani, e il Tesoro dovrebbe comunicare le liste per il rinnovo dei consigli di amministrazione.

Per Fs, l’accordo di fondo tra i partiti di maggioranza è stato raggiunto. La presidenza dovrebbe andare a Fratelli d’Italia con Tommaso Tanzilli come candidato più accreditato, mentre la posizione di amministratore delegato dovrebbe essere assegnata a Stefano Donnarumma, in quota Lega e gradito a FdI. Forza Italia, che aveva ambito alla presidenza di Fs, sarà indennizzata nella successiva partita Rai.

Per quanto riguarda Cdp, l’accordo prevede la riconferma di Dario Scannapieco come amministratore delegato da parte di Palazzo Chigi, mentre le fondazioni confermeranno Giovanni Gorno Tempini alla presidenza. Francesco Di Ciommo, vicino a Fratelli d’Italia, dovrebbe essere rinnovato nel board.

Altre nomine in fase di definizione includono Fincantieri, dove Teo Luzi è indicato come possibile presidente, e Cinecittà, dove Giuseppe De Mita dovrebbe assumere il ruolo di amministratore delegato e direttore generale, con Chiara Sbarigia confermata alla presidenza.

Le prossime settimane saranno decisive per le nomine nelle principali partecipate dello Stato, con un occhio particolare rivolto alle decisioni del Consiglio di Stato sul futuro del consiglio di amministrazione della Rai. Nel frattempo, gli accordi tra i partiti di maggioranza sembrano stabilire un quadro chiaro per le nuove direzioni di Cdp e Ferrovie dello Stato.

Advertisement

Esteri

Che succede se il presidente Usa abbandona la corsa

Pubblicato

del

Sono due i principali scenari nel caso Joe Biden decida di ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca. Il primo è che il presidente dia l’endorsement e passi il testimone – in una pacifica transizione di potere – alla sua vice Kamala Harris, che nei sondaggi è più impopolare di lui ma che appare solo 1-2 punti indietro (quindi nel margine di errore) in un ipotetico duello contro Donald Trump. Si tratta della scelta più ovvia e inevitabile, essendo Harris la sua erede naturale, anche in caso di morte o malattia durante la presidenza. Che si tratti della prima scelta lo confermano privatamente varie fonti della campagna di Biden e anche molti donatori che, pur non essendo entusiasti, ammettono come sia “impossibile ignorarla”.

Poi è vero che non è mai uscita dall’ombra di Biden, che non ha mai bucato lo schermo, ma è altrettanto vero che sta recuperando terreno e immagine su alcuni temi, come quello chiave dell’aborto. Inoltre potrebbe vantare il fattore età (59 anni) e la prospettiva di diventare la prima presidente donna e di colore, dopo aver toccato questo soffitto di cristallo come vicepresidente. Tra le possibili alternative Harris è anche la figura più nota, sia nel Paese che a livello internazionale, e potrebbe accedere subito ai fondi della campagna di Biden, oltre ad ereditare l’infrastruttura della sua campagna. Per lanciarla, il presidente dovrebbe però prima garantirsi l’appoggio di tutto il partito, proponendo quindi durante la convention di Chicago ai 3.894 delegati ottenuti nella primarie di votare per lei. In tal caso poi si porrebbe il problema di scegliere il suo vice. Se ci fossero invece forti e aperti contrasti su una candidatura Harris, si rischia lo scenario di una convention ‘brokered’, ossia aperta, dove – oltre alla vicepresidente – si sfidano vari candidati.

Tra i papabili i governatori della California Gavin Newsom, del Michigan Gretchen Whitmer e della Pennsylvania Josh Shapiro, nonché il segretario ai Trasporti Pete Buttigieg. Dovrebbero contendersi la maggioranza dei voti dei delegati di Biden e, se nessuno passasse al primo turno, entrerebbero in gioco i 700 super delegati, ossia dirigenti ed eletti del partito. Si rischiano caos e divisioni intestine per investire un candidato spuntato dal nulla e non selezionato dalle primarie, in un processo sicuramente meno trasparente e meno democratico. Ma forse nessuno dei papabili vuole rischiare una corsa in salita bruciando le proprie chance per il 2028. Resta in ogni caso un’incognita che rischia di anticipare i tempi della nomination rispetto alla convention che inizia il 19 agosto: il partito aveva in programma di fare una ‘roll call’ virtuale prima del 7 agosto per rispettare la scadenza elettorale in Ohio e certificare il candidato in modo che appaia sulle schede. Per cambiare cavallo quindi c’è poco più di un mese.

