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Politica

L’Italia a giudizio alla Cedu per la legge elettorale

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L’Italia dovrà spiegare all’Europa se le diverse modifiche apportate negli ultimi anni alla legge elettorale hanno violato la libertà di voto dei cittadini: la Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha ammesso il ricorso avanzato dall’ex segretario dei Radicali italiani Mario Staderini e da alcuni cittadini secondo i quali proprio quei cambiamenti hanno comportato la violazione dei diritti nelle elezioni politiche del settembre 2022, quelle vinte da Giorgia Meloni. L’accoglimento del ricorso risale a febbraio ma la notizia si è diffusa oggi e ora il governo ha tempo fino al 29 luglio per replicare. Palazzo Chigi sta preparando la memoria difensiva: “la Cedu ha posto delle questioni – dice il sottosegretario Alfredo Mantovano – e si sta lavorando. Ovviamente riteniamo il ricorso non fondato”.

Il ricorso è stato depositato alla fine di gennaio del 2023 da Staderini – segretario dei Radicali Italiani dal 2009 al 2013 – e da diversi cittadini: alle elezioni del 2022 in circa 500 sono andati ai seggi verbalizzando il loro dissenso e spiegando le ragioni dell’astensione. E quella documentazione è alla base della richiesta alla Cedu, che riguarda “l’instabilità della legge elettorale e la compatibilità” del Rosatellum “con il diritto a libere elezioni, garantito dall’articolo 3 del protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti umani”. “Negli ultimi 20 anni – sottolinea Staderini – ci hanno costretto ad eleggere parlamenti con leggi incostituzionali o introdotte e modificate a ridosso del voto, ingenerando l’idea che i sistemi elettorali siano uno strumento che chi esercita il potere manovra a proprio favore e che il voto dell’elettore serva a poco. Prima il Porcellum, poi il Rosatellum, domani chissà cosa”.

Lo individua il deputato di Alleanza Verdi e sinistra Angelo Bonelli, il ‘cosa’: la decisione della Cedu “mette in seria discussione il premierato voluto da Meloni”. Nel ricorso si afferma che prima delle elezioni del 2022 il sistema elettorale è stato modificato tre volte: con la legge costituzionale numero del 2019 che ha ridotto il numero dei parlamentari, con la legge 177 del dicembre 2020 sulla redistribuzione elettorale e con la legge del giugno 2022 che ha esentato alcuni partiti all’obbligo di raccolta delle firme per la presentazione delle liste a livello nazionale. Quanto alle modalità di voto, dicono ancora i ricorrenti, un articolo del Rosatellum contrasta con il principio della libertà di voto: in sostanza non consente di esprimere il voto separato, vale a dire dare al proporzionale una preferenza per una lista o coalizione diversa da quella indicata nel maggioritario. Ed inoltre, nel caso in cui il cittadino voti solo per il candidato nel maggioritario, il suo voto viene assegnato automaticamente alla lista o alla coalizione nel sistema proporzionale. Alla luce di ciò, la Cedu ha formulato tre domande al governo. La prima si concentra sulle modifiche apportate nel 2019, 2020 e 2022, “queste ultime introdotte solo 3 mesi prima delle legislative” osserva la Cedu, che vuole sapere se “i cambiamenti al sistema elettorale hanno minato il rispetto e la fiducia dei ricorrenti nell’esistenza di garanzie di libere elezioni”.

In seconda battuta la Corte chiede se il Rosatellum, “impedendo agli elettori di votare nel sistema proporzionale per una lista o coalizione diversa da quella scelta nel sistema maggioritario e attribuendo automaticamente il voto espresso nel sistema maggioritario alla lista o coalizione corrispondente nel sistema proporzionale, ha violato il diritto dei ricorrenti di esprimersi liberamente sulla scelta del corpo legislativo in libere elezioni”. Ed infine, i giudici vogliono sapere se i cittadini hanno la possibilità di introdurre un ricorso “effettivo” davanti alle istanze nazionali, come prevede l’articolo 13 della convenzione europea dei diritti umani, se ritengono violati il loro diritto a libere elezioni.

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Economia

Allarme Mattarella, preoccupano precariato e salari bassi

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“I dati dell’occupazione in Italia segnano una crescita che conforta”. Con questa premessa il presidente della Repubblica riconosce i dati dell’Istat ma va più a fondo di quanto da giorni si limita a sottolineare la maggioranza. Ci sono nel Paese reale, sottolinea Sergio Mattarella, parlando al Quirinale davanti alla ministra del Lavoro Elvira Calderone, evidenti segni di disagio determinati dal precariato diffuso e dalla piaga dei salari troppo bassi che portano milioni di cittadini ad entrare nella categoria del “lavoro povero”.