Continua a leggere

Esteri

Sfuma la maggioranza per l’ultradestra, Le Pen furiosa

Pubblicato

del

“Grottesco”: a quattro giorni dal secondo turno delle elezioni politiche anticipate, Marine Le Pen attacca il cosiddetto Fronte repubblicano, l’accordo riesumato al fotofinish da macroniani, gauche e destra moderata per scongiurare l’ipotesi che il Rassemblement National possa arrivare al potere nella seconda economia dell’Unione europea. Una strategia, quella delle desistenze anti-estrema destra, che sembra però rivelarsi molto efficace. L’ultimo sondaggio Harris vede il Rn allontanarsi dalla maggioranza assoluta, e di molto: il partito di Le Pen e del candidato premier Jordan Bardella dovrebbe ottenere al ballottaggio di domenica fra 190 e 220 seggi, lontanissimo dai 289 necessari.

Mentre le altre due coalizioni che si sono accordate per lo sbarramento repubblicano traggono vantaggio dalla situazione: il Nuovo Fronte Popolare della gauche otterrebbe fra 159 e 183 seggi; mentre Ensemble, l’arco dei partiti macronisti, conquisterebbe 110-135 deputati, una sconfitta comunque pesante, con una diminuzione di quasi la metà dei seggi. Ai Républicains andrebbero fra i 30 e i 50 scranni, un buon risultato considerata la scissione di Eric Ciotti, passato ad appoggiare il Rn. “La classe politica dà di sé stessa un’immagine sempre più grottesca”, ha tuonato in un messaggio pubblicato su X Marine Le Pen, evidentemente furiosa per il fatto che l’arco repubblicano possa sfilargli una vittoria che sentiva già in tasca. Nel rush finale, il paesaggio politico d’Oltralpe appare comunque più che mai imprevedibile: una volta superato lo scoglio delle desistenze – sono stati ben 218 i candidati di diverso colore politico che hanno accettato di ritirarsi dalle triangolari in funzione anti-Le Pen – resta il rompicapo di una coalizione anti-Rn pressoché introvabile, in un Paese per giunta poco incline alla cultura del compromesso.

“Non governeremo con La France Insoumise, una desistenza non significa una coalizione”, ha avvertito durante l’ultimo consiglio dei ministri di questo governo Emmanuel Macron, tornando a tracciare la sua linea rossa rispetto ad un esecutivo con il partito di Mélenchon, l’ala più radicale del Nouveau Front Populaire, considerata dai macroniani pericolosa almeno quanto il Rn. Sulla stessa linea il premier Gabriel Attal – responsabile della campagna della maggioranza uscente -, sempre più orientato verso una soluzione da trovare “in Parlamento”: “Né la France Insoumise, né il Nuovo Fronte Popolare né i nostri candidati – ha detto il primo ministro – sono in grado di formare una maggioranza assoluta. Al termine del ballottaggio, o ci sarà un governo di estrema destra o il potere passerà al Parlamento. Io mi batto per questo secondo scenario”. Una sorta di governo di unione nazionale, insomma, sul quale resta però il dilemma Mélenchon. Del resto è stato lo stesso leader Insoumis a dire che “solo due progetti sono sul tavolo, il Rassemblement National oppure il Nuovo Fronte Popolare”, mettendo all’angolo i macroniani.

Intervistato da Le Figaro, da parte sua Bardella ha denunciato alleanze anti-Rn destinate a “paralizzare il Paese” alla vigilia delle Olimpiadi di Parigi, dicendosi “pronto alla mano tesa” per ampliare la sua maggioranza. Oggi il ventottenne ha tentato di minimizzare l’impatto delle rivelazioni su alcuni candidati impresentabili, tra filo nazi, razzisti e antisemiti, ma anche un settantenne condannato nel 1995 per una presa d’ostaggi a mano armata. “Quando ci sono delle pecore nere, non tentenno”, ha assicurato il politico di origini italiane, evocando il ritiro delle candidature più imbarazzanti per il suo partito. Se riusciranno a fermare l’avanzata lepenista, macroniani, gauche e alcuni eletti repubblicani potrebbero avere il difficile compito di formare un governo tecnico, basato su una grande coalizione.