Infatti il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i premiati con “le Stelle del lavoro”, si concentra su un’analisi cruda della situazione: “l’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontario, e da precarietà. Si tratta di un elemento di preoccupante lacerazione della coesione sociale”.

Una preoccupazione tira l’altra e il presidente parla anche di discriminazioni territoriali e così facendo, pur senza nominarla, fa capire che il warning è diretto alla riforma dell’Autonomia: “le Regioni – in base all’art. 120 – non possono adottare provvedimenti che ostacolino, in qualsiasi modo, la libera circolazione delle persone e delle cose; e – aggiunge – neppure limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale”. Sono Sanità pubblica e lavoro quindi i crucci di Mattarella che proprio in questi giorni sta battendo sull’importanza di mantenere quel modello sociale di “Welfare universalistico” che affonda le sue radici nella costituzione repubblicana.

“Con il lavoro, con l’apporto decisivo delle organizzazioni dei lavoratori, si è costruito – sottolinea – il welfare italiano, elemento basilare dei diritti di cittadinanza”. L’obiettivo della classe politica deve essere, per il presidente, sempre quello di raggiungere “la massima occupazione possibile” ma senza dimenticare la qualità del lavoro e soprattutto la sicurezza la cui mancanza in Italia è diventata “una piaga intollerabile”: “la vita delle persone – ricorda agli imprenditori – vale immensamente più di ogni profitto, interesse o vantaggio produttivo”.

Oltre alla qualità del lavoro ed al basso livello di sicurezza purtroppo in Italia permane un ulteriore intollerabile elemento che è la condizione in cui sono tenuti gli immigrati “sovente esposti a uno sfruttamento spietato, inconciliabile con la nostra civiltà”. Un j’accuse che non poteva che chiudersi con un richiamo finale, che il presidente da anni reitera in ogni occasione, sulla questione femminile. La Costituzione “stabilisce – all’art. 37 – che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, deve avere le stesse retribuzioni che spettano ai loro colleghi di genere maschile. Sappiamo che il cammino per giungere al rispetto di questo principio è tuttora da concludere ma va ricordata questa prescrizione e il conseguente dovere delle istituzioni di operare per renderla ovunque effettiva”.

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Politica

Endorsement Vannacci per Bucci, “una decima per Marco”

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In una campagna elettorale che sembra non finire mai e che gira sempre sui temi del porto, della sanità, della legalità e del lavoro, irrompe il generale Roberto Vannacci che alla Spezia ha aperto il suo intervento con una gaffe e una provocazione: “Non sono spezzino perché alla Spezia sono solo nato. Ma se esistesse lo ius soli, come vorrebbe la sinistra – ha ironizzato -, allora lo sarei”. Il luogo di nascita, ha proseguito il generale, “potrebbe essere solo il luogo dove in quel momento uno si trova, ma non trasmette quello che invece trasmettono famiglia, sangue, tradizioni, storia. Voi siete liguri e vi riconoscete in quelle che sono le peculiarità del gruppo sociale che rappresentate. Chi si oppone al centrodestra in Liguria – ha quindi avvertito -l’identità ligure vorrebbe cancellarla, dicendo che siamo tutti uguali, vorrebbe aprire le frontiere”. Vannacci non poteva non parlare dei temi caldi di questa campagna elettorale come l’immigrazione e la microcriminalità, per poi lanciarsi nel vero e proprio appello al voto a favore di Bucci, consigliando di fare la Decima (la X, ovviamente) nel posto giusto.

“Vogliamo un’amministrazione che non ha mai cercato di favorire la costruzione di infrastrutture? – ha chiesto Vannacci – Che si è opposta alla costruzione della Gronda? Che si oppone all’ingrandimento del porto di Genova? Che ci vieti di usare le nostre auto e ci imponga di spendere per comprare auto elettriche? In Liguria dobbiamo vincere a tutti i costi. Mi raccomando la ‘decima’ fatela nel posto giusto”. Ma la giornata è lunga e non finisce con i ‘mot à dire’ di Vannacci. Andrea Orlando, tra i tanti temi discussi (e in particolare modo la sanità, sulla quale controbatte spesso il suo competitor Marco Bucci) è tornato a ventilare l’ombra lunga dell’ex governatore Giovanni Toti dietro al candidato Bucci.

“È nostro dovere ricordare ai liguri che votando Bucci voteranno il terzo mandato di Toti e il proseguimento di tutto quello che è stata la sua esperienza di governo, dal collasso della sanità pubblica in giù – ha detto Orlando -. E questo a prescindere dalla vicenda giudiziaria, anche se sinceramente dopo essere stato il ministro della Giustizia che ha firmato il 41 bis per Provenzano e Riina, ha approvato il Codice antimafia ancora vigente, reintrodotto il reato di falso in bilancio e il reato di autoriciclaggio, a fare finta di niente su certe cose non ci sto, e sono ancora convinto la gran parte dei liguri non si siano assuefatti ancora a certe pratiche”. Poi l’affondo parlando di quel ‘Modello Liguria’ che è stato spesso motivo di vanto e slogan perfetto nella campagna elettorale del centrodestra. ‘Fantomatico’ lo ha definito Orlando, un ‘modello’ che sappiamo benissimo non essere praticabile per il futuro” e che è “diventato ormai un brand negativo”.

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Sanità, sfida sui numeri tra Meloni e Schlein

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La manovra non è ancora approdata in Parlamento ma è già guerra dei numeri tra maggioranza e opposizione sul fronte della sanità. La premier Giorgia Meloni apre la giornata biasimando le “mistificazioni” su questo fronte e rivendicando, dati alla mano, un “record storico” con l’aumento del Fondo sanitario nazionale salito a 136,48 miliardi nel 2025 e 140,6 miliardi nel 2026. Ma la segretaria Dem Elly Schlein va allo scontro proprio attaccandosi a quei numeri e sottolineando come il calcolo non vada fatto tanto “sui dati assoluti” ma guardando alla percentuale sul Pil, scesa di mezzo punto rispetto al 2010. “La percentuale più bassa – dice Schlein – degli ultimi 15 anni”. Non manca chi dalla maggioranza ironizza: “Se il Pil fosse a zero allora non andrebbero stanziati fondi?”.

Ma tant’è. Anche Giuseppe Conte va all’attacco: il record lo racconti “ai 4,5 milioni di italiani che non si possono curare”. Critiche che arrivano anche dal presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta che invita Meloni a lasciare i record al mondo sportivo e cita il Dpb che prevede “860 milioni in più nel 2025”. Lo scontro, insomma, resta aperto mentre la Camera è in attesa dell’arrivo della manovra in linea con i tempi previsti per legge (ma in realtà da sempre poco rispettati) all’inizio della prossima settimana plausibilmente – secondo fonti di maggioranza – non prima di martedì quando è prevista anche una conferenza stampa della premier per presentare le misure. Il testo, secondo quanto viene riferito, in giornata non era ancora approdato al Quirinale mentre il decreto fiscale, che prevede, tra l’altro, il rifinanziamento dell’Ape sociale e fondi per gli straordinari delle forze di polizia, dovrebbe essere pubblicato a stretto giro in Gazzetta e il suo esame potrebbe partire da Palazzo Madama. Proprio al Senato, intanto, il ministro Giancarlo Giorgetti è intervenuto al question time rivendicando le scelte fatte.

“A questa manovra – ha detto il titolare del Mef – si può contestare qualsiasi cosa, ma non che vada contro i poveri Cristi”. E anche per quanto riguarda il ‘sacrificio’ chiesto a banche e assicurazioni Giorgetti ha sottolineato: “Va bene così, guardate lo spread”. Parole di certo non casuali anche in vista dei primi giudizi delle agenzie di rating sull’Italia. S&P Global Ratings e Fitch si esprimeranno domani in serata a mercati chiusi. Per quanto riguarda il contributo degli istituti di credito, tra l’altro, il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, parla di “sacrificio sopportabile”. Perchè, osserva, di questo si tratta visto che “rinviare dei crediti di imposta è un sacrificio, la convenienza è a scontarli subito”. Si tratta invece di una mera partita di giro secondo le opposizioni: “Nella manovra – dice Nicola Fratoianni – nessuna nuova tassa per banche ed assicurazioni ma viene chiesto un semplice prestito”.

“La prossima manovra – dice Iv con Silvia Fregolent – non la pagheranno le banche, ma i cittadini che già pagano le tasse, saranno i single, i nonni, le famiglie con figli adulti”. In attesa delle carte, in ogni caso, lo scontro è già aperto e si consumerà ancora di più quando con la manovra in Parlamento si scateneranno gli ‘appetiti’ dei partiti. Nella maggioranza se la linea degli ‘emendamenti zero’ che ci fu lo scorso anno viene al momento esclusa è comunque in atto una moral suasion per limitare o comunque concordare le richieste. Tra quelle dell’opposizione c’è certamente quella del congedo paritario. Sul fronte dei neo-genitori, oltre alla Card bebè di mille euro, un primo passo in avanti è stato fatto con l’allungamento di un mese del congedo all’80%. Ma le opposizioni, Pd in primis, lo chiedono di 5 mesi paritario e non trasferibile. Un punto sul quale Elly Schlein in passato ha fatto sapere di non aver trovato una preclusione da parte della premier. “Vediamo che proposta ci fanno – dice in proposito il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon – e siamo pronti a vagliarla. Non siamo contrari”.

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