Concetti familiari in grandi Paesi europei come l’Italia o la Germania ma pressoché sconosciuti nella Quinta Repubblica francese, tradizionalmente poco incline alle larghe intese. La leader ecologista, Marine Tondelier, tra le figure in crescita di questi giorni e membro del Nouveau Front Populaire, ha riassunto la situazione in una formula: “Bisogna fare cose che nessuno ha mai fatto prima”. Mentre l’ex premier Edouard Philippe, tra le personalità di riferimento del centrodestra moderato, si è spinto fino ad annunciare che voterà per un candidato comunista, di cui rispetta “l’impegno democratico”, pur di fermare l’estrema destra lepenista.

Continua a leggere

Esteri

Israele uccide un capo di Hezbollah, cento razzi dal Libano

Pubblicato

del

La guerra non dichiarata tra Israele e Hezbollah scivola ogni giorno di più verso una escalation militare totale. Solo oggi dal Libano sono arrivati, in una unica tornata, oltre 100 razzi dopo l’uccisione da parte di Israele di un alto comandante dei miliziani sciiti, alleati dell’Iran, che hanno aperto le ostilità l’8 ottobre scorso a distanza di un giorno dall’attacco di Hamas. Il comandante ucciso, come ha confermato l’Idf, è Abu Ali (o Muhammad Nimah) Nasser, responsabile di uno dei tre settori del Libano sud. Comandava, secondo le stesse fonti, il gruppo Aziz, una delle 3 divisioni regionali di Hezbollah al confine con Israele. E’ stato colpito in un attacco con un drone ad al Hawsh, a est di Tiro, 90 chilometri a sud di Beirut. Ricopriva un incarico, ha spiegato l’esercito, pari a quello di Taleb Abdallah, altro comandante militare di Hezbollah ucciso l’11 giugno scorso.

“Nasser – ha detto il portavoce militare – era responsabile del lancio dei missili anti tank e dei razzi dal sud-ovest del Libano verso Israele”. A dare il quadro sempre più pericolante della situazione è stato lo stesso ministro della difesa israeliana Yoav Gallant. I tank in uscita dall’operazione di terra a Rafah “possono arrivare fino al fiume Litani”, ha detto, riferendosi al fiume in Libano a circa 16 chilometri a nord della frontiera con Israele.

“Stiamo colpendo duramente Hezbollah e – ha aggiunto – siamo in grado di intraprendere qualsiasi azione necessaria in Libano o a raggiungere un accordo da una posizione di forza. Preferiamo un accordo, ma se la realtà ce lo impone, sapremo combattere”. La linea del fiume Litani è quella oltre la quale Israele vuole ritornino gli Hezbollah. “Il Libano diventerà sicuramente un inferno senza ritorno per i sionisti, in caso portassero avanti qualunque aggressione contro il Paese”, ha minacciato invece il ministro degli esteri dell’Iran, Ali Bagheri, aggiungendo che “la resistenza libanese ha giocato un ruolo attivo sul piano operativo e diplomatico, con la conseguente formazione di una forza deterrente nel caso in cui scoppiasse una guerra”.

La situazione di conflitto a Gaza, dove l’Idf continua ad operare nel sud della Striscia, e la crescente tensione al nord, senza dimenticare l’attentato terroristico che a Karmiel è costato la vita ad un soldato, non ha impedito ad Israele, secondo l’ong Peace Now, di prendere due provvedimenti molto contestati. Il primo riguarda la designazione di “terra statale” di 2.965 acri nella Valle del Giordano, idonei dunque per lo sviluppo futuro: il maggiore intervento di questo tipo dalla firma degli Accordi di Oslo del 1993. Al tempo stesso, l’ong ha fatto sapere che a giorni il Consiglio di pianificazione discuterà piani per la costruzione di 6.016 unità abitative in dozzine di insediamenti ebraici in Cisgiordania.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